Quando Calvino rispose a Magris sul tema aborto

Caro Magris,
con grande dispiacere leggo il tuo articolo Gli sbagliati (1). Sono molto addolorato non solo che tu l’abbia scritto, ma soprattutto che tu pensi in questo modo.
Mettere al mondo un figlio ha un senso solo se questo figlio è voluto, coscientemente e liberamente dai due genitori. Se no è un atto animalesco e criminoso. Un essere umano diventa tale non per il casuale verificarsi di certe condizioni biologiche, ma per un atto di volontà e d’amore da parte degli altri. Se no, l’umanità diventa – come in larga parte già è – una stalla di conigli. Ma non si tratta più della stalla «agreste», ma d’un allevamento «in batteria» nelle condizioni d’artificialità in cui vive a luce artificiale e con mangime chimico.
Solo chi – uomo e donna – è convinto al cento per cento d’avere la possibilità morale e materiale non solo d’allevare un figlio ma d’accoglierlo come una presenza benvenuta e amata, ha il diritto di procreare; se no, deve per prima cosa far tutto il possibile per non concepire e se concepisce (dato che il margine d’imprevedibilità continua a essere alto) abortire non è soltanto una triste necessità, ma una decisione altamente morale da prendere in piena libertà di coscienza. Non capisco come tu possa associare l’aborto a un’idea d’edonismo o di vita allegra. L’aborto è «una» cosa spaventosa «…».
Nell’aborto chi viene massacrato, fisicamente e moralmente, è la donna; anche per un uomo cosciente ogni aborto è una prova morale che lascia il segno, ma certo qui la sorte della donna è in tali sproporzionate condizioni di disfavore in confronto a quella dell’uomo, che ogni uomo prima di parlare di queste cose deve mordersi la lingua tre volte. Nel momento in cui si cerca di rendere meno barbara una situazione che per la donna è veramente spaventosa, un intellettuale «impiega» la sua autorità perché la donna sia mantenuta in questo inferno. Sei un bell’incosciente, a dir poco, lascia che te lo dica. Non riderei tanto delle «misure igienico-profilattiche»; certo, a te un raschiamento all’utero non te lo faranno mai. Ma vorrei vederti se t’obbligassero a essere operato nella sporcizia e senza poter ricorrere agli ospedali, pena la galera. Il tuo vitalismo dell’«integrità del vivere» è per lo meno fatuo. Che queste cose le dica Pasolini, non mi meraviglia. Di te credevo che sapessi che cosa costa e che responsabilità è il far vivere delle altre vite (2).
Mi dispiace che una divergenza così radicale su questioni morali fondamentali venga a interrompere la nostra amicizia (3).

Parigi 3/8 febbraio 1975

Note
(1) L’articolo di Magris era uscito sul Corriere della sera del 3 febbraio 1975. Calvino gli risponderà con l’articolo “Che cosa vuol dire «rispettare la vita»” ( Corriere della sera , 9 febbraio 1975; poi in “Saggi”, pp. 2262-67): in esso si leggono frasi ed espressioni identiche a quelle della lettera, che va quindi datata fra il 3 e l’8 febbraio. Si veda anche la lettera a Giorgio Manganelli del 22 gennaio 1975.
(2) Nella minuta segue un capoverso cancellato: «Anche la prima parte del tuo articolo sui figli inguaribili, mi pare di una grave superficialità dando per scontato una sacralità della vita in tutte le sue forme che non vuol dir niente, che finisce per sminuire l’eroismo dei tanti casi che conosco di vite sacrificate per figli mongoloidi o paralitici».
(3) I rapporti fra Magris e Calvino saranno in seguito ristabiliti.

*La lettera e le note esplicative sono tratte dal volume I. Calvino, Lettere 1940-1985” curato da Luca Baranelli, pubblicato dai Meridiani Mondadori, Milano 2000 (pp. 1264-66)

Della serie, “quando c’erano davvero i laici”…

Fonte: Liberazione.it

30 commenti

nihil84

Tributo tutto il mio rispetto e la mia ammirazione ad un uomo che per dei sani principi si sente in dovere di rompere anche una vecchia amicizia.

Naturalmente anche le fratture più profonde possono essere riparate col tempo e con la comprensione reciproca…

Bruno Gualerzi

Questo diceva Calvino nel 1975. Se, usando questi stessi argomenti e questi stessi toni, lo si dicesse oggi, come minimo metà della ‘cultura’ attuale replicherebbe indignata.
Non male come ‘progresso’…

ci_acca

Calvino e’ stata una delle grandi menti illuminate di questo secolo.
Il fatto che un tale scritto risalente a 30 anni risulti ancora cosi’ attuale mi pare davvero tema su cui meditare a lungo.

Francesca

A onor del vero Pasolini diceva di essere contrario all’aborto ma favorevole alla sua legalizzazione, onde evitare che le donne venissero operate in condizioni pietose. Detto ciò, io concordo in tutto per tutto con il punto di vista di Calvino, che dimostra una grande sensibilità umana e un ormai raro senso di responsabilità civile.

