L’incontro del giovedì sul buddismo

L’incontro UAAR di giovedì 18 marzo è ora visionabile sulla pagina del sito dedicata agli Incontri del giovedì. Si ricorda che l’incontro era con Renzo Mammini (studioso del buddismo) che ha presentato il suo libro Luce atea. Il buddismo. Il prossimo incontro del giovedì avrà luogo il 25 marzo, come sempre alle ore 18 in via Ostiense 89 a Roma: sarà con noi Federica Turriziani Colonna (redattrice de L’Ateo, traduttrice di Ipazia. Donna colta e bellissima fatta a pezzi dal clero, di John Toland) che interverrà sul tema La vita di Ipazia e la sua ricostruzione nei secoli.

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19 commenti

renus

scusate ma dove sarebbe “la pagina del sito dedicata agli incontri del giovedì”?

renus

grazie mille, sarebbe però auspicabile una migliore “usabilità” del sito in questa direzione…

Bruno Gualerzi

Premetto che trovo di grande interesse tutto ciò che riguarda il buddhismo e in genere le religioni-filosofie orientali, senza per questo esserne un conoscitore anche solo approssimativo… ma anche questa conoscenza molto superficiale ritengo sia sufficiente per darne un giudizio globale basato su una considerazione di fondo. Giudizio che anche questo incontro per la presentazione del libro sul buddhismo mi ha indotto a confermare.
Il buddhismo – in tutte le sue numerose versioni, spesso anche antitetiche fra loro – E’ UNA RELIGIONE. In che senso? Tutto sta a intendersi sul concetto di religione. Per quanto mi riguarda identifico integralmente RELIGIONE con ALIENAZIONE. Per questa ragione. La pratica religiosa, ha fondamentalmente lo scopo di ‘porre rimedio’ ad una condizione umana della cui precarietà in modo più o meno chiaro si ha comumque consapevolezza.
Non intendo affrontare qui gli argomenti che dovrebbero suffragare queste convinzione… ma credo di capire che la questione della ‘precariatà dell’esistenza di ognuno’ è un punto chiave anche del pensiero orientale. Ora, in che modo si cerca di ‘porre rimedio’ a questa condizione? Semplificando al massimo il discorso, prospettando (‘progettando’, ‘inventando’ ‘formalizzando’) comportamenti in grado, in un modo o nell’altro, di ‘superare’ questa precarietà, o comunque di ‘viverla’ in modo tale da farcela soffrire il meno possibile… in ogni caso ritenendo di ‘modificare’ ciò che la condizione umana per sua natura comporta. Legittima questa ‘esigenza’? Più ancora che legittima, resa necessaria dalla consapevolezza dicevo. Legittima, necessaria, ma naturalmente affrontata in vari modi… volendo, tutto ciò che l’uomo ha fatto e fa, di qualsiasi natura sia, può essere visto in funzione di questa esigenza. Non esiste sempre come scopo di ogni ‘fare’ il ‘vivere meglio’? In qualsiasi modo poi, singoli individui o intere collettività intendano questo ‘vivere meglio’.
Bene, a mio modo di vedere, quando si trasformano questi comportamenti (ripeto, assolutamente necessari) in pratiche che si intende generalizzare perchè in grado di rispondere in modo OGGETTIVAMENTE VERIFICABILE alle esigenze esistenziali, inevitabilmente ci si aliena, cioè si affida (si ‘vende’) la propria umanità ad ‘altro’ da essa. La si proietta in una dimensione che si ritiene ‘aldilà’ (trascendentalismo), o ‘al di sopra’ (immanentismo), di ciò che la condizione umana comporta. Ribadisco: si ha alienazione, non tanto quando si vive soggettivamente questa condizione, ma quando ‘si rinuncia’ a viverla soggettivamente perchè si ritiene di aver trovato al di fuori, quando non contro, di essa la risposta oggettiva, formalizzata, codificata, per ‘superarla’. Si ha in altre parole alienazione quando si delega integralmente la soluzione dei problemi esistenzali a comportamenti definiti da qualcuno una volta per tutte… non tanto cioè quando ci si rapporta ad esperienze esistenziali per conoscerle e trarne indicazioni anche preziose, ma quando le si assume e vive ‘religiosamente’. Che si tratti di una religione in senso proprio, di una ideologia, di una filosofia, comunque di tutto ciò che presuppone per essere veramente colto conportamenti, compresi naturalmente modi di pensare, codificati. Quale che sia la natura di tali codificazioni.
In questo senso il buddhismo (come qualsiasi ‘ismo’ assunto come scelta radicale di vita) è a tutti gli effetti una religione.

