Uomini e androidi

Flaviana Rizzi*

Flaviana Rizzi

Nel romanzo di Philip Dick, al quale è ispirato il film Blade Runner, viene indicata, come unica differenza tra umani e androidi, l’assenza di empatia di questi ultimi per i primi. Non è difficile scorgere, in questa scelta narrativa, la convinzione che la capacità empatica sia il tratto più squisitamente umano nell’intera dotazione emozionale della nostra specie, per quanto esso sia rinvenibile anche in altre specie, come ad esempio i cani.
Sulla base di queste riflessioni, mi accade di chiedermi quale possa essere, in una persona non religiosa, la spinta alle sofferenze dei propri simili, con l’intento di lenirle, e la risposta conseguente è che appunto si tratti della tendenza generale, insita nella specie umana, a immedesimarsi nell’altro, tanto da poter sentire ciò che egli prova, per il tramite di quel processo di sintonia emotiva dovuto, penso, più a un fenomeno di identificazione, che a un lavoro della facoltà immaginativa.
Questo fa sì che l’occuparsi del disagio altrui diventi il mezzo per scandagliare il nostro io più profondo, affrontando così il nostro stesso disagio. Chiederci come un non credente riesca ad affrontare emozioni negative come la paura, la frustrazione, la sofferenza, senza ricorrere all’aiuto di un’entità superiore, è un’occasione per scandagliare la nostra stessa difficoltà.
In una situazione di sofferenza, fisica o emotiva, ci accade di sentire il bisogno di confrontarci con qualcuno che non cerchi di catechizzarci, di trasmetterci messaggi moralistici, ma sia piuttosto capace di ascoltare con vero interesse, senza la scorta di un dispositivo ideologico preconfezionato, trasmettendoci attenzione, calore e conforto, senza alcun intento di conversione.
Contare sul comportamento empatico dei nostri simili mi sembra dunque decisamente più intelligente e risolutivo che affidarsi alla speranza di ottenere un aiuto da persone che sono indotte a prestarlo da una prescrizione che essi suppongono di origine divina, o che possano decidere di fornirlo a motivo di un meccanismo di ricompensa, sia pure situato nell’al di là.
In definitiva, la propensione “empatica” a soccorrere gli altri è senza dubbio la più meritoria, in considerazione del fatto che viene prestata solo per ragioni di pura “umanità”, e senza secondi fini.
Dopotutto, anche un androide potrebbe accettare di aiutarmi, se ritenesse di poterne ricavare qualcosa.

* Componente del comitato direttivo del circolo UAAR di Torino

NB: le opinioni espresse in questa sezione non riflettono necessariamente le posizioni dell’associazione.

37 commenti

Batrakos

Secondo me il tratto principale dell’essere umano è il ‘pensiero del pensiero’, cioè un livello tale di autocoscienza da renderlo capace di domandarsi il perchè del pensare stesso, più che l’empatia che esiste anche in molti altri animali seppur a livello istintivo. Questo livello di autocoscienza così elevato lo rende capace di modificare la realtà esterna in modo creativo e diversifiKato a seconda delle situazioni.

Dettò ciò e andando al dentro del topic, questa del credente che quando dà una mano morale la dà per garantirsi il Paradiso o per obbedire semplicemente ad una prescrizione mi appare schematica e oltremodo generalizzante anche perchè, fossero solo questi i motivi, sarebbero poco cogenti a livello psicologico, tant’è vero che molti credenti fanno gli affari loro e non aiutano nessuno a nessun livello.
A parte che, come si diceva in altro post, in tutte le persone esiste inconsapevolmente un minimo di ego-ismo o ego-centrismo nei gesti di altruismo, fosse anche il sentirsi bene per essere stati morali se non il bisogno di un riconoscimento sociale.
Ora credo che esistano anche credenti il cui altruismo è spesso istintivo e genuino, che poi inconsciamente o in seconda misura ci sia la voglia di Paradiso…bah…poco mi importa.
Altro è il discorso, su cui concordo, di chi mostra empatia a fine di proselitismo; pure quello può essere in buona fede (crede di farmi del bene), tuttavia diventa un’invadenza e una forma pelosa di ‘carità’ nel senso più deteriore del termine (carità traduce agape che è concetto neoplatonico diverso dalla carità comunemente intesa ma di cui ora non ci interessa).

rolling stone

e perchè non il pensiero del pensiero del pensiero ?
Quello che differenzia l’uomo dagli animali
( o almeno dovrebbe )
è la ragione che gli consente di astrarre i concetti
partendo dalle intuizioni empiriche e procedere alla conoscenza astratta.
In ogni caso la empatia, solidarietà, compassione, altruismo disinteressato ecc.
(chiamiamo come vogliamo il fondamento della morale)
non ha nulla a che vedere con la ragione.