Giovanna

@ Bruno Gualerzi

Parecchi esponenti della “cultura” attuale, plasmata ad immagine e somiglianza degli unti e bisunti degli ultimi decenni, non solo replicherebbero indignati a Calvino ma addirittura lo bollerebbero come “ateo sghignazzante”.

Graziella

Calvino dimostra una vera sensibilità su questo soggetto e lo ammiro per il rispetto verso le donne. Da un punto di vista cristiano la faccenda prende un’altra piega. La natura non è perfetta. Se un figlio nasce malato bisogna accettarlo. Non sono d’accordo, invece, su interventi terapeutici che prolungherebbero la vita. Una grande dose d’amore è sufficiente a far vivere una creatura non” normale”
Graziella Canada

anteo

E’ straordinaria la furbizia con la quale la parte più retriva della società sta impedendo la discussione dei temi di oggi , invece di dibattere (per esempio) di testamento biologico, siamo costretti a ripercorrere il dibattito sulla legge 194.
Bravissimi i redattori di liberazione che ripubblicano la lettera di Calvino, una delle migliori risposte contro gli oscurantisti di ieri e di oggi.
Peccato sia difficile , ma non impossibile, rileggere il dibattito parlamentare, sicuramente troveremmo una discussione di alto livello certamente utile per gli altri dibattiti.

Valentino Salvatore

C’è da dire, per completezza, che la posizione di Pasolini (deducibile ad esempio da “Scritti corsari”) era caratterizzata soprattutto da accenti tendenti sullo spiritualistico spinto (tipo, parafrasando e ricordando – quindi con tutti i problemi del caso – “la vita ha un insopprimibile volontà di nascere”, e altre dichiarazioni vitalistiche, ecc.), da una non leggera critica al progressismo, alla scienza, alla società moderna e al consumismo. Insomma, una posizione che tende al tradizionalismo e che si concilia bene con quelle di Ferrara e simili (che infatti lo riprendono abbondantemente). Ho il timore che Pasolini, se parlasse oggi, lo farebbe con accenti fin troppo simili a quelli di Ferrara – forse solo meno crudi e violenti.

Stefano Bottoni

Nel mio piccolo (non sono certo all’altezza nè di Calvino nè di Pasolini) conosco il dramma di una donna costretta ad abortire. Si tratta di mia moglie, quando era incinta da parte del suo primo marito, che la maltrattò fino a danneggiare irrimediabilmente il feto che aveva in grembo.
Me ne parlò piangendo, prima che le chiedessi di sposarmi. Per me non c’era il minimo problema.
Lei lo conosce immensamente meglio di me. Ma io, almeno, ho potuto farmene una, per quanto piccola, idea. E ho sofferto con lei.
Chi è contrario all’aborto (ma, guarda caso, non a una guerra che ha provocato centinaia di migliaia di morti) DOVREBBE SOLO STARSENE ZITTO!!!

Tommaso M.