Giancarlo Niccolai

Ho trovato l’introduzione del Mammini all’incontro piuttosto deludente; egli infatti confonde la conclusione alla quale arriva il pensiero orientale con l’assioma di base dal quale parte. Inoltre, confonde l’aspetto filosofico con quello religioso (non può essere troppo biasimato in questo; sono gli stessi traduttori, e spessissimo, molti degli autori originali a farlo).

In realtà, la filosofia — seppur maturata nell’ambito dei monasteri buddisti totalmente scevra di aspetti religiosi — è estremamente attenta all’ontologia dei fenomeni. Alcune scuole filosofiche si concentrano su di essa con fare quasi maniacale. E comunque, nessuna arriva mai a dire che la realtà “non esiste”, o è tutta “dentro di noi”. Al contrario, la reputano inconoscibile per sua stessa natura, e quindi, “tutta la realtà che possiamo conoscere è dentro di noi”.

La differenza fondamentale fra la “teologia” (filosofia “cristiana”?) e la filosofia che si accompagna alle scuole buddiste sta nel fatto che questa, dai monaci buddisti, è vista come un esercizio di conoscenza della realtà, attraverso cui può giungere l’illuminazione. Essi hanno fede nel fatto che, se comprendono la realtà “pura”, diverranno “illuminati”.

In che cosa consista questo “essere illuminati” varia da scuola a scuola. Alcune scuole promettono qualcosa di simile al nostro concetto di “paradiso”, altre promettono l’acquisizione di capacità pseudo-magiche, altre la “rottura della ruota delle reincarnazioni” (ossia, l’uscita dalla sofferenza di questa vita, che esse rappresentano come un inferno), altre ancora non promettono nient’altro che “sapere la verità” (sì, “tutto qui”; nessuna “trascendenza” se non la promessa di una vita “consapevole” fino alla morte naturale).

Anche l’ampiezza del salto da conoscenza a “fede” in cosa potrà derivare da questa conoscenza varia da scuola a scuola.

Ma tutte le scuole buddiste hanno in comune, come fa notare Bruno Gualzieri, il fatto di essere “religioni”. Quindi, di avere nel loro corpus almeno un elemento di fede pura, ingiustificato e ingiustificabile nella speculazione teorica e filosofica. Ci sono sempre e comunque monasteri, ordini, gerarchie, regole monastiche e regole di vita la cui relazione e utilità funzionale nei confronti della speculazione teorica è “irrazionale”.

Pur avendo fede esattamente e proprio nella filosofia stessa, ossia nella speculazione del pensiero e nel suo modo di indagare la realtà, si chiede innanzi tutto di dimostrare con atti di fede tale fiducia. E qui che diventa, sempre e comunque, una religione, in nome della quale si è combattuto e versato sangue, sempre per stabilire “chi era più vicino agli insegnamenti del Buddha” o chi avesse trovato il modo più efficace per raggiungere l’illuminazione, o chi avesse rappresentato lo stato dell’illuminazione con maggiore veridicità.

Un po’ come se i platonici e gli epicurei avessero litigato e poi combattuto guerre per stabilire se la Verità è che il Cosmo è motore degli Atomi, o se non siano gli Atomi a originare e muovere il Cosmo.

(ho scritto qualcosa di più organico qui: http://www.niccolai.cc/index.php?itemid=269 ).

MicheleB.

