Prolegomeni alla fondazione di un’etica atea

Stefano Marullo*

Stefano Marullo

Talvolta le domande ingenue riescono ad aprire grandi varchi. Le risposte, parimenti, nella misura in cui appaiono ovvie, tradiscono la loro inadeguatezza. Chiediamoci: esiste un’etica atea? E se sì, donde proviene la sua ratio? Fermiamoci, un momento, alla prima domanda. La risposta, prevedibilissima, è che esistono tante morali – non ce ne vorrà Hegel ma useremo indifferentemente i termini etica e morale alla stessa stregua – atee ed agnostiche almeno quanti sono gli atei e gli agnostici. Comunque la si voglia considerare, questa risposta  non fa altro che asseverare l’inesistenza di una morale atea condivisa. Riduttiva insomma, forse mistificante.
E se provassimo invece, prendendo a prestito il metodo fenomenologico, a sospendere il problema della sua esistenza, e ci concentrassimo sul suo fondamento, che solo potrebbe giustificarne – una sorta di ‘eticateodicea’  – la pretesa della sua sussistenza?
Già nel n. 4/2008 (58) de L’Ateo Federica Turriziani Colonna, commentando Kant, poneva retoricamente la domanda se un ateo o un agnostico fossero capaci di un comportamento morale. Ancora Paolo Flores d’Arcais, in uno dei suoi libri più celebri, significativamente intitolato Etica senza fede, riconosce che agli occhi dei più in fondo la non credenza si configura sostanzialmente  come indigenza dal punto di vista spirituale e una morale atea risulta scandalosa nella misura in cui  “un orizzonte privo di senso atterrisce” in quanto “minaccioso di responsabilità”.
Le religioni, in apparenza, godrebbero di un indubbio vantaggio; le statuizioni morali ivi contenute, fanno riferimento ad una legge divina positiva o comunque a personalità carismatiche più o meno ispirate, contrastare le quali vorrebbe significare duellare con dogmi e profeti.
Nondimeno non è così pacifico far discendere dalla legge, divinamente intesa, una consequenzialità circa le opere che da questa deriverebbero. Paolo di Tarso nella lettera ai Romani arriva a sostenere, in  una celebre requisitoria antilegalistica, che non solo la legge non giustifica –  la Grazia può  –  ma che in fin dei conti, è proprio l’esistenza di una legge a spingere l’uomo a violarne gli statuti. E’ un fatto che nel cristianesimo la teologia morale, come disciplina, sia arrivata ben più tardi rispetto alla sistematizzazione della dottrina ad opera della teologia dogmatica. Non è un caso che etimologicamente il termine evangelium sveli la conoscenza di un fatto per certi versi già avvenuto o comunque irreversibilmente cominciato, di cui si deve solo prendere atto attraverso una metanoia interiore; inoltre il primissimo annuncio cristiano consistette essenzialmente in un appello alla paziente, passiva attesa del Regno laddove gli atti concreti – come spogliarsi dei propri beni – avevano un valore più simbolico, quale riflesso dell’avvento escatologico, che agapico.
Nel corso dei secoli poi, l’essere cristiano si qualificò sempre più in una serie di pratiche esteriori e sacramentali – oggi non pare sia molto diverso – che facevano convivere perfettamente la condizione di devoto con quella di massacratore del prossimo, in nome di Dio naturalmente. Un aspetto questo, talmente esasperato nelle confessioni cristiane, che le teologie politiche che ebbero notevole impulso dopo il Concilio Vaticano II – in particolare la teologia della liberazione – hanno spostato il baricentro dall’ortodossia all’ortoprassi, dando insomma alla pratica cristiana, all’esercizio della giustizia, valore preminente, se non esclusivo, rispetto alla professione di fede; non più dunque l’azione che va informata dalla retta dottrina, ma questa che prende significato da quella.
Ammesso e non concesso che basti la legge, attraverso la parola di un dio o dei suoi emissari, ad orientare i comportamenti morali, un’ulteriore complicazione è rappresentata dal rapporto tra essa legge e la coscienza personale. Persino la migliore delle leggi possibili può incagliarsi nel caso concreto e nella palude delle eccezioni. Maometto era geniale nel districarsi di fronte alle obiezioni dei suoi seguaci che gli rimproveravano incoerenza tra taluni comportamenti e i principi professati: egli si affidava a rivelazioni personali, in una sorta di occasionalismo mistico, che gli garantivano una sostanziale guarentigia anche sugli atti più discutibili. I meno fortunati passano per la fatica del discernimento. Un caso di scuola è quello che si legge negli Atti degli Apostoli, quando Pietro e Giovanni, accusati dalle autorità di fomentare il popolo e di violare le leggi, lasciano intendere che nel conflitto tra l’obbedienza alla legge degli uomini e a quella di Dio, non possono esserci dubbi al riguardo, laddove in tutto il Nuovo Testamento – a partire dalla citata lettera ai Romani – al tradizionale “date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, si sancisce come ogni autorità, anche civile, provenga da Dio. La non facile conciliazione tra norma morale e coscienza non trova soluzione neanche appellandosi alla cosiddetta etica della situazione tradizionalmente rifiutata come immorale dalla teologia. La stessa tradizione cattolica, invero, si è avviluppata inestricabilmente su questa materia, al punto che negli ambienti gesuitici del XVIII secolo si sviluppò una complessa discussione che discettava su veri e propri sistemi morali caratterizzati da una casistica arzigogolata quanto sterile, che nelle intenzioni doveva servire a dirimere la questione del rapporto tra precetto e comportamento.