Trovo scorretto pubblicare la replica di Italo Calvino senza affiancare ad essa l’articolo di Claudio Magris. Non per ragioni di volgare “par condicio”, bensì dal momento che quella di Calvino è una missiva privata, scritta in risposta ad un intervento pubblico, e difficilmente la si può comprendere ignorando il primo dei due testi.
Segnalo, comunque, che il pezzo “Gli Sbagliati” è reperibile nel volume di Magris “Dietro le parole” (Milano, Garzanti 2002, pp. 49-53), e da esso cito.
In quel testo, Magris prendeva le mosse da un precedente articolo di Giuseppe Montalenti per chiedersi se non vi sia il rischio che “l’individuo sbagliato, cioè il minorato, il focomelico, il malato mentale e così via, nell’amplissimo ventaglio di menomazioni e inferiorità nel quale i cosiddetti sani relegano tutti coloro con cui essi negano la dignità umana, riceve o no il diritto di esistere non in base alla preoccupazione per la sua sorte, bensì alla preoccupazione per i i fastidi e gli oneri arrecati alla società: spese, necessità di mutare situazioni sociali e istituzioni pedagogiche e così via” (p. 50). Ed aggiungeva: “La prima colpa dell’aborto risiede certo nella nostra società feroce che addossa ogni responsabilità alla donna, che emargina e rifiuta la ragazza madre, che trascura ogni iniziativa per porre realmente figli naturali o abbandonati in condizioni di parità, che ostacola i mezzi anticoncezionali; è dello stato che non persegue l’aborto quand’esso viene praticato nell’ovattato silenzio di cliniche frequentate da rispettabili borghesi e gestite da stimati professionisti” (p. 51).
A me non pare che il ragionamento di Magris possa essere tacciato di clericalismo o moralismo. Credo rispecchi, invece, preoccupazioni legittime, condivisibili anche da parte di chi (soprattutto da parte di chi, mi verrebbe da dire), come il sottoscritto, difende la legge 194 ed è elettore radicale, deciso a tutelare la libertà di scelta delle donne.
Per venire, comunque, a Calvino, io scorgo un evidente salto logico nel suo argomentare.
Dice l’autore: “Mettere al mondo un figlio ha un senso solo se questo figlio è voluto, coscientemente e liberamente dai due genitori”. E specifica: “Solo chi – uomo e donna – è convinto al cento per cento d’avere la possibilità morale e materiale non solo d’allevare un figlio ma d’accoglierlo come una presenza benvenuta e amata, ha il diritto di procreare; se no, deve per prima cosa far tutto il possibile per non concepire (…)”. Ma, successivamente, aggiunge: “e se concepisce (dato che il margine d’imprevedibilità continua a essere alto) abortire non è soltanto una triste necessità, ma una decisione altamente morale da prendere”.
Ora, a mio avviso, la scelta della protezione e la scelta dell’aborto non possono in alcun modo essere equiparate. Qualche sia la nostra, personale idea di “vita umana”, mi pare difficilmente negabile che l’interruzione di gravidanza precluda la possibilità di nascere, crescere e svilupparsi ad una persona – una “futura” persona, certo, una persona “in potenza” – senza che essa possa offrire il suo consenso. Si tratta, insomma, di un atto autoritativo, tecnicamente arbitrario, destinato ad incidere su chi non può ancora scegliere.
E’ indubbio che il senso morale – come lo definisce Calvino – dei genitori possa farsi carico di eventuali menomazioni da parte del bambino, e giungere quindi alla dolorosa scelta di non
farlo nascere. Eppure, l’ordinamento giuridico tende – più che giustamente – a circoscrivere la facoltà di padre e madre di decidere in merito ai propri figli in numerosi ambiti: dalle scelte educative, alla salute, in materia di separazione et cetera. Questo perché la legge italiana si fa carico delle esigenze anche (e soprattutto) della parte più debole, di chi non ha voce, di chi non è né può essere rappresentato.
La scelta dell’aborto, per quanto comprensibile sul piano umano, non può quindi non creare dilemmi etici. Negare ad un disabile, o ad un figlio “sgradito”, la possibilità di costruirsi una vita genera un’evidente violazione del principio di autonomia del nascituro. In un ottica rigorosamente razionalistica, kantiana, integralmente laica, riesce difficile considerare “morale” un’estensione così ampia di misure paternalistiche, per quanto nobili, a scapito della salvaguardia dell’autonomia del non-nato.
Ho sempre concepito la 194 come il mezzo più idoneo per garantire alla donna la facoltà di godere pienamente del proprio corpo, di ricorrere a strumenti dignitosi per esercitare la propria libera scelta.
Ma davvero non riesco a concepire la legge sull’aborto come insieme di norme miranti a garantire un “diritto”, equiparabile ad altri diritti assoluti della persona, anziché come una dolorosa e necessaria depenalizzazione.
Se tale posizione, in virtù del mio essere uomo, sarà da qualcuno interpretata come maschilismo, sessismo, nostalgia del patriarcato, o vi si scorgerà il cinismo distaccato di chi non subirà il “raschiamento dell’utero”, me ne scuso.
Personalmente – da laico – non amo granché le censure preventive, né le discriminazioni “a prescindere”. Posso giurare, però, per tornare a Calvino, di essermi morso la lingua non tre, ma trecento volte prima di inoltrare il presente commento.

Scusandomi per la lunghezza, invio cordiali saluti.
Tommaso M.

Bruno Gualerzi

Tutto vero circa quanto riportato da Valentino Salvatore a proposito di Pasolini…
Non dimentichiamo però che le critiche di Pasolini al progressismo (credo che sia sua la distinzione tra ‘sviluppo’ e ‘progresso’: semplificando, il primo negativo e il secondo positivo), al consumismo, in generale alla società moderna, contenevano spunti tutt’altro che disprezzabili, e che in genere era attaccato dalla destra e dai benpensanti di allora, soprattutto per i suoi romanzi e per la produzione filmica. Per non parlare della sua omosessualità, che disturbava anche la sinistra, sempre di allora, cui per altro voleva appartenere. Benpensanti ai quali magari adesso (Andreotti in testa) fa comodo ‘chiedere scusa’ e arruolarlo fra le sua fila, perché in effetti – e qui concordo pienamente – il suo vitalismo sconfinava con lo spiritualismo (per quanto mi riguarda, sono sinonimi). In quanto poi alla sua denuncia, negli ultimi tempi, di certi aspetti del sessantottismo (gli studenti ‘borghesi’ che attaccavano i poliziotti ‘proletari’), per quanto populistica, era anche profetica: sai quanti accaniti ‘rivoluzionari’ di allora ce li siamo poi trovati tra i più feroci sostenitori del berlusconismo?
Detto questo però, temo proprio che, se fosse ancora vivo, sarebbe più in sintonia con Ferrara che con i suoi critici… Ed è meglio – ovviamente solo da questo punto di vista – che se ne sia andato (fatto andare, per la verità) prima dei tempi attuali.