Conosco abbastanza la storia del buddismo, il suo ruolo nella storia dell’Asia e la sua attualità geopolitica e mi sento di poter affermare, con assoluta tranquillità, che su tali piani sia esattamente uguale ad ogni altra religione. La teoria filosofica di un culto non mi interessa più di tanto (in ogni caso, quella buddista la trovo imbarazzantemente ridicola); gli effetti sulla storia sociale dei popoli sono stati -e sono tutt’ora- gli stessi del cristianesimo, dell’islam, del confucianesimo, ecc…
Trovo assurdo che ci si scagli continuamente contro i monoteismi -anche se indubbiamente sono più pericolosi- e poi si dia credito a buffonate freakkettone stile
“recitailmantrachesisistematutto”, raccontandoci che “non sono veramente delle religioni”.

Bruno Gualerzi

Condivido parola per parola il tuo intervento. Personalmente scelgo sempre la dimensione esistenziale (la condizione umana) coi suoi problemi in base alla cui ‘interpretazione’ elaborare una qualche ‘lettura’ della cosiddetta realtà – assolutamente personale, ancorchè debitrice naturalmente di quanto ho potuto e saputo assimilare da varie forme di pensiero – ma direi che, nel caso specifico, il punto d’arrivo del mio percorso coincide esattamente col tuo.
Già in altro post manifestavo la mia perplessità sulla ‘luce atea’, perchè, dicevo, questa ‘luce’ indica non tanto l’illuminismo quanto l”illuminazione’, concetto, se mai ce n’è uno, religioso.

Alessandro S.

Giancarlo Niccolai scrive:
24 marzo 2010 alle 12:13

Pur avendo fede esattamente e proprio nella filosofia stessa, ossia nella speculazione del pensiero e nel suo modo di indagare la realtà, si chiede innanzi tutto di dimostrare con atti di fede tale fiducia.

D’accordo che il buddhismo è polimorfo tanto nelle sue espressioni rituali quanto nelle sua dottrine, ma non mi viene in mente, nel buddhismo che conosco io, cosa sarebbero questi “atti di fede”. In più testi che ho consultato si sottolinea che il termine utilizzato nei testi canonici di saddha sia da tradurre con fiducia piuttosto che con fede, come risulta poi chiaramente in un famoso scritto post-canonico buddhista, il Milindapañña.

E qui che diventa, sempre e comunque, una religione, in nome della quale si è combattuto e versato sangue, sempre per stabilire “chi era più vicino agli insegnamenti del Buddha” o chi avesse trovato il modo più efficace per raggiungere l’illuminazione, o chi avesse rappresentato lo stato dell’illuminazione con maggiore veridicità.

Questo invece non mi risulta, che per questi motivi si sia “versato sangue”. Riferimenti?

Bruno Gualerzi

La dimensione religiosa – almeno per quanto mi riguarda – non consiste tanto, o soltanto, in un ‘atto di fede’ nei confronti di una ‘rivelazione’ contenuta in qualche testo sacro o nell’insegnamento di qualche ‘profeta’, quanto nella proposta di pratiche più o meno rituali, di comportamenti, di orientamenti mentali, in grado – se seguiti ‘fedelmente’ – di portare ad una qualche ‘illuminazione’. Sia che consista in un”uscita da sè’, in una neutralizzazione del cosiddetto ‘io’ per poterlo così proiettare in una dimensione che lo trascenda, sia che si tratti di ‘scavare dentro di sè’ per puntare su certe potenzialità della nostra psiche in grado. se opportunamente stimolate attraverso pratiche consolidate, di far vivere esperienze altrimenti impossibili. Eccezionali.
Non perchè, sia chiaro, ciò non lo si possa o debba perseguire, ma perchè ritengo illusorio, alienante appunto, presumere di poterlo ottenere veramente annullando se stessi, la propria individualità, per adottare comportamenti mediati, anche se proposti non dogmaticamente, da una qualche tradizione codificata.
Credo che il buddhismo, in tutte le sue espressioni, anche quelle più ‘filosofiche’, non sfugga a questo che personalmente ritengo un limite.
Nel caso poi – che francamente non posso escludere data la mia poca dimestichezza col buddismo – che si contemplasse una autentica libertà di scelta in quanto basata solo sulla testimonianza di esperienze personali comunicate senza la pretesa di ‘essere insegnate’… ebbene questo renderebbe inutile lo stesso termine ‘buddhismo’… che invece sta a designare l’accorpamento sotto un’unica etichetta di esperienze che qualche analogia, qualche carattere comune generalizzabile, estensibile, devono per forza averli.
E mentre le filosofie – che pure possono, e spesso anche sono, essere accostate ‘religiosamente’ – cosituiscono tuttavia un sapere che non vincola necessariamente in alcun modo. Che lascia liberi di essere ‘utilizzato’ nel modo con cui ognuno ritiene di utilizzarlo. La religione, anche la più ‘aperta’, questo non lo può fare.