Nonostante tutto, si continua a pensare che religioni e morale siano strettamente imparentate a dispetto delle varianti clamorose tra le religioni medesime e al diverso approccio con l’elemento etico. Nella mia dissacrante piéce, dal titolo evocativo, In principio era il Nerbo ovvero storia pornografica delle religioni, ho provato a dimostrare come le credenze e i culti in ogni tempo avessero elementi di flagrante immoralità, attenendomi, con qualche licenza divertente, ai testi sacri medesimi. Il recente articolo Morali senza Dio di Raffaele Carcano apparso su questa rubrica – che riprendeva quello del primatologo Frans de Waal Morals without God? individuava nei comportamenti morali di specie molto prossime a noi, un elemento ben più antico delle religioni, che queste ultime avrebbero “affinato”. Un retaggio dell’evoluzionismo, dunque, sia pur mediato da istinti sociali sedimentati. Su schemi opposti, un articolo della biologa Deborah M. Gordon pubblicato su Boston Review e riportato qualche settimana fa su Internazionale, intitolato significativamente Formiche senza morale sembrerebbe smentire clichés tipicamente umani come  il sacrificio per il bene comune e il senso di appartenenza al gruppo.
Ma proviamo a rimanere nell’ambito umano. Il biologo e scienziato cognitivo Marc Hauser, nel sul celebre libro Moral Minds, parla di grammatica morale universale quale prodotto del nostro DNA laddove le variabili culturali riguarderebbero le deroghe ai principi, per lo più innati. E’ evidente che, per questi studiosi, parlare di etica atea sarebbe pleonastico. Il modello che viene in mente è piuttosto quello di Hobbes, un’etica ‘amorale’ che istituisce un’equivalenza tra la condotta umana e le leggi che governano la natura in base a principi causali. Coniugare morale con istinto appare molto più congruo che ricercare improbabili connubi tra etica e ragione.
Ben altra strada rispetto a quella intrapresa dalla riflessione filosofica che muove da Locke fino a Kant e che probabilmente trova in Husserl il momento più alto del tentativo di dare all’etica un intrinseco valore razionale; il progetto husserliano, per l’appunto, è quello di fondare un’etica formale che rappresentasse l’omologon della logica formale, individuando forme a priori delle proposizioni pratiche violando le quali non si potrebbe che sconfinare nell’assurdità pratica.
Approccio meno intellettualistico quello di Sartre che reinterpreta il famoso motto dostoievskiano – “se Dio non esiste tutto è permesso” – nella direzione di una piena e grave responsabilità dell’uomo, condannato a rendere conto a se stesso e al mondo di quello che fa, e di quello che non fa. Interessante notare come il filosofo esistenzialista dopo avere illustrato esaustivamente la sua ontologia, si sia cimentato alla fondazione di una morale, ma il tentativo risultò abbozzato e non certo all’altezza delle premesse. Il pregiudizio, riconosciuto dallo stesso Sartre, nasce dalla circostanza che ogni morale è per sua natura necessariamente astratta; se è stato possibile fondare un’ontologia affatto estranea alla concreta, storica vicenda umana, non così può avvenire per una morale avulsa dalla situazione dell’individuo (in termini sartriani della fatticità). Questa è la ragione per la quale Sartre rifiuta un’etica di tipo kantiano quando, parlando della scala assiologica entro cui  si snoda la possibilità di scelta di un comportamento rispetto ad un altro, introduce il concetto di malafede; un comportamento è immorale perché incoerente rispetto alla propria identità di essere libero. La morale sartriana è prima di tutto un’etica della libertà, non quella egoistica del soggetto, ma quella pensata per tutti: c’è moralità ogni qual volta la libertà di tutti viene garantita. Al contempo, gli spunti sartriani suggeriscono che definire a priori un comportamento da tenere ignorando le condizioni (storiche, politiche, culturali) entro cui può esprimersi la libertà del soggetto è sommamente stolto e totalitario, in definitiva immorale. In fondo non sarà un tantino ipocrita, appassionarsi alla demarcazione di confini rigorosi tra il bene e il male, quando in ogni tempo si condanna taluni come assassini e si proclamano altri eroi, pur essendo entrambi autori delle medesime azioni?
A dispetto delle sollecitazioni emerse, non saprei formulare un solo comandamento adeguato ad una morale atea degna di questo nome; non avrei alcun dubbio però nell’indicare alcuni caratteri essenziali di una propedeutica ad una morale atea plausibile. Sembra difficile disgiungere l’ateismo, anche nelle sue ricadute morali, dal razionalismo, o se volete più prosaicamente, da una sufficiente dose di buon senso: non si può immaginare una morale atea coerente che possa pretendere l’uccisione dei propri figli per il bene di una stirpe, di una nazione se non dell’umanità. Se poi appare claudicante un comportamento virtuoso frutto di buoni convincimenti privo dell’ingombrante imprimatur soprannaturale, valuterò che il senso della misura di una ragione prudente ma comunque appassionata, possa avere una sua intrinseca pregnanza. Infine, questa insorgente etica atea, per quanto iscritta nei nostri geni e portato della memoria della nostra specie, la sento irreversibilmente legata ad un qualche idea di responsabilità indisgiungibile da quel valore di libertà difficilmente definibile – se non per differenza o in situazione – come egregiamente su questa rubrica ha scritto Bruno Gualerzi nel suo articolo La libertà nella condizione umana.