Miao

2 piccole osservazioni:
– Sono passati 33 anni dalla lettera. Siamo forse tornati indietro se sembra scritta ieri? O era calvino avanti?
– Peccato che oggi manchino proprio persone come Calvino. Può essere che i migliori siano tutti andati? Mi consolo con l’idea che tutti i “potenti” di oggi sono condannati ad un misero oblio. Sono insignificanti.

Magar

Splendida, stupenda, meravigliosa lettera di Calvino.
Chapeau!
(E complimenti anche alla redazione di Liberazione per essersene ricordati, ed averla ripubblicata.)

@Tommaso M.
Appunto, l’embrione non è una persona “in atto”, è, al più, una persona “in potenza” (ma in potenza allora è pure un embrione abortito!). La differenza è fondamentale, un essere vivente che al momento non ha mai sviluppato le caratteristiche che ci rendono persone ha uno status morale estremamente differente da chi invece le abbia già sviluppate. Ha molti diritti in meno. Non può soffrire nè provare piacere, non ha volontà o desideri, non sa di esistere: non può essere assolutamente messo sullo stesso piano della madre.
Il paternalismo qui non c’entra: qui i genitori non stanno disponendo della vita di una persona.

Peraltro, seguendo il tuo ragionamento, per assurdo, dovremmo dire pure che fare l’amore con il preservativo è un atto autoritativo, tecnicamente arbitrario, destinato ad incidere su chi non può ancora scegliere, perché impedisce ad una coppia ovulo-spermatozoo di diventare embrione, e poi persona…

Bruno Gualerzi

Non dico certo che Tmmaso M. rappresenta quella attualità culturale che avrebbe replicato indignata alle parole di Calvino se pronunciate oggi, perchè non è vero, perché i suoi toni sono più che corretti e rispettabilissime le argomentazioni… però come non notare, con quanto dice, una sostanziale convergenza con le argomentazioni di Ferrara? Il che a sua volta – personaggio Ferrara a parte – è più che legittimo, ci mancherebbe, ma credo sia pure legittimo, nel clima che si sta vivendo, sentire in quelle argomentazioni di Calvino una boccata di aria fresca che oggi è sempre più difficile respirare. Come qui è già stato rilevato – per es. da Anteo – la ragione del contendere oggi non si avvicina nemmeno a quanto Calvino sosteneva, d’accordo o meno che si fosse con lui, e tutti si è costretti a spendersi in una difesa della 194 che nessuno dice di voler mettere in discussione e che invece molti, moltissimi (non Tommaso M., non vorrei essere frainteso), riescono a fatica a nascondere quanto la vorrebbero abrogare.

Tommaso M.