Giancarlo Niccolai

Pienamente d’accordo!

A dire il vero non tutte le tradizioni buddhiste hanno in comune l’annullamento dell’Io come mezzo o tappa intermedia verso l’illuminazione. Ma comunque, hanno tutte in comune la “cristallizzazione dell’essenza”. La purificazione dall’illusione della percezione, e soprattutto, la liberazione dal desiderio.

Il punto è che io percepisco l’essenza dell’essere non solo in ciò che è, ma anche in ciò che vuole essere. Non solo in ciò che percepisce, ma anche in ciò che crede di percepire. Cercare sé stessi cambiandosi al punto di diventare tanto semplici da capirsi semplicemente non mi sembra il punto di partenza migliore per affrontare questo problema.

Giancarlo Niccolai

Si tratta di “fiducia” per chi studia l’argomento, ma di “fede” per gli adepti. I precetti delle varie scuole buddhiste sono “dati” né più né meno dei “dogmi” cristiani. Nel buddhismo tibetano, bisogna dichiarare (e rinnovare continuamente) la propria fede (sì, fede, non fiducia) nel Buddha come salvatore dell’umanità (se ti ricorda qualcuno più noto alle nostre longitudini, non è un caso). Questo, come dicevo, nonostante la dottrina filosofica ricollegabile all’attività dei monaci buddhisti (incluso il Milindapanha, scusa se non uso le cediglie), possa affermare anche l’esatto contrario. Del resto, nel buddhismo Zen è famoso il Koan, “Se incontri il Buddah sulla tua via, uccidilo.” Ciò non toglie che, non i prodotti dei suoi sacerdoti, ma l’entità stessa riconducibile allo Zen, è e resta una religione.

Per le guerre, giusto il primo link che mi è saltato fuori, ma se ne accenna persino negli scritti di Thich Nhat Hanh: http://jmm.aaa.net.au/articles/15293.htm

#Aldo#

Oggi ho mangiato uno stufato con le patate che era una favola. Col suo “sughetto” ho condito un piatto di penne fumanti che ho poi sommerso sotto una cascata di parmigiano. Questa è l’essenza — siamo un’accozzaglia di cellule male assortite frutto d’un processo che ha preso, sviluppando l’intelligenza, una piega sbagliata. Per fortuna ci sono momenti in cui possiamo mettere in un cantone le conseguenze di quell’intelligenza, per esempio (a volte) a tavola o seduti sulla tazza.

Volendo cercare una fonte da citare a tutti costi, magari a sproposito: «Si! Quando il tuo corpo ti prende / tu sai, sai dove sei / sai che non dipendi da niente / e sai, sai cosa vuoi» ( http://tinyurl.com/ygxczby ).

Alessandro S.

Bruno Gualerzi risponde:
mercoledì 24 marzo 2010 alle 15:27

Nel caso poi – che francamente non posso escludere data la mia poca dimestichezza col buddismo – che si contemplasse una autentica libertà di scelta in quanto basata solo sulla testimonianza di esperienze personali comunicate senza la pretesa di ‘essere insegnate’…

Che debbano essere insegnate non ci piove. Ma a chi le richiede, non a tutti a prescindere. Ossia, non mi risulti sia contemplata nella norma l’obbligatorietà dell’insegnamento ai laici.

ebbene questo renderebbe inutile lo stesso termine ‘buddhismo’…

Per prima cosa, il termine indicherebbe l’insieme degli insegnamenti, non la “fede” imposta. Secodo, faccio notare che infatti il termine buddhismo è stato estraneo al buddhismo fino all’arrivo dei colonizzatori europei, o forse prima a quelli islamici che lo fecero estinguere in India.