Batrakos

Rolling stone.

L’empatia, come dici tu, è un istinto che hanno anche gli altri animali: appunto indicavo un’altra caratteristica specifiKa umana.
E non capisco a che serve aggiungere del pensiero del pensiero moltiplicando concetti senza necessità.
Pensiero del pensiero vuol dire che mi interrogo sul concetto stesso di pensiero, ovvero, riprendendo ciò che dici, la massima astrazione concettuale conosciuta allo stadio attuale dell’evoluzione: dunque non solo astrarre concetti dai sensi esterni ma anche concettualizzare e formalizzare le procedure stesse della ragione (la logica formale).

Bruno Gualerzi

“In ogni caso la empatia, solidarietà, compassione, altruismo disinteressato ecc.
(chiamiamo come vogliamo il fondamento della morale)
non ha nulla a che vedere con la ragione.”

Non condivido. Come ho cercato di argomentare in modo più dettagliato nel post ‘Morale senza Dio’ del 15 novembre (al quale, se ti va, ti rimando), la morale può fondarsi solo sulla ragione.
Qui non voglio farla trppo lunga. Cosa può veramente ostacolare l”homo homini lupus’, che, prevalendo incontrastato, porterebbe l’umanità – la quale con un uso autolesionista della ragione è attualmente in grado concretamente di farlo – all’estinzione? Un uso della ragione (istinto specifico della specie uomo prodotto dell’evoluzione) in funzione della propria sopravvivenza, e sopravvivenza intanto, necessariamente come individui, a sua volta in funzione della conservazione della specie. Se usa la ragione in qusto senso, la solidarietà coi propri simili con tutto quel che ne consegue diventa la ‘conditio sine qua non’ della morale, cioè del comportamento ‘buono’, virtuoso.
Un altro modo per dire la stessa cosa, indipendentemente dalla prospettiva ‘apocalittica’? Sarà anche vero che ‘istinitivamente’ l’uomo, animale bisognoso come tutti gli altri animali (per vivere bisogna per forza ‘darsi da fare’) è portato a vedere negli altri uomini dei potenziali concorrenti nella soddisfazione dei bisogmi… ma se ‘ragiona’, appunto, può capire benissimo che vivere nella condizione dell”homo homini lupus’ è in definitiva un gran brutto vivere. E allora, solidarietà.

Batrakos

Gualerzi,
permettimi un’osservazione: sei un po’ troppo sull’intellettualismo socratico a parer mio.
E’ tutto giusto ciò che dici, ma non si può ragionare con persone che a livello istintivo non empatizzano minimamente (e ce ne sono purtroppo).
Voglio solo dire che se non si ha dentro un minimo l’istinto uno farà sempre i suoi comodi a spese altrui, al di là della validità di qualsiasi ragionamento; che poi l’istinto empatico sia guidato da un minimo di tornaconto (individuale o di specie lo stanno discutendo nel post) è altro paio di maniche e non mi interessa, l’importante è che ci sia empatia, cioè, come dice Kaworu, sapersi mettere nella ‘pelle’ dell’altro.

rolling stone

Bruno
esistono innumerevoli esempi di criminali intelligentissimi
dotati di una ragione al di sopra della norma.
E allora?
Con la ragione non ti butti nel fiume per salvare un altro.