Vorrei ringraziare Bruno Gualerzi non soltanto per l’interesse mostrato nei confronti del mio post, ma anche per la sobrietà dei toni e la ragionevolezza delle argomentazioni.
Giuliano Ferrara è un personaggio pubblico noto da tempo. Tutti conoscono (o possono, volendo, apprendere) le molteplici e variegate “tappe” – chiamamole così – del suo percorso intellettuale. Quanto Ferrara va affermando in queste ore è probabilmente affine alle tesi da me esposte. Ma, allora, gradirei che il direttore del “Foglio” spiegasse perché oggi giudichi l’abbandono dei neonati presso i conventi come un rimedio sociale decoroso, alternativo all’interruzione di gravidanza, mentre all’epoca del referendum sulla legge 40 avesse sostenuto fosse “contronatura” non poter conoscere i propri genitori biologici. O, ancora, mi piacerebbe capire quanto sincero sia il suo impegno a favore della “libertà formale” da parte delle donne, data la sua opposizione viscerale alla diagnosi preimpianto.
Questo per dire, banalmente, che non mi identifico né culturalmente né politicamente in Giuliano Ferrara, mentre – non da oggi – avverto forti simpatie per Claudio Magris (e non solo su materie eticamente sensibili). E intuisco, ovviamente, come un impegno politico antiabortista, apparentemente “soft”, potrebbe rappresentare una prima picconata nel demolire la citata 194.
Giungendo ad una riflessione più estesa, mi limito a sostenere come il grande pericolo che il mondo laico corre sia quello di trincerarsi acriticamente dietro la rivendicazione (peraltro giusta e comprensibile) dei “diritti”, quasi che essi traggano origine sempre e comunque da una matrice metafisica e la loro ragionevolezza apparisse autoevidente. Accade, in tal modo, che alcuni scivolino paradossalmente in una prospettiva di “giusnaturalismo” asfittico, privo di sfumature; in ciò simili a quei cattolici la cui difesa della vita tracima in dogmatismo (nei contenuti) e fanatismo (nella forma).
I diritti propriamente detti, al contrario, nascono e muoiono in seguito a compromessi politici e ad evoluzioni storiche, a trasformazioni culturali e a innovazioni tecnologiche. L’etica non è mai statica: evolve, ed evolvono pertanto anche le sanzioni sancite dalle norme.
Proprio per questo, sarebbe importante che una fetta sempre crescente di laici tornasse a riproporre le ragioni della libertà individuale con un lessico aperto, vivo, caldo, denso di humanitas. Un linguaggio in grado di farsi carico dell’enorme dolore che comunque – legalizzazione dell’aborto o meno – sussiste nel mondo, incessante prodotto delle vicende umane.
Vorrei, ad esempio, che il mondo femminista non scegliesse la via della ghettizzazione volontaria, sostenendo che le donne – e solo le donne – hanno facoltà di esprimersi su simili temi, vista la strutturale incapacità degli uomini di emanciparsi da millenni di dominio e sopraffazione ai loro danni. Vorrei che la legittima aspirazione ad una vita sessuale soddisfacente non fosse confusa con la deresponsabilizzazione nei confronti del resto del mondo, e non soltanto di un potenziale “nascituro”. Vorrei che il legittimo riconoscimento della libertà del singolo fosse il punto di partenza, non il punto d’arrivo di una compiuta etica liberale.
Si può difendere l’esistenza di un interesse tutelato (ovvero di un diritto) senza per questo sottoscrivere come lodevoli tutte le conseguenze che il suo riconoscimento provoca.
Una maggioranza elevatissima di italiani difende, ad. es., l’esistenza del diritto di proprietà, ma non per questo si sente indifferente rispetto alle più acute forme di sperequazione sociale che essa indirettamente, ma inevitabilmente, produce. Così, ognuno di noi è convinto dell’opportunità di salvaguardare giuridicamente la legittima difesa, ma ciò non significa celebrare come “sacro” e “giusto” l’esercizio di tale diritto allorché esso provoca, ad esempio, la morte di un rapinatore (che è pur sempre un essere umano).
Tutto ciò per dire che, una volta fissate regole equilibrate e rispettose della sfera individuale, le forze della cosiddetta “società civile” dovrebbero mettersi in modo, affinché il singolo, la persona, possa interrogarsi ed accrescere la propria consapevolezza al momento di decidere. Gli uomini non sono monadi, e non è un caso che il pensiero liberale – da Locke a Tocqueville, passando per Montesquieu – abbia da sempre riconosciuto il valore dei “corpi intermedi” (giornali, associazioni, chiese…) nella vita di un libero Stato.

Tommaso M.

Gentile Magar, gradirei replicare alle sue osservazioni scindendo le critiche in due punti.

Punto a) : Lei sostiene che”…un essere vivente che al momento non ha mai sviluppato le caratteristiche che ci rendono persone ha uno status morale estremamente differente da chi invece le abbia già sviluppate”.
Già, ma lei stesso riconosce che quell’essere è “vivente”, sia pure in senso meramente biologico. E poi, come stabilire universalmente quali siano le caratteristiche che ci rendono “persone”? Potrebbe essere il nostro grado autocoscienza, certo, ma perché non – al contrario – la nostra capacità di esistere in un tempo futuro (in tal senso, chi sarebbe più “persona” del concepito?). Come porre le basi per una valutazioni condivisa di ciò? La scienza non può farlo: essa può enunciare punto per punto le proprietà dell’embrione, del feto e di ogni singola molecola od atomo, ma non può – in ottemperanza alla legge di Hume – formulare insindacabili giudizi di valore su cosa effettivamente sia una “caratteristica costitutiva della persona”.
Oltretutto, è innegabile che tale principio, portato alle estreme conseguenze, potrebbe spingerci a considerare, ad es., un disabile “persona minor” sotto il profilo morale rispetto alle altre. L’idea che la condivisione di uno status morale sia vincolata al possesso delle medesime caratteristiche “naturali” non mi pare compatibile con la definizione tradizionale di Stato di diritto ed una violazione del principio di eguaglianza.

Punto b): non sono né teologo né scienzato, tuttavia mi permetta di distinguere fra quella che è una fictio logica (l’eventuale congiunzione fra ovulo e spermatozoo) da quella che è invece un’eventualità concreta (l’evoluzione dell’embrione). Non è possibile instaurare un nesso meccanicistico fra accoppiamento e fecondazione: non tutti gli atti sessuali culminano con il concepimento. Al contrario, è la norma – salvo complicazioni – che l’embrione, ultimata la fase organo-formativa, si trasformi in feto. Certamente la scelta di un rapporto sessuale protetto è un atto autoritativo, ma le conseguenze etico-giuridiche di tale scelta non ricadono su un’entità biologica già formata, diversamente dall’interruzione di gravidanza.