Giancarlo Niccolai risponde:
mercoledì 24 marzo 2010 alle 15:28

Si tratta di “fiducia” per chi studia l’argomento, ma di “fede” per gli adepti.

I monaci sono abbastanza qualificati per essere considerati tra gli adepti? Se si, allora rimando a questo: http://www.uaar.it/news/2007/12/16/dalai-lama-deluso-ne-governo-ne-papa-lhanno-ricevuto/ che riporto nel seguito:

Riguardo la fiducia (e non la fede), riporto parte di un colloquio contenuto in un testo antico, il Milindapañña:

Il re disse: «Che vantaggio (attha) traete, venerabile Nagasena, dall’abbandonare il mondo (pabbajjâ), e qual è per voi lo scopo supremo?»

L’anziano disse: «Sire, che questa sofferenza possa essere interrotta e che un’altra non sorga. È con questo scopo, sire, che noi abbandoniamo il mondo; il nostro scopo supremo, inoltre, è il nibbana definitivo privo di base (anupâdâparinibbâna)».

«Venerabile Nâgasena, abbandonano tutti il mondo per tale scopo?»

«No, sire. Alcuni abbandonano il mondo per tale scopo, altri, invece, lo abbandonano per paura di re, di ladri, perché hanno debiti o per ottenere mezzi di sostentamento. Ma coloro che abbandonano il mondo correttamente lo fanno per lo scopo da me esposto.»

«Voi, venerabile, avete abbandonato il mondo per tale scopo?»

«Io, sire, abbandonai il mondo quando ero un ragazzo; non sapevo che stavo abbandonando il mondo per questo scopo, eppure pensai: “Questi asceti, figli dei Sakya, sono saggi. Costoro mi istruiranno”. Pertanto adesso che sono ben istruito grazie a loro, so e vedo che lo scopo di abbandonare il mondo è questo.»

«Siete sagace, venerabile Nagasena.»

Mi sono fatto l’idea che la vostra “formazione” buddhista si sia limitata ai testi mahayana, ossia sullo Zen e sul buddhismo tibetatano, quello più magico ed esoterico in assoluto. Allora capisco, la mia formazione è invece limitata a quello più antico, rappresentato oggi dalla scuola Theravada.

L’articolo cita di guerre tra tibetani animisti e sciamanici. Ma non stavamo parlando di buddhisti?
Poi si parla di quei (famosi) maestri Zen filointerventisti durante la II guerra mondiale, su cui grava il forte dubbio che tale filointerventismo sia dovuto ad una traduzione distorta di quanto sostenuto da questi maestri: http://buddhism.about.com/b/2010/02/04/zen-at-war-and-the-opposite-of-equanimity.htm

Più appropriatamente in tema sarebbe questo articolo: http://alessandro.route-add.net/Testi/Dhammico/guerra_nel_nome_del_buddhismo.html
Che, soglio sottolineare, dimostra che i buddhisti si siano fatti la guerra in nome della loro religione e identità nazionale. Non che la dottrina buddhista ammetta tali guerre. Che infatti so condanna senza eccezioni nella regola monastica, dove si proibisce ai monaci anche il presenziare alle parate militari o agli addestramenti di soldati, e che sancisce ai monaci il divieto di compiere atti violenti anche se in autodifesa. Che poi la realtà in pratica sia diversa lo ammetto, ma una cosa è quello che il buddhismo (quale?) insegna, un’altra è quello che la gente fa. Una religione che non intende coercere i propri laici ad un certo stile di vita non può essere ritenuta responsabile, a mio avviso, della devianza di questi rispetto alla sua dottrina etica.

Giancarlo Niccolai

Eh no. Il punto è anche e proprio questo.

Non c’è assolutamente niente di male nel precetto cristiano di “Ama il tuo prossimo come te stesso”.