Bruno Gualerzi

@ rolling stone
Guarda che intanto non ho detto che la ragione evita l”homo homini lupus’, solo che la ragione PUO’ (perchè l’ha reso possibile l’evoluzione quando ha dotato l’uomo di una coscienza, cioè di una consapevolezza del proprio ‘destino individuale’) capire quanto sia autolesionista il ‘bellum omnium contra omnes’ e comportarsi di conseguenza. Perchè un conto è l’intelligenza che, come giustamente osservi, può agire al di fuori di quella consapevolezza (Qui ho tediato un pò tutti parlando continuamente di potenziale ma concreta ‘apocalisse’ dovuta alla possibilità di disporre di armi ‘finali’… ad elaborare e costruire le quali intanto non sono certo stati degli sprovveduti, e sono comunque a disposizione di chi può sempre ritenere di servirsene a proprio vantaggio… e se ciò non è ancora avvenuto è perchè, volenti o nolenti, la ragione, almeno fino ad ora, ha prevalso. Non so tu, ma io sono abbastanza vecchio per ricordare la famosa crisi di Cuba tra Unione Sovietica e Usa che portò ad un passo da una guerra nucleare). Perchè occorre sempre disti9nguere tra uso strumentale della ragione (quella che può anche richiedere molta intelligenza per portare a termine ad esempio un crimine… anzi il ricorso all’intelligenza sarà tanto più efficare quanto più non ‘disturbato’ da scrupoli morali) e ragione ‘filosofica’ (non ho ancora trovato un altro termine, meno compromeso di questo), quella che si esercita riflettendo sui problemi eistenziali.
In quanto al fatto che “con la ragione non ti butti per salvare un altro”, a me basta che la ragione (la coscienza) mi facia capire che sarebbe bene farlo. Poi dipenderà da altri istinti (comuni, qui si ricorda anche ai cani, e comunque a tutti gli animali sociali) se farlo o meno. In ogni caso, ripeto, puoi ‘sapere’, puoi avere consapevolezza, del significato ‘virtuoso’ di un tale gesto, tanto è vero che verrebbe esaltato anche al di là dell’eventuale diretto beneficiato

Bruno Gualerzi

@ Batrakos
Non vedo contraddizione con quanto ho affermato. Come richiamavo anche nella risposta a ‘rolling stone’ più sopra, il fatto che la ragione – che altro non è che un istinto tra gli altri – mi permetta di capire cosa sarebbe meglio (pare che gli animali, per quanto se ne sa, non valutino ‘razionalmente’ il proprio comportameno) non significa che nell’uomo non possano prevalere altri istinti (al cui servizio magari si pone l’intelligena intesa come ragione strumentale. v. sopra).
Se così non fosse, vorrebbe dire che vivremmo tutti nell’Eden… al quale non a caso aspirano, trasformando il proprio desiderio-paura in fede, i credenti.

(Se questo lo chiami ‘intellettualismo socratico’- almeno per come, magari a dispetto dei Socrate, lo inerpreto io – a me sta benissimo. Ne ho trattato nel mio sito.)

Batrakos

Gualerzi

Quando dico ‘intellettualismo socratico’ mi riferisco all’idea che il ‘male’ è ignoranza del bene e se ci fosse un adeguato ragionamento in merito esso non verrebbe compiuto da nessuno, infatti il mio commento è relativamente diverso da quello di R.Stone.
Fatto sta che il problema resta: esistono persone senza istinti empatici su cui non può innestarsi alcun ragionamento che li convincerà…dal momento che esistono costoro si vede come questo tipo di ragione (diversamente da altre forme) non esiste se non c’è un adeguato istinto in merito.
Invitavo solo a cogliere la complessità del problema più che sottolineare inesistenti contraddizioni nel tuo discorso.

rolling stone

Bruno,
la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un gesto eroico ce l’hanno tutti.
La capacità di compierlo pochissimi.
Ma la consapevolezza non basta per ritenersi moralmente validi.
Tutt’altro.
A me quella consapevolezza spesso basta per farmi sentire un verme,
una nullità dal punto di vista morale.