Cordialmente,
Tommaso M.

ema

@ Francesca…quella è anche la posizione di Calvino…nessuno pensa che l’aborto sia una cosa bella…è comunque un dramma, una cosa terribile per l’embrione e per la donna…nessuno abortisce a cuor leggero…deve essere legale perche se non lo fosse gli aborti sarebbero molti di piu…e molte donne ci rimetterebbero la vita…

ema

per cui nessuno è “d’accordo con l’aborto” se non per questo motivo…

Magar

@Tommaso M.
a) Come stabilire le caratteristiche che ci rendono persone? Ragionando sulla natura umana, ecco come. (È quello che cercano di fare i bioeticisti da anni, non vedo perché cantare, a priori, il de profundis ad un intero e vastissimo settore della riflessione filosofica contemporanea, e non solo.)
Mi pare che il punto fondamentale sia qui l’assenza di qualunque volontà di rimanere vivo nell’embrione, che peraltro neppure sa di avere un futuro (e neppure di avere un presente, se è per questo…). Non ha desideri, non interagisce con ciò che lo circonda, non è nemmeno in grado di provare le sensazioni più elementari (dolore e piacere), figuriamoci un’autocoscienza. Dal momento che non ha volontà di vivere, perché mai dovrei tutelarlo alla pari di un essere autocosciente, che invece ha le sue volontà chiare e precise? Allora tanto varrebbe tutelare alla stessa maniera pure i fili d’erba, i funghi porcini e le margherite di campo, in fondo sono esseri viventi anche loro.
Nessun filosofo accetterebbe una definizione di “persona” che non comprendesse almeno una o tutte le caratteristiche sopra citate, che l’embrione invece non possiede. La nostra definizione di stato di diritto deve essere fondata su presupposti filosofici validi, non su credenze tradizionali e superate.

b) Tutto la sua argomentazione qui è in palese violazione della legge di Hume (che pure lei richiama al punto 1): che l’embrione sia biologicamente già formato non ha nessuna rilevanza sul piano morale, né è rilevante che la “norma” (meramente biologica!) preveda che l’embrione diventi un essere umano completamente sviluppato, e dunque una persona. Io non tutelo Tizio perché ha metabolismo, DNA e respirazione cellulare, io tutelo Tizio perché può soffrire e desidererebbe non farlo, perché sa di essere vivo e desidererebbe rimanere tale, al pari mio. Ecco, da tutto questo l’embrione è escluso.

Agostino Casu

E’ uno dei testi meno lucidi di Calvino che mi siano capitati tra le mani. Astratto, confuso, velleitario, datato. Non opera una chiara distinzione, sul piano morale, fra aborto e contraccezione. Rovescia la complessa e delicata nozione diritto all’autodeterminazione in un preteso dovere , anzi nell'”alto dovere morale” di optare preferenzialmente per l’aborto qualora non siano presenti determinate condizioni. Proseguendo in questo grossolano paralogismo, incorre quindi nella pretesa di dettare in modo sbrigativo e apodittico quali debbano essere queste condizioni che conferiscono il diritto di procreare (“Solo chi è convinto al cento per cento.. ha il diritto… se no deve”). Pone un’enfasi quasi da gnostico antico sulle condizioni della procreazione (“stalla di conigli” ecc.) scordandosi d’un tratto la lezione illuministica sulla dignità umana. Avrebbe dovuto mordersi lui la lingua tre volte prima di scrivere questa specie di ukase impulsivo, presuntuoso e sciocco. E lo dico da ammiratore della prosa di Calvino. Pubblicare questi sfoghi privati non è un gran servizio reso al grande scrittore e al grande intellettuale che Calvino è stato nei suoi atti pubblici.
Agostino Casu

Agostino Casu

Dimenticavo la frase più sconcertante di tutte: “Un essere umano diventa tale non per il casuale verificarsi di certe condizioni biologiche, ma per un atto di volontà e d’amore da parte degli altri.” Piaccia o no, è vero il contrario. Un essere umano è un essere umano. E se ha dei genitori stupidi e cattivi? Capita. Incontrerà altre persone, nella vita. E quel che più conta: un essere umano, gli atti di volontà e di amore, li può fare lui. E può fare tante altre cose. E’ un centro autonomo di relazioni, e di come e quando è nato se ne scorda presto, se è sano di mente. Pretendere che un destino di un individuo sia determinato in partenza dalla ‘stimmung’ sentimentale e morale nella quale è avvenuta la sua nascita, è abbracciare, come ho detto, una sorta di gnosi laica, che attribuisce inaudite responsabilità a circostanze, se non indifferenti, certamente parziali. Una persona è tale anche se non è voluta “coscientemente e liberamente”.
Agostino Casu