Non c’è assolutamente niente di male nel precetto islamico “Il forte ha ricevuto la sua forza da Dio; ha quindi il compito assegnato da Dio di difendere e proteggere il debole.”

Non c’è assolutamente niente di male né nella filosofia buddhista, né nella sua pratica, né nell’approccio fondamentale della “mente compassionevole”.

Ciò nonostante, in nome e per conto di tutte queste e tutte le altre religioni si sono compiuti crimini inenarrabili. Gli esploratori inglesi, non proprio educande di collegio, rimasero inorriditi quando visitando il Tibet nel 1904 si accorsero delle condizioni di schiavitù del popoplo tibetano nei confronti del regime teocratico, che non esitava a infliggere torture e multilazioni persino nei conventi, e dove la pena di morte non era rara (veniva eseguita lasciando il condannato sugli altipiani senza riparo. Una notte a -30 era più che sufficiente a dare al condannato una nuova possibilità nella prossima reincarnazione).

E’ colpa degli insegnamenti del Buddah? — ovviamente no, non più di quanto gli insegnamenti di Cristo siano responsabili delle crociate.

E’ colpa delle interpretazioni di una delle numerose scuole? — nemmeno questo. Né la Theravada, né Mahayana, né la Chan/Zen si sono mai lontanamente macchiate, in senso dottrinale, della benché minima ombra di violenza.

E’ semplicemente una rilevazione empirica: ogni religione genera un’organizzazione, ogni organizzazione genera potere, ogni potere è soggetto a degenerare in violenza. Che sia direttamente emanato dall’ente religioso (come nel caso dello Stato della Chiesa o nel caso della teocrazia Tibetana) o che sia utilizzato a fini politici contro la sua stessa natura (come nel caso della registrazione obbligatoria alle anagrafi dei templi buddisti durante il periodo Tokugawa in Giappone, sotto pena di morte) poco conta.

E poco conta anche l’addolcimento del concetto di “fede” che ti vende un monaco. Come ho già scritto nell’altra lettera, anche se ti dicono “se incontri il Buddah, uccidilo”, richiederanno sempre un’obbedienza fideistica all’ordine e ad alcuni principi base che ogni scuola, o sotto-scuola, o monastero dichiara discendere dagli insegnamenti di riferimento … dopo che i maestri li hanno elaborati…

Ad esempio, la morbida “fiducia” di cui sopra non si applicherà alla Ottupla Via, ne alle Quattro verità.

Alessandro S.

Giancarlo Niccolai risponde:
giovedì 25 marzo 2010 alle 11:02

Ciò nonostante, in nome e per conto di tutte queste e tutte le altre religioni si sono compiuti crimini inenarrabili.

C’è una grossa differenza, invece. Sia la Bibbia che il Corano contengono delle esplicite eccezioni alla “buona regola”. Quei testi hanno numerose pagine che grondano sangue. Il Canone buddhista no, condanna la violenza e basta, senza eccezioni.
Ancora citi il caso del Tibet teocratico come fosse questo il buddhismo. Per quanto non ti faccia comodo, ti ripeto che no, il buddhismo tibetano non è il buddhismo, è soltanto il buddhismo tibetano (e anche qui si dovrebbe vedere quale, che in Tibet ci sono, mi hanno riferito, scuole parecchio diverse tra loro, come la Gelugpa, quella maggioritaria, del Dalai Lama ossia, la Nyingmapa, la Dzog-chen, piuttosto dédite a pratiche magiche e tantriche, la Dorje-shugden, dédita a pratiche teistiche e fortemente osteggiata dai Gelugpa, ecc.). Altrimenti io ti tiro fuori il solito discorso degli atei sovietici e dei loro crimini contro l’umanità.

E’ semplicemente una rilevazione empirica: ogni religione genera un’organizzazione, ogni organizzazione genera potere, ogni potere è soggetto a degenerare in violenza.