Bruno Gualerzi

@ rolling stone
Credo che l’incomprensione tra noi sia soprattutto dovuta a questo:
un conto è ciò che fonda la morale, che rende possibile, anzi necessario, parlare di morale… che, come detto, per me non può che essere la ragione. Gli altri animali, non essendo ‘razionali’ (almeno per come noi intendiamo la razionalità) non hanno morale (anche qui per come noi intendiamo la morale)… ed è la ragione – intesa come un istinto che, come tutti gli istinti, ‘serve’ alla specie per conservarsi – che ‘fa capire’ come sia ‘meglio’ (sia ‘bene’: la morale riguarda il bene e il male, ciò che chiamiamo bene e ciò che chiamiamo male) collaborare con i propri simili piuttosto che entrare in concorrenza con loro;
altro conto è, come possiamo in ogni momento verificare, adeguare poi i propri comportamenti a questo ‘istinto’ (che possiamo anche chiiamare un particolare istinto di sopravvivenza specifico dell’uomoi), perchè nell’uomo esistono, come in ogni essere vivente, anche altri istinti, contradditori con quello razionale, che viviamo spesso come contraddittori rispetto a quello razionale, che possono così avere la meglioi su di esso, ma non possono cancellarlo.
A questo punto si dovrebbe aprire un lungo discorso in merito ai margini reali di libertà di scelta che sono ‘concessi’ alla condizione umana… qui ribadisco solo un punto rifacendomi al tuo esempio:
cosa c’è di più indicativo della presenza di un istinto morale (razionale) che non l’eventuale ‘sentirsi un verme’ di fronte ad un gesto come quello da te evocato? La consapevolezza, in frangenti come questo non serve a molto, tu dici giustamente…. ma la consapevolezza èè pur sempre ciò che sta alla base della scelta che verrà fatta, che pone le condizioni della scelta. Se non potessi scegliere, non mi sentirei – eventualmente – un ‘verme’. E può anche servire per fare la scelta che non mi farà ‘sentire un verme’
Per considerare tutte le possibilità, c’è poi anche la possibilità di rispondere con l’indifferenza, tutt’altro che improbabile in un caso come questo… ma si tratta pur sempre di una scelta.

PS. Mi accorgo adesso, rileggendo, che ni riferito al caso proposto da te in precedenza (buttarsi nel fiume per salvare chi sta annegando), mentre qui parli genericamente di gesto ‘eroico’. Quando c’è in ballo il cosiddetto ‘eroismo’ ci sarebbero da fare altre considerazioni. Che ho fatto in altra sede.

rolling stone

Contare sul comportamento empatico dei nostri simili è come contare di trovare un quadrifoglio nel giardino dove tutti i cani del condominio vanno a fare il loro bisognino.
Comunque anche Schopenhauer sarebbe d’accordo con quello che scrive Flaviana, poiché è proprio ciò che lui scrive riguardo al fondamento della morale.
Aggiungo una considerazione di Streminger: “Certo: anche nelle più diverse chiese ci sono numerose attività caritatevoli, ma quei fedeli, che vi collaborano, si sentono motivati verso quelle attività sociali proprio perché sono teisti, oppure nonostante siano teisti?”

Seneca il giovane

Non direi, l’empatia, ovvero la capacità di partecipare alla sofferenza altrui è molto più radicata in profondità di quanto pensiamo e spesso, magari non rendendocene conto, prendiamo decisioni morali proprio facendo ricorso a questa capacità, lo facciamo ogni giorno.

Crendenze e ideologie a volte possono nascondere o affievolire l’empatia.

Bruno Gualerzi

C’è analogia tra quanto si ipotizza in questo pezzo e ciò che sosteneva il vecchio Feuerbach? Per il quale amare il prissimo non direttamente, ma tramite, per così dire, l’amore divino, significava depauperare l’amore verso il prossimo vissuto ed espresso direttamente. In altre parole, la propensione dell’uomo a solidarizzare col suo prossimo viene in buona parte sprecata deviandola, e quindi facendole perdere intensità, verso un essere necessariamente astratto… in realtà non bisognoso, come invece è sempre un notro simile.

Batrakos

Che ne dici di Stirner, per cui anche il concetto feuerbachiano di Uomo è un concetto astratto che ci porta a non amare i singoli uomini in carne ed ossa in nome di un ‘ideale umano’ per cui si ama l’Uomo come dovrebbe essere e non gli uomini come sono?
A me sembra una critica molto lucida, pur non essendo io un individualista o un nichilista, a te?