Bruno Gualerzi

Leggendo gli ultimi commenti (Magar – che condivido pienamente, e col quale anzi mi complimento per la chiarezza – e Agostino Casu, che invece non condivido) ho avuto la conferma di quanto ho sempre ritenuto: il concetto di ‘persona’, che sta alla base di tutto il dibattere sull’aborto, è un concetto ideologico nel senso neutro, tecnico, del termine (si potrebbe usare ‘culturale’, ‘storico’, come possibili sinonimi) e non credo che nessun teoria scientifica possa giungere ad una definizione di persona, appunto, scientifica, cioè verificabile e/o confutabile sperimentalmente. Detto in soldoni: che l’embrione, o il feto, sia o non sia ‘persona’, cioè essere umano con i diritti propri che una società deve garantire ad ogni essere umano, è e sarà sempre un’opinione!
Ma questo cosa comporta? Sempre detto alla buona: che un’opinione vale l’altra e che, proprio in quanto opinione, nessuna deve prevalere sull’altra, debbono trovare apazio e ascolto entrambe… In sostanza, nè più nè meno ciò che la legge sull’aborto dovrebbe garantire e che tutti sanno: non condanna nessuno perché abortisce e non obbliga nessuno ad abortire. Ora, chi rispetta, chi intende davvero rispettare perché ne è convinto, questa ovvietà? Chi ritiene che la sua opinione sia, appunto, un’opinione, oppure chi ritiene che la sua non sia un’opinione, ma una verità inconfutabile (come una legge fisica sempre verificabile) e quindi debba essere accettata da tutti, e, se possibile, appena possibile, imposta a tutti?
Qualche dubbio sulla risposta da dare?

Tommaso M.

Gentile Magar,
Le risponderò brevemente giacché mi pare che le nostre posizioni – per quanto non conciliabili – si siano delineate con sufficiente chiarezza, a beneficio di eventuali altri lettori.

a) Non è mia intenzione sminuire la pluriennale riflessione in materia di bioetica, al contrario. Tuttavia, ho serie perplessità a considerare, sulla scia di Singer e Englehardt, la “volontà di rimanere vivo” o “di vivere” (piuttosto che la razionalità, o l’autocoscienza) come valido criterio oggettivo dirimente per tutelare giuridicamente qualcuno, o proteggerlo tramite strumenti medici.
Come giustamente scriveva Max Weber, “Il medico cerca con tutti i mezzi di conservare la vita la moribondo, anche se questi implora di essere liberato dalla vita (…). La scienza medica non si pone la domanda se e quando la vita valga la pena di essere vissuta. Tutte le scienze naturali danno una risposta a questa domanda: che cosa debbo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro fini” (“La scienza come professione”, in “Il lavoro intellettuale come professione”, Einaudi, Torino 1967, pp. 26-27).
Inoltre, non ho mai sostenuto l’opportunità che l’embrione vada “tutelato alla pari di un essere autocosciente, che ha le sue volontà chiare e precise”. Nel tal caso, mi opporrei alla legge 194, che invece approvo. Semplicemente, per rifarmi al suo esempio, trovo del tutto assurdo paragonare l’embrione – o il feto – a “fili d’erba, funghi porcini e le margherite di campo”, che invece PER CERTO non diverranno mai esseri umani.
In sintesi: non ho nulla da eccepire nel riconoscimento della libertà di scelta da parte della donna; ho molto da eccepire sotto il profilo morale qualora la vita umana sia considerata alla stregua di un mero agglomerato di atomi, grezza materia inanimata. Se questa è una “credenza tradizionale e superata”, per rifarmi alla Sua espressione, lo lascio valutare a Lei.

b) Io non scorgo violazioni alla legge di Hume nel mio argomentare. Non ho ricavato alcun assunto prescrittivo da un antecedente assunto descrittivo. Semplicemente non credo che “l’embrione biologicamente già formato non ha nessuna rilevanza sul piano morale”, e questo non perché mi appello a chissà quale “verità” scientifica, ma dal momento che – per puro buon senso – la donna incinta è pienamente consapevole che una fecondazione, in assenza di eventi biologici indipendenti dalla sua volontà o da una interruzione di gravidanza, sfocerà in un parto. L’aborto è un atto mirante ad interrompere un processo biologico che culmina – in linea di masisma – con la nascita di un soggetto di diritto.
Del resto il nostro ordinamento prevede le c.d. “aspettative giuridicamente tutelate”.

Per concludere: non ho nulla da obiettare al fatto che l’ordinamento italiano attribuisca priorità alla libertà di scelta da parte della donna. Ma lo considero – mi sia concesso – il male minore; non una compiuta e meritoria realizzazione del libero arbitrio umano.

Cordialmente,
Tommaso M.

Magar

Una persona è tale anche se non è voluta “coscientemente e liberamente”.

Appunto, Agostino, una persona, mica un embrione. Finché non si ha a che fare con una persona, la madre ha tutto il diritto a “decidere il destino” di quell’insieme di cellule, a scegliere le condizioni migliori in cui far venire al mondo un figlio.
Quando Calvino parla di “alto dovere morale” di non procreare, etc., non vuole imporre a chicchessia l’obbligo di abortire per legge, sta solo osservando che i genitori che scelgono di procreare responsabilmente, pianificando le migliori condizioni per farlo, fanno un miglior servizio ai figli stessi, rispetto a chi li mette al mondo in condizioni disagevoli. Ovviamente, ognuno sia poi libero di agire come gli detta la sua coscienza.

P.S. Quale sarebbe tutta ‘sta gran distinzione, sul piano morale, fra aborto e contraccezione?
(Premesso che in realtà solitamente l’aborto NON viene usato come semplice sostituto della contraccezione.)