Quindi la sola buona religione può essere quella che neghi agli uomini il costituirsi in organizzazioni sociali estese, in stati? Perché di questo stiamo parlando, di capi di stato (sovrani, capi di nazioni) che si sono fatti la guerra. Alcuni nel nome del buddhismo, nonostante gli espliciti e univoci impedimenti che la sua dottrina esprime in proposito. Come potrebbe una religione impedire questo? Assumendo lei stessa il controllo politico dello stato? No, questo è contro la disciplina monastica (i monaci sono, o almeno dovrebbero essere degli asceti rinuncianti e mendicanti), e farlo peggiorerebbe enormemente il problema. Quasi tutti i casi di guerra condotta in nome della religione che mi vengono in mente sono stati dovuti all’identità del potete politico con quello religioso, cosa che non solo non è sanzionata, ma è incoraggiata dalle dottrine delle religioni monoteiste.

E’ semplicemente una rilevazione empirica: ogni religione genera un’organizzazione

Veramente questo succede ad ogni comunità umana. O forse la UAAR non ha una sua organizzazione?

Che sia direttamente emanato dall’ente religioso […] o che sia utilizzato a fini politici contro la sua stessa natura […] poco conta.

Quindi ne deduco che se un giorno un socio UAAR dovesse commettere un crimine, la UAAR dovrebbe corretamente essere ritenuta corresponsabile del crimine, per il solo fatto di essitere, a prescindere da cosa stabilisca il suo statuto interno.

Come ho già scritto nell’altra lettera, anche se ti dicono “se incontri il Buddah, uccidilo”,

Questa frase è attribuita al monaco cinese Línjì Yìxuán, vissuto nel IX secolo. Non direi che lui abbia forgiato la dottrina buddhista, al più avrà forgiato quella della sua scuola o tradizione. Come San Francesco non si può dire abbia determinato la natura della dottrina cristiana ma al più quella del suo ordine di frati.

richiederanno sempre un’obbedienza fideistica all’ordine e ad alcuni principi base che ogni scuola, o sotto-scuola, o monastero dichiara discendere dagli insegnamenti di riferimento … dopo che i maestri li hanno elaborati…

Non mi risulta. Non mi risulta che tanto valga neanche nel caso dell’ordinazione monastica, almeno limitatamente a quella della tradizione theravada, la sola che conosco con una certa profondità. Gradirei sapere in base a quali riscontri ti sei formato questa opinione.

Ad esempio, la morbida “fiducia” di cui sopra non si applicherà alla Ottupla Via, ne alle Quattro verità.

Ma neanche per idea! Si applica invece soprattutto a tali linee guide etiche e pratiche! Rileggi l’esempio del monaco Nagasena di quando racconta al re Milinda la storia della sua entrata nell’ordine monastico buddhista. Non fa nessun accenno ad alcuna accettazione fideista di alcuna dottrina o norma. Di nuovo, ti risultasse diversamente, ti invito a citare qualche fonte. Che senz’altro ci sarà, ma di area mahayana e/o legata a certi precisi maestri della storia buddhista.

Bruno Gualerzi

” Per fortuna ci sono momenti in cui possiamo mettere in un cantone le conseguenze di quell’intelligenza, per esempio (a volte) a tavola o seduti sulla tazza.”

Che tu lo creda o no, la tua è una tipica pratica buddhista. Un’esperienza mistica. ‘Mettere in un cantone le conseguenze dell’intelligenza’, sia che la si neutralizzi con una ca..ta o con una mangiata, sempre di un ‘uscire da sè’ (e non mi riferisco all’evacuazione… per quanto) si tratta.
La funzione fisiologica è parte integrante della condizione umana esattamente come l’intelligenza: l’una è da mettere sullo stesso piano dell’altra. Non può mai essere l’una negazione dell’altra.
Ciao.

Stefano Grassino

A me piacciono: la buona tavola, le belle donne (e beato chi riesce a portarsi a letto quelle bbbbone 60 90 60 x 1,75 e voluttuose armate di reggicalze e tacchi a spillo) le vacanze, le feste, una barca a vela, il riposo, conoscere di tutto e di più, amare la vita consapevole che tutto finirà senza per questo mettermi a piangere. Va bene accusì.

Claudio Diagora

Ti piacciono “strane”? 60 90 60? X 1,75? Un cubo gonfio in mezzo! 🙂

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