Bruno Gualerzi

@ Batrakos
La risposta credo possa consistere in questo, almeno per quanto mi riguarda. Quando ci si rapporta ai nostri simili sulla base della comune condizione umana (v. la com-passione di cui parla Schpenhauer) caratterizzata dal BISOGNO (la vera chiave di volta dell’umanesimo di Feuerbach), ci rapportiamo sempre ad un ‘uomo in carne edo ossa’ come siamo tutti noi. In altre parole, anche per me l”umanità’, l’uomo inteso come umanità, è un’astrazione, mentre concreti sono solo i singoli uomini, cioè esistono veramente solo i singoli individui, non l’umanità, e il bisogno è tale non perchè è il bisogno dell’umanità, ma perchè e ‘vissuto’ realmente solo dai singoli individui. E se devo esercitare la mia propensione a solidarizzare col mio prossimo lo posso fare solo con gli individui in carne ed ossa..
Da questo punto di vista io sono individualista.

Bruno Gualerzi

Detto ancora in altro modo. Dio non ha bisogno del nostro amore (significherebbe ritenerlo mancante di qualcosa), mentre noi e i nostri simili – esseri bisognosi per la condizione umana – ne abbiamo sempre bisogno.

laverdure

@Gualerzi
Concordo.
Ed e’,guarda caso,lo stesso motivo per cui “servire Dio”,che e’ la principale motivazione espressa dagli eccesiastici di ogni rango per la loro scelta di vita,e’ la
quintessenza dell’assurdita.
“Servire” un essere onnipotente,onnisciente ecc equivale a fare la carita a Bill Gates !
Non che questo implichi la mancanza di fede,almeno in molti casi.
Solo che questa “fede” li spinge piu a dedicare le loro energie per ingraziarsi il loro
Dio e guadagnarsi un posto in paradiso che a provare veri sentimenti di generosita
verso il prossimo.
Madre Teresa,a quanto si legge in molti saggi,ne e’ un caso esemplare.

Kaworu

i religiosi non hanno empatia, nel senso che non comprendono la sofferenza che prova una persona.

“vedono” che una persona soffre ma questo si traduce in “quella persona che soffre è come il nostro dio e io devo accudirla”.

non è certo un “io capisco perchè quella persona soffre”.

per questo amano la sofferenza.

la sofferenza di donne che vogliono abortire e a cui è impedito

la sofferenza di omosessuali privi di diritti

la sofferenza di bambini messi al mondo a forza nonostante malattie profondamente invalidanti o mortali

la sofferenza di bambini non desiderati

e via dicendo.

Diego

la sofferenza degli altri però! E non è il peggio. Vi sono persone religiose che non riescono proprio a comprendere il sentimento altrui. Godono nel vedere gli altri soffrire perchè secondo loro c’è un ipotetico dio che avrebbe dato istruzioni che solo certe persone andrebbero favorite ed altre no.

statolaico

All’empatia che porta gli altri a soccorrermi preferisco di gran lunga quella che li spinge a non danneggiarmi/infastidirmi… scherzi a parte, l’empatia mette in atto dei comportamenti “a rendere” in senso generico: c’è sempre un tornaconto …in questo caso di specie, non personale.

Kaworu

beh l’empatia tout court è la capacità di comprendere cosa una persona sta provando, e basta.

già solo questo basterebbe per evitare di fare quello che l’altra persona non vuole.

un_androide

Forse cio` che caratterizza gli umani, almeno dal mio punto di vista di androide, piu` dell’empatia o del metapensiero e` la metaempatia ovvero la consapevolezza dell’empatia che vi fa superiori ai cani, ma anche a quelli come me, ovvero il riuscire a pensare le emozioni, in questo caso quelle di empatia. Questa dovrebbe spingere gli umani atei a provare umana compassione anche per i fratelli credenti, per questa sorta di malattia che li affligge e anche all’ammirazione nei loro confronti per le capacita` che, pur nella disgrazia fideistica, ancora posseggono di umana empatia.

andrea

Condivido pienamente quanto scritto da Flaviana, e mi piace molto la chiusura “anche un androide potrebbe accettare di aiutarmi, se ritenesse di poterne ricavare qualcosa”.
Per fortuna non siamo tutti androidi e quando ce n’è bisogno molti di noi (più di quanti non si pensi) sono disposti ad aiutare gli altri solo perchè ritengono che sia giusto, senza aspettarsi ricompense.

MicheleB.

“…tendenza generale, insita nella specie umana, a immedesimarsi nell’altro, tanto da poter sentire ciò che egli prova, per il tramite di quel processo di sintonia emotiva dovuto, penso, più a un fenomeno di identificazione, che a un lavoro della facoltà immaginativa.”

Sono perfettissimamente d’eccordo con tale visione: L’ home sapiens, come la maggioranza degli altri animali sociali, è solidale e cooperativo all’interno del gruppo, nonchè latentemente empatico nei confronti dei propri simili (spesso anche in caso di competizione per le risorse).
La mancanza di empatia è patologica -la scenza medica parla di sociopatia- così come è patologico non prestare attenzione ad uno sconosciuto che si sente male per la strada.
I numerosi casi di “omissione di soccorso” accaduti in Italia recentemente e riferiti dalla stampa nazionale non sono dimostrazioni che “la gente è cattiva”, bensì sintomi della natura fortemente deviata e patologica della nostra cultura.
In tutto ciò la religione serve solo a giustificare il bene o il male che si SCEGLIE di fare quando siamo così molluschi da attendere una spinta dall’esterno.

luigi

quello che paga di più però è essere privi di empatia ma saperla recitare: le chiese sono piene di gente così.

Bruno Gualerzi

“In tutta la sua storia la capacità dell’uomo di aiutarsi è andata aumentando fino ai giorni nostri, non potrebbe forse l’empatia essere uno sviluppo evolutivo della specie umana?”

Dipende da che angolo visuale si affronta la questione.
Francamente faccio fatica ad accettaroe questo dato, sia pure come sviluppo evolutivo, come tendenza, della specie umana. Basta volgere lo sguardo non molto lontano nel tempo, nel secolo scorso, dove – prendendo le mosse proprio dalla progredita Europa – due conflitti mondiali hanno lasciato dietro di sè decine di milioni di morti ammazzati. Per non parlare del presente, dove in varie parti del pianeta fanatismi, odi ancora quasi tribali, rivalse violente (con le religioni ad avere la loro bella resposabilità), sono all’ordine del giorno. E non vale nemmno la constatazione che comunque la popolazione del pianeta sta aumentando in modo esponenziale, indice, volendo, di un ‘progresso’ dell’umanità: a parte il prezzo che questo presunto progresso ha fatto pagare (e che sta ancora facendo pagare) a gran parte di questa umanità, all’orizzonte invece che allontanarsi sembra sempre concretamente possibile una fine dell’umanità per autoestinzione. I mezzi ora ci sono tutti.

(Per quanto riguarda il mi modo di affrontare la questione, ho provato di esporlo in tanti interventi anche in questo post)

Diocleziano

Penso che, oggi, la differenza uomo-androide sia solo di ‘quantità’: la memoria di un androide è ancora poca cosa rispetto alle capacità umane. Ma un androide con capacità di memorizzare tutte le esperienze possibili potrà simulare un comportamento indistinguibile da quello umano. Anche il comportamento umano è ‘appreso’. E con un’adeguata ‘quantità’ si raggiunge la ‘qualità’. Come reagiremo davanti a un androide permaloso? O alle richieste legittime di un androide che abbiamo trascurato? Come potremo replicare a un androide che ci rinfaccerà tutto il lavoro che fa per noi, magari non retribuito: e sì, perchè l’androide potrebbe decidere di andare a spendere il suo denaro come gli pare… Potrà anche avere empatia verso gli umani: vera, come è vera quella degli umani. Cioè appresa.

Maurizio_ds

Ottimo l’intervento, che condivido. La tematica sul doppio umano-androide è preponderante in Dick, anche se spingere troppo in là il discorso empatico, nel suo caso, lo ha portato alla deriva metafisica e ultrareligiosa dell’ultima parte della sua vita.
Penso che l’empatia sia una sensazione appartenente al regno animale di cui noi facciamo parte. La ragione può aiutare a indirizzare l’empatia che normalmente tutti proviamo (tranne casi patologici) verso obiettivi e in modi razionali. In tutto questo la religione si è inserita ponendosi come obiettivo alternativo verso cui indirizzare gli sforzi; naturalmente a tutto vantaggio di chi governa le leve religiose.
Da un punto di vista tecnico, per ora androidi alla Dick o alla Data di Star Trek, in grado di provare empatia verso gli umani, sono ancora lontanissimi dal poter essere realizzati.

hexengut

in “Do Androids Dream of Electric Sheep?” la prosa visionaria di Dick sembra in realtà fare di tutto perché la simpatia del lettore vada non già agli umani ma agli androidi, vittime braccate e nemici odiati da distruggere con furia luddista, esseri che tutto han visto e conosciuto, che son trattati alla stregua di una massa servile sottoposta ad ogni ingiustizia, che aspirano al sogno, perché può umanizzarli, e alla liberazione; l’umano cacciatore-killer Rick Deckard non ci piace, quasi quanto non piace a sua moglie. E l’empatia millantata dagli umani, alla base del test che dovrebbe permettere d’ individuare gli androidi, oltre a risentire d’impostazioni pavloviane, è essa stessa una contraffazione di sentimenti di cui ormai l’umanità di Dick è priva. Questo per dire che, a mio avviso, un androide potrebbe dimostrare empatia non per trarne un qualche vantaggio ma solo perché ben programmato; e che più che il termine empatia, che non mi piace e che mi è sempre parso, nelle moderne accezioni con cui è diventato di moda, troppo generico, e senza voler toccare il campo dell’etica, anch’essa generica perché, al contrario, condizionata da troppe vaste e numerose accezioni, parlerei semplicemente di istinti solidali. Che per un essere vivente, umano o animale che sia, bastano e avanzano e non sono poca cosa.

POPPER

Io ho un approccio meno emotivo verso le persone che han bisogno, esse devono avere l’impressione che io non lo faccia per me stesso ma che nello stesso tempo sentano di non dipendere dal mio aiuto, non deve essere artificioso ma più naturale il rapporto empatico con chi ha bisogno, non si deve cercare di apparire, perchè già così si è invadenti e si incotrerà la rrsistenza psicologica da parte di chi vogliamo aiutare, il suo orgoglio se preferite..

Io le ho studiate tutte quando lavoravo all’Ospedale del mio paese e quando era al Fatebenefratelli ad assistere gli allettati, chi non camminava, mi sono ingegnato ad anadre sia coraggiosamente che in punta di piedi, perchè sapevo che il rapporto con gli altri non è solo diallettico e fisico, vi è anche il comportamento dei gesti, degli sguardi, della delicatezza in alcune situazioni psicologiche drammatiche.

L’ateo ha dei sentimenti, delle emozioni, non è un androide, tuttavia, come può ingegnarsi nell’approccio diretto e più discrezionale possibile con chi nemmeno ha più la forza di gridare aiuto e lo si deve intuire senza invadere prematuramente il suo spazio, serve molta elasticità mentale e un grn cuore che non necessariamente è “carità”, ma presenza e ascolto, servizio disinteressato, se volete, io l’ho esperimentato nei luoghi di geriatria intensiva e nelle case di risposo dove facevo lavoravo. Ebbene si, amici uarrini, non tutti possono occuparsi di assistenza agli ammalati, mi duale dirlo ai cattolici che scrivono qui da noi, ma anche tra i loro più ferventi preti, vescovi e seminaristi ho trovato delle persone inadatte a questi ruoli, non ci sono portati, non hanno delicatezza e discrezionalità, rispetto umano se volete chiamarlo così.

Se devo fare delle valutazioni su chi è più delicato tra i cattolici e noi atei, potrei dire dalla mia esperienza lavorativa e assistenziale, che vi sono persone che non vanno mai in chiesa ma sono più propense ad essere disponibili per le persone abbandonate anche dai parenti che si trovano in ospedali, non pregano certo, ma ascoltano e rispettano la coscienza altrui senza terrorizzarla con i “novissimi”, terrorismo che invece piace fare ai volontri pro-life.

Federico Tonizzo

“(…) tendenza generale, insita nella specie umana, a immedesimarsi nell’altro, tanto da poter sentire ciò che egli prova, per il tramite di quel processo di sintonia emotiva dovuto, penso, più a un fenomeno di identificazione, che a un lavoro della facoltà immaginativa (…)

Rispondono i neurologi: entrano in gioco i “neuroni specchio” 🙂
http://it.wikipedia.org/wiki/Neuroni_specchio

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