* Ha studiato teologia e filosofia, è laureato in Storia. Collabora attivamente nel Circolo UAAR di Padova

NB: le opinioni espresse in questa sezione non riflettono necessariamente le posizioni dell’associazione.
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33 commenti

tonii

La domanda inizale ha senso solo nel piccolo mondo indoeuropeo. In Cina il confucianesimo, che ignorava la metafisica e rigettava qualsiasi ipotesi di discorso sul post-mortem, ha sempre considerato l’etica il fondamento del suo insegnamento e della società.
I dibattiti interni al confucianesimo sulla natura umana videro alla fine imporsi le tesi menciane di “bontà” geneticamente predeterminata dell’uomo – esemplificata dal tema del bambino nel pozzo – eventualmente “guastata” da un ambiente sociale corrotto.

Quindi scopo del confucianesimo, e dell’agire sociale dell’uomo nonché quello politico del governo, doveva essere rivolto all’eliminazione degli impedimenti nella società che ostacolavano l’uomo nell’esercizio pieno dell’etica di cui era portatore spesso inconscio.

Un governo quindi volto a promuovere l’istruzione (solo dopo aver garantito cibo e vestiti, come riportato nel Lunyu) e, tramite questa, lo sviluppo dell’etica.
Tratto caratteristico dei popoli barbari, fisicamente e culturalmente distanti dalla Cina, era riconosciuto proprio l’essere incapaci di agire in modo etico.

Se i buoni confuciani avessero sentito che tra questi barbari ve ne erano che ritenevano la morale una caratteristica religiosa avrebbero scosso la testa e se ne sarebbero andati ridendo…

bruno gualerzi

La morale o è atea o non è.
Riprendendo Kant, esiste una morale autonoma e una morale eteronoma. Nel primo caso l’uomo ricava i criteri che dovrebbero informare il proprio comportamento da se stesso (per Kant da un ‘imperativo categorico’ che imporrebbe ‘la legge morale’: in reatà circolo vizioso senza via d’uscita); nel secondo caso i precetti morali non possono che arrivare ‘da fuori’, cioè poi, in sostanza, da ciò che le varie religioni – comunque intese e vissute, e non necessariamente solo quelle ‘positive’, istituzionalizzate – impongono ai propri fedeli.
Ora, i precetti che vengono ‘da fuori’ rendono possibile una reale libertà di scelta, condizione indispensabile perchè il problema morale si ponga come problema (se non si è liberi di scegliere, evidentemente non posso essere respomsabile delle mie azionie)? Il credente dirà di sì, sia che ricorra al cosiddetto libero arbitrio, sia che riconduca la libertà di scelta alla scelta di aderire ad una religione ed ai suoi ‘comandamenti/insegnamenti’. In entrambi i casi si deve uniformare a vincoli che può rispettare o non rispettare, ma che vincoli assoluti sono. E basta porre mente – come nell’articolo si richiama – all’esistenza di diverse religioni che propongono/impongono diversi precetti morali, per constatare come questa pretesa assolutezza, sia in realtà espressione del più pericoloso relativismo. Come la storia insegna.
L’ateismo, allora? Anche l’ateo è soggetto ad un vincolo, quello determinato dalla condizione umana, a sua volta sottoposta ad un processo evolutivo che, tra gli altri, ha dotato l’uomo di un istinto che gli consente di essere consapevole di questa condizione caratterizzata soprattutto dal bisogno e che chiamiamo ragione. Questo istinto, che è consapevolezza, è l’unico punto di riferimento cui riferirsi per orientare il proprio comportamento. Questo istinto – tagliando corto – rende consapevole l’uomo che, se vuole salvaguardare la propria esistenza deve in qualche modo orientare gli altri istinti a questo fine. E siccome la condizione umana è caratteriazzata dal bisogno (un essere vivente non bisognoso non esiste), sempre l’istinto di sopravvivenza lo porta a vedere nel proprio simile un concorrente nel soddisfacimento di questi bisogni, da cui l”homo homini lupus’… ciò che però contrasta con la consapevolezza che, lasciando ‘libero’ questo istinto si autodistruggerebbe. Ciò che a suo volta contrasta con l’istinto di soporavvivenza.
Bene, entro i limiti di questa condizione l’uomo può scegliere’, è libero di scegliere l’uno o l’altro istinto. Se segue la ragione non può che entrare in un rapporto coi propri simili improntato alla collaborazione e alla solidarietà (Schpenhauer parla di ‘com-passione).
I comportamenti veramente morali, quindi, o si ricavano da una razionalità dei cui limiti si è consapevoli, ma che non sono superabili (come pretendono le religioni), oppure ci si vota all’autodistruzione.

POPPER

vorrei rispondere a questa tua domanda:

Ora, i precetti che vengono ‘da fuori’ rendono possibile una reale libertà di scelta, condizione indispensabile perchè il problema morale si ponga come problema (se non si è liberi di scegliere, evidentemente non posso essere respomsabile delle mie azionie)?

La libertà di scelta l’ho vista nella mia stessa famiglia, siamo in 5 figli e ognuno ha convinzioni religiose e filosofiche e anche politiche diametralmente opposte, che fortunatamente si son confrontate con toni medio-alti e poi oggi molto pacati e rispettosi. l’ateo della mia famiglia somunque sono io, gli altri sono non molto cattolici praticanti e comunque non fanatici.

Io ho potuto costatare che i genitori con un educazione etica sono i migliori rispetto a quelli con educazione morale e con molti tabù; essi lasciano che i propri figli maturino una propria coscienza etica insegnando loro ad assumersi le responsabilità e le conseguenze delle proprie azioni, lasciando che i figli sbaglino perchè la correzione è, non solo educazione, ma anche un aiuto emotivo che invita ad essere un po’ umili nell’accettare delle ossservazioni giuste, ed è proprio l’approccio emotivo che spesso corregge anche i sentimenti emotivi tipici dei complessi adolescenziali, molto meno problematici verso la maggiore età e in età adulta, in cui la saggezza è maturata fino ad essere aperti alle osservazioni anche più dure, magari un po’ indigeste a seconda dell’umore e dello stress psicologico in cui si è sottoposti.

L’etica è un argomento complesso per molti versi, non lo si può liquidare in qualche frase di onestà e sincerità, non è sufficiente, c’è tutto un retroscena di rapporti più o meno tesi con la famiglia e la società, il lavoro e il tempo libero, tuttavia ci accomuna il rispetto reciproco e la reciproca partecipazione ad un progetto laico.

POPPER

Credo sia inutile giocare sulle parole etica e morale, meglio individuare le categorie di provenienza da cui sia il credente che l’ateo hanno bevuto dallo stesso bicchiere (educazione dei genitori) e che ad un certo punto della crescita e maturità di entrambi essi abbiano sviluppano una propria coscienza o, nel caso del credente si sia rimasti alla vita precettistica.

Al bivio tra coscienza critica e coscienza precettistica, i due individui hanno deciso di trattare la propria vita e le proprie convinzioni in modo radicalmente diverso tra loro, pur provenendo dalla stessa famiglia ed educazione, l’ateo sviluppa una coscienza etica e il fratello credente una coscienza morale, ma entrambi hanno anche recepito un etica comune a proprosito del rispetto delle leggi dello Stato in cui l’ateo è a tutti gli effetti cittadino e il fratello credente battezzato è fondamentalmente suddito del papa e appoggia il governo che si fa guidare dal papa giustificando le indebite interferenze come difesa del diritto di culto da parte del monarca assoluto di uno stato estero.

Ok, ho voluto introdurre due fratelli che hanno in comune solo l’educazione dei genitori ma che col tempo hano sviluppato l’ateo un etica laica e il credente una morale precettistica, due forme di coscienza che non possono equivocare o contestualizzare il senso della laicità; è chiaro a tutti che il fratello fedele al papa è solo una questione morale ma che lo trova incoerente con l’etica della laicità legata ai valori della democrazia, della neutralità dello stato e del rispetto verso leggi laiche che non trovano in lui l’appoggio morale proprio perchè fedele suddito più al papa di uno stato estero che leale allo stato di cui è cittadino.

Individuare dei valori laici comuni per entrambi è compito prima di tutto della famiglia e della scuola, poi del mondo del lavoro e dlela politica, per esempio lo sport unisce tutti ma genera anche tifoserie sia sane che esagitate, quindi, la faziosità degli opposti estremi è presente soprattutto nelle questioni morali tra credenti e eligioni in rapporto con lo stato, mentre intorno a quelle etiche vi sono discussioni ideologiche che possono equivocare il senso della laicità giocando a contestualizzarla giustificando non eticamente ma moralmente l’obiezione di coscienza dei pro vita anche quando questi impediscono che si eroghi un servizio a una donna di cui ai sensi della legge 194.

I due fratelli dialogano semmai grazie ad un etica civile su molti argomenti, ma quando il fratello, fedele al papa, perchè incalzato sulla questione della 194 e dell’eutanasia interrompe il dialogo e pretende il rispetto dal fratello ateo per il proprio diritto di culto, non avrà che una risposta naturale: per il papa sei disposto anche a litigare con me che sono tuo fratello, e a non parlarmi più, oltre che ad essere crudele con la donna e con chi come Eluana e Welby hanno sofferto la mantalità cattolica di tortura di fine vita? Ma che mosstruosità fanatica nella tua morale!

Alché, il fratello fedele al papa si risente un po’ emotivamente e risponde al fratello ateo che la morale è per chi non vacilla nella coscienza mentre l’etica è molto relativa ed è per le persone che non hanno una coscienza stabile. Questo risposta è molto diffusa oggi nella mentalità religiosa ligia ai doveri precettistici.

POPPER

“Le religioni, in apparenza, godrebbero di un indubbio vantaggio; le statuizioni morali ivi contenute, fanno riferimento ad una legge divina positiva o comunque a personalità carismatiche più o meno ispirate, contrastare le quali vorrebbe significare duellare con dogmi e profeti.”

Caro Stefano Marullo, sono d’accordo con te su molti punti, anche per me è infruttuoso fare Donchisciotte contro dogmi e profeti, tanto più che certi modelli medioevali vengono sempre presentati dal papa come attuali, alché molti di noi, ma anche molti cattolici, percepiamo un papa in terribile ritardo, non solo rispetto ai giorni d’oggi, ma addirittura rispetto all’illuminismo.

Oggi i modelli morali sono Berlusconi, contestualizzato in tutte le salse da Fisichella, sia bestemmiatore, bunga bunga che come corruttore di parlamentari soprattutto cattolci, e ciò piace al papa perchè gli regala i soldi degli italiani, ma è ovvio a tutti che non siano proprio i politici attuali a dettare modelli di etica laica per tutti, ed è per questo che l’etica laica nel suo vero significato è l’eterna incompresa e boicottata proprio da chi dice di essere laico.

POPPER

interessante è anche il dibattito sull’etica atea del Circolo di Torino.

http://www.uaartorino.org/index.php?option=com_content&view=article&id=164:dibattito-sulletica-atea-al-circolo-di-torino&catid=38:attivita&Itemid=63

in cui l’etica atea è responsabilità-rispetto e eco-compatibilità, un comportamento responsabile partecipa ai progetti di studio e lavoro eco-compatibili, e non è certamente un un corportamento da isolato e ghettizzato, al contrario la libertà individuale diventa partecipativa, creativa e comunicativa, e non in una logica di potere carismatico.

Sul significato di carisma si può anche alludere a dei leader laici che sono oggi anche capi di stato, ma come influisce l’etica del leader carismatico anche se laico, ateo, agnostico e razionalista sul gruppo, l’associazione, i propri concittadini? Come ci si identifica spesso con il rappresentante e l’intellettuale ateo, agnostico e razionalista? Anche se essi individualmente non pretendono di parlare a nome di tutti gli atei, agnostici e razionalisti, si deve comunque intendere la loro rappresentanza come necessità etica in ambito associativo e dal leader ci si aspetta correttezza, coerenza, lealtà, trasparenza legale e disponibilità al dialogo e al dissenso critico, semmai ce be fosse bisogno, eticamente parlando.

Cosa è più naturale aspettarsi da un leader ateo, agnostico e razionalista? Il dialogo, certamente, a differenza di un leader religioso che invece afferma di parlare a nome di dio, quindi, indiscutibile clerico-fascismo tipico il comportamento di La Russa sui crocifissi e ad Anno Zero ieri sera.

Fedemone

Il discorso è molto interessante e richiederebbe molto tempo per esser letto e compreso a fondo, molto di più di quanto non ne abbia in questo istante. Ma se posso contribuire all’argomento, oltre alla base teorica, servono anche dei fatti.
http://atheistblogger.com/2009/03/13/atheists-in-prison-what-are-the-facts/

Questo sito riporta statistiche ufficiali USA (pur ammettendo di non disporre dei dati grezzi, ma anche il quel caso, qualsiasi sorgente può essere taroccata, per cui la prenderei come buona), dove gli atei in prigione sono circa lo 0,2% della popolaizone carceraria mentre sono atei il 10% circa della popolazione civile in generale.

Ergo, anche senza fondamenti etici fissati in maniera formale, gli atei (forse in base alla cultura che spesso una persona accumula per diventare atea?) hanno un comportamento nettamente più aderente alla legislazione vigente negli stati uniti, il che equivale (almeno dal punto di vista dello stato) ad essere “morali” e/ “etici”, o almeno a non farsi beccare dalla legge se proprio vogliamo fare i pignoli.

Se i fatti sono questi, la domanda se un senza Dio può essere morale, è sconfessata dalla realtà dei dati. Certo bisognerebbe fare una grossa indagine (magari anche nelle nostre carceri!) e chiedere come mai un cattolico, con tutti i dogmi, precetti, insegnamenti, ipotesi di castighi divini, finiscono comunque per commettere quelle cose che gli altri non fanno. Chissà che sorprese ne verrebbero fuori…

Giorgio77

Però qui non si prende in considerazione un’altra variabile e cioè il grado di eticità di una legge, chi stabilisce che una legge sia eticamente perfetta, lo stabiliscono gli uomini e infatti molte leggi sono discutibili, quindi non basta rispettare le leggi per potersi considerare eticamente ineccepibili, e qui entra in gioco un qualcosa di cui ho già scritto altre volte e cioè la coscienza, quella cosa ad esempio che mi fa pensare che la pena di morte o la lapidazione è sbagliata, eppure in molti stati è legge.

#Aldo#

Se uno per strada mi desse a bruciapelo del prolegomeno, state pur certi che gli risponderei con un bel: “Ma che vuoi, anacrusico!”. E magari gli rifilerei pure un ceffone!

Diocleziano

Accertati, però, che non sia un ‘batracomiomaco’… 😉

bruno gualerzi

Finalmente il post sta decollando
Finalmente, caro Marullo, la tua fatica riceve il giusto premio, le tue riflessioni trovano il giusto riscontro. Forse non credevi nemmeno tu, vero?, di suscitare tanto interesse, di provocare un commento così arguto…

stefano marullo

Eh no, caro Bruno, il principio “retributivo” di veterotestamentaria memoria non mi appassiona per niente 🙂
A parte la battuta, sono molto ammirato dei dotti commenti che sto leggendo. Il mio articolo poneva più domande che tesi.
Ottimo anche il “prolegomeno” di Aldo. E tu, caro Gualerzi, non scherzavi mica con il tuo ‘causa sui’…

#Aldo#

In effetti ho smesso di leggere l’articolo dopo la sesta riga.

bruno gualerzi

@ stefano marullo
Caro Marullo, non ci capisco più niente… ma evidentemente è solo colpa mia che credo di fare dell’ironia e invece vengo preso sul serio. Scrivo un commento in difesa di qualcuno che mi sembra venga fatto oggetto di facile derisione (come spesso è capitato anche a me)… ed ecco che vengo accomunato (sempre se ho capito bene) a chi intendevo criticare.
Devo smetterla di fare dell’ironia che evidentemente non è il mio forte.
Comunque, a scanso di ulteriori equivoci, intendevo difendere te (e me) dalla battuta di *Aldo* al quale replicavo… il quale poi a sua volta (a ulteriore conferma che l’ho fatta fuori dal vaso) ha ritenuto che mi fossi posto sulla sua stessa l’unghezza d’onda.
Mahh…

bruno gualerzi

@ stefano marullo.
Preciso meglio. Il mio intervento era in difesa della tua ‘opinione’, frutto di una riflessione tanto impegnativa quanto esposta con efficacia (almeno per me), fatta invece oggetto di una ‘demolizione’, non tanto basata su argomenti, ma sull’uso che fai di un termine per altro di uso corrente. Da qui il mio – che voleva essere ironico – “Finalmente il post sta decollando”.

Aggiungo che ila mia ‘tirata’ delle 10.01 di ieri – come sempre un pò contorta – prende comunque lo spunto da questa tua ‘opinione’.
Buona giornata

stefano marullo

a bruno gualerzi:
Davvero non ho colto alcuna cattiveria nella battuta di Aldo che mi ha fatto persino ridere. E il mio riferimento al tuo articolo (e al termine ‘causa sui’) voleva sottolineare che talvolta certo lessico può apparire un po’ ostico, questo non vuol dire che non sia opportuno.. Concordo che le critiche dovrebbero concentrarsi sul merito delle questioni piuttosto che soffermarsi sulla forma (sarebbe come giudicare una persona dalla capigliatura). E sono fiducioso che se Aldo andasse oltre le sei righe avrebbe qualche elemento in più per le sue valutazioni. Grazie per le tue parole. E spero che si chiuda questo siparietto. Il dibattito sta prendendo una piega davvero interessante. Ho già parlato troppo di mio…

#Aldo#

Con la mia sciocchezza non intendevo esprimere alcuna valutazione — come avrei potuto valutare qualcosa senza aver letto il testo? Semplicemente volevo alleggerire l’atmosfera, ed ero a milioni di parsec di distanza da qualsiasi intento sarcastico nei confronti di Stefano (che neppure conosco). Ammetto che benché mi ritenga in grado di “decifrare” testi anche piuttosto ostici non sempre la voglia di farlo mi assale veemente. In questi giorni ho in testa solo le prossime vacanze, durante le quali spero di poter ricaricare quelle pile un po’ scariche che mi permettono d’andare avanti solo perché aiutate dall’inerzia.

P.S. per Stefano – Ho imparato con gli anni che quando si scrive una luuuunga pagina, per invogliare il lettore occasionale è più costruttivo usare un tono piano e leggero, magari perfino scherzoso. Anche a costo di perdere qualche punticino agli occhi di chi guarda le cose dall’alto. E’ un’opinione, nè!

Batrakos

Gualerzi, tu dici:

Bene, entro i limiti di questa condizione l’uomo può scegliere’, è libero di scegliere l’uno o l’altro istinto

Scusa, ma un istinto non si può scegliere, di qui:
– o si è meccanicisticamente determinati verso uno dei due e in realtà non si sceglie niente
– o il lavoro della via razionale è in qualche modo un superamento dell’istinto, in quanto si comprende che per realizzare il nostro istinto base -quello di conservazione- dobbiamo superare quelli meno adatti. Ma questo non è più un istinto è un lavoro di comprensione, basato alla lontana sempre su un istinto (e come non potrebbe non esserlo?) ma che in qualche modo lo sublima; altra cosa da un istinto puro e semplice che, se fosse un istinto, non si potrebbe scegliere.

bruno gualerzi

Lo so che queste tesi, che da tempo cerco di sostenere, almeno per come ne parlo io, si presta a critiche come la tua. Proverò a spiegarmi meglio… non per convoncerti, ma almeno per farmi capire.
Un istinto non si sceglie, tu dici. Assolutamente d’accordo… ma quando questo istinto – non scelto ma ‘dato’ dall’evoluzione – consiste nella facoltà razionale, usando, per così dire, questo istinto… io ‘ragiono’. Bene o male, come per ogni istinto che può contribuire a salvaguardare o a danneggiare l’individuo. Entro questi limiti, sono ‘libero’: scelgo, valuto, affermo, nego… insomma ‘ragiono’.
‘ENTRO QUESTI LIMITI’… che invece chi ritiene la facoltà razionale una sorta di dono divino, o di un privilegio di cui l’evolouzione ha voluto gratificare l’uomo, intende superare. Lo stesso per chi ritiene – guarda caso, ‘ragionando’ – che questa facoltà razionale non renda liberi. Come mai è in grado di affermare questo?.
Niente ‘sublimazione’ quindi, come dici tu, ma un istinto come tutti gli altri. Di cui certamente sembra sia dotato solo la specie umana, ma che non le permette certo – – di uscire dai limiti propri di ogni specie.

Batrakos

Ho capito Bruno.
Però la ragione non è comunque un istinto, è una facoltà, e c’è una grossa differenza tra le due cose.
Mi spiego con un esempio: io sento la fame, questo è istinto che subisco e basta. Se sono obeso o devo fare una analisi del sangue di lì a poche ore, la ragione mi dice che è bene (ovvero realizzazione di un utile) che io non mangi pur rimanendomi l’istinto della fame. Poi però posso tenermi l’istinto e non mangiare, se sono razionale, oppure mangiare lo stesso alla faccia di quel che mi dice la ragione.
Dunque la ragione non è un istinto, ma una facoltà che sta sopra l’istinto (questo non implica nulla di divino, sta sopra nel senso che opera a partire dall’istinto e decide se assecondarlo o meno) e che, come dici bene tu, è in grado di riconoscere l’istinto stesso e decidere se tramutarlo in azione o meno, se assecondarlo o meno (infatti non sono meccanicista).
Che poi vi siano forme più pragmatiche e tecniche di ragione che usiamo istintivamente, come istintivamente usiamo quelli che poi furono formalizzati come principi di logica, è vero ma la scelta di cui parliamo implica un grado ulteriore, che appunto è una facoltà (cioè è una mediazione e una forma di scelta e non una determinazione pura e semplice).
Resta aperto un problema: la tendenza a usare o meno la facoltà della ragione che ci divide in individui più o meno razionali, è anch’essa una pura e semplice inclinazione biologica o un prodotto di ambiente ed educazione?
Io credo che la verità stia in mezzo: ci sono persone più o meno portate, ma l’educazione e l’ambiente giocano una grossa variabile.

bruno gualerzi

Non mi convince la distinzione fra istinto e facoltà. Se ho fame sento lo stimolo (istinto) a mangiare; se mi trovo di fronte alla necessità di una scelta (come avviene in continuazione: la condizione di ogni essere vivente implica il bisogno), sono dotato, tra gli altri, ANCHE della facoltà (istinto: ripeto, non vedo la distinzione) di ragionarci sopra. Posso farlo o non farlo, ma – magari in seguito – posso sempre giudicare il mio atto. Così come non posso che ‘subire’ la fame, non posso che ‘subire’ il pensare. Ciò che – a quanto se ne sa – non è facoltà (non è istinto fra altri istinti) degli animali.
E naturalmente tra le prerogative di questa facoltà c’è anche quella di essere consapevoli della condizione umana… ulteriore oggetto di analisi e di scelte.

Batrakos

La distinzione è che l’istinto è determinato biologicamente ed è immediato , la ragione, soprattutto nei suoi massimi livelli, è una cosa che opera sull’istinto e decide se sia il caso o meno di assecondarlo: mi sembra una differenza non da poco.
Poi chiaro che a monte di tutto c’è l’istinto di conservazione e la ragione si sviluppa da quello ed è istintiva nelle sue premesse (le evidenze della logica) ma non nei nessi comparativi fra giudizi che da queste premesse l’individuo può trarre (sennò penseremmo tutti le stesse cose e allo stesso modo); ma tra una cosa che subiamo come pura determinazione biologica ovvero l’istinto e un’altra determinazione biologica anch’essa che mi permette di assecondare o meno l’istinto (dunque di scegliere) c’è una netta differenza concettuale, almeno a mio modesto parere.

Batrakos

pardòn ho sbagliato: con (non da) queste premesse (le evidenze logiche) può trarre, nel senso che io ragiono col principio di non contraddizione (ad esempio) non dal principio di non contraddizione come avevo facilonamente scritto.

bruno gualerzi

“ma tra una cosa che subiamo come pura determinazione biologica ovvero l’istinto e un’altra determinazione biologica anch’essa che mi permette di assecondare o meno l’istinto (dunque di scegliere) c’è una netta differenza concettuale, almeno a mio modesto parere.

Non credo si tratti di una ‘differenza concettuale’, ma delle caratteristiche proprie di questo istinto, di questa facoltà. Facoltà di pensare, di ragionare, che – ripeto – mi trovo anch’essa imposta, non ne psso fare a meno. E nelle potenzialità di questa facoltà c’è anche quella (che tanto pensiero, classico o meno, vede non come diversità ma come superiorità della specie umana sulle altre… e qui non mi rifersico ai tuoi argomenti, sia ben chiaro) di ‘pensare’ gli altri istinti, di ‘valutarli’, quando lo si ritiene necessario, controllarli. Qui certamente si può parlare di una sorta di ‘supervisione’ della ragione sugli altri istinti, ma – ribadisco il solito punto – sempre di una ‘determinazioe biologica’ (per usare la tua espressione) si tratta.

Batrakos

Bruno, il fatto che sia una facoltà, cioè una cosa che si può o meno adoperare, contraddice il discorso che è imposta.
La logica è imposta, non la ragione che si sviluppa sullo studio e sul confronto e in alcuni nemmeno c’è se non embrionale.
Un istinto è universale (ce lo hanno tutti), meccanico e non valutativo e nemmeno facoltativo; una facoltà è soggettiva per gradi, esercitata, valutativa e facoltativa..
A me resta difficile per questi motivi identifiKareuna facoltà (che comunque nasce da un istinto e da quello si sviluppa ma di qui non è per forza identificabile con esso come penso sia evidente senza dilungarci) con un istinto puro e semplice.
Poi capisco che stiamo cavillando dal momento che tu estendi di molto il normale concetto di istinto fino a comprenderci la facoltà, ma a me non sembrerebbelo le due cose coincidenti.
Spero tu abbia capito il mio punto di vista ma qui posso anche fermarmi, giacchè sostanzialmente cambia di nulla.

Giorgio77

“un’altra determinazione biologica anch’essa che mi permette di assecondare o meno l’istinto”, però anche questa determinazione si potrebbe considerare comunque un istinto, o meglio un istinto che prevale su un altro.

Batrakos

Può essere Giorgio77, ma a quel punto si torna al mio intervento iniziale per cui non ha senso parlare di ‘libertà’.
Ma, dal momento in cui si assume che io scelgo di non assecondare quell’istinto, proprio perchè scelgo non posso parlare più di istinto.

bruno gualerzi

“Bruno, il fatto che sia una facoltà, cioè una cosa che si può o meno adoperare, contraddice il discorso che è imposta”

Hai ragione, forse stiamo cavillando… ma dopotutto c’è in ballo ‘la libertà’, e quindi la morale!
Per cui devo ribattere all’accusa di contraddizione… sempre ricorrendo al solito argomento: ‘imposta’ è una razionalità che tra le sue caratteristiche ha quella di essere usata o meno, come dire, per sua/nostra scelta. Del resto – da questo punto di vista come per tutti gli altri istinti – può portare all’autoaffermazione o all’autodistruzione.
Eventualità quest’ultima, che – e proprio ad opera di una razionalità usata male… per esempio ritenendo di dovervi rinunciare di fronte ad una ‘fede’ – tutt’altro che teorica.

Batrakos

Bruno devo chiudere momentaneamente, ma non sono d’accordo.

Io non riesco più a capire; tu dici: ‘‘imposta’ è una razionalità che tra le sue caratteristiche ha quella di essere usata o meno, come dire, per sua/nostra scelta’.
Ma se ha come caratteristica quella di essere usata o meno per scelta nostra e anche c’è la libertà sul come (a che fine insomma, come dici sull’autodistruttività) usarla non reisco a capire ove sia l’imposizione.
Invece nessun istinto (fame, sete, sesso, sonno) porta all’autodistruzione; non ha senso dire che un istinto possa essere ‘usato male’ come sostieni tu dicendo ‘tutti gli altri istinti’…l’istinto va soddisfatto per necessità biologica, non c’è un buon o un cattivo uso dell’istinto; della ragione, come dici