Magar

@Tommaso M.
1) “Il medico cerca con tutti i mezzi di conservare la vita la moribondo, anche se questi implora di essere liberato dalla vita”: quel medico fa malissimo, compie un grave abuso nei confronti del moribondo, lo espropria della signoria sul suo corpo.
2) La mera vita umana va proprio considerata (circa) alla stregua di un mero agglomerato di atomi, grezza materia inanimata (come “inanimata”?), finché non si arricchisce di quelle qualità che ci rendono soggetti morali, e che certamente l’ambrione non possiede. Ritenere invece che la vita umana vada tutelata sempre e comunque, anche quando non sia altro che una serie di meri processi biochimici, è frutto di una concezione arcaica della morale.
3) La differenza tra il filo d’erba e l’embrione è solo biologica, non morale: entrambi non soffrono, non provano piacere, non hanno desideri, etc. Il fatto che le leggi della natura stiano portando il secondo, ma non il primo, a diventare una persona nel giro di alcuni mesi non muta il fatto che adesso persona non sia. Se io interrompo nelle fasi iniziali un processo biologico che si conclude con la nascita di un soggetto di diritto, io non sto sto toccando alcun presente soggetto di diritto.
4) La violazione della legge di Hume consiste proprio nell’assegnare un valore morale ad una legge di natura: il fatto che esse stiano facendo diventare persona l’embrione non significa che quello abbia diritto a diventare persona. Perché il futuro dell’embrione determinato soltanto dalla natura dovrebbe essere “più giusto” del destino dell’embrione determinato da un medico abortista? Perché il primo “spetta” all’embrione, è suo diritto, mentre il secondo no?

Tommaso M.

Gentile Magar,
mi pare che le nostre ragioni siano state adeguatamente esposte, con dovizia di argomenti. Io non pretendo di convincerLa, né credo che sia suo interesse convincere me.
Mi limito quindi a qualche precisazione.

Per quanto concerne il punto 1) da Lei esposto, la discussione ci porterebbe a toccare tematiche assai complesse – a cominciare dall’eutanasia – che svierebbero il dibattito. Non mi sembra qui il caso di sviluppare un confronto così esteso.

Riguardo il punto 2) io sottoscrivo quella che Lei giudica una “concezione arcaica della morale”. Pazienza. Siamo in disaccordo.

Relativamente al punto 3) mi accontento di far notare come le trasformazioni di un filo d’erba non siano equiparabili – né biologicamente, né dal mio punto di vista moralmente – a quelle di un embrione. Al di là di ogni possibile concettualizzazione, sono le donne stesse a comprenderlo, dal momento che abortire non equivale a calpestare un’aiuola.

Terminando, infine, col punto 4) ribadisco che io non miro ad attribuire ad un processo biologico un valore morale. Tutt’al contrario. Il punto, semmai, è che l’interruzione volontaria di gravidanza è una decisione, deliberata e consapevole, mirata ad impedire lo sviluppo di una futura persona. Se a Lei pare che ciò non abbia tragiche implicazioni etiche, vorrà dire che abbiamo due visioni diverse – come del resto già evidenziato – di cosa significhi “vita umana”.

Per il resto, non posso che sottoscrivere l’ultimo messaggio di Bruno Gualerzi, nonché – in massima parte – l’editoriale di Piero Ostellino sul Corriere della Sera di oggi.

Cordialmente,
Tommaso M.

Magar

@Tommaso M.
Solo qualche piccola precisazione:
a) Chi, come fa lei, pensa che la vita umana (p.s. solo quella umana?) abbia diritto ad essere tutelata sempre e comunque, indipendentemente da ciò che ha realmente a che fare con i concetti di “diritto”, “morale”, “giusto”, “sbagliato” (ovvero emozioni, sensazioni, sentimenti, credenze, etc.) dovrebbe perlomeno cercare di giustificare un’asserzione così forte. Invece la “sacralità della vita” viene solitamente affermata come un dogma razionalmente incontestabile. Il punto è che non si può istituire un obbligo di legge sulla base di una morale fondata su presupposti arbitrari: questo vale, naturalmente, per chi giunge a voler vietare l’aborto, mentre io e lei possiamo anche agree to disagree.
b) Certo che, per la donna, il filo d’erba non è proprio la stessa cosa dell’embrione: il filo d’erba non si sviluppa mica nel suo corpo. Ma le caratteristiche mentali sono estremamente simili, e così il loro status morale (posto che per l’embrione ha diritto a decidere solo l’individuo ospitante, la madre). E le trasformazioni che l’embrione subirà, nel momento in cui viene effettuata l’IVG non le ha ancora subite.
c) Credo di aver già risposto all’argomento della decisione, deliberata e consapevole, mirata ad impedire lo sviluppo di una futura persona: la frase si adatta perfettamente pure alla contraccezione. E una possibile futura persona non è una persona attuale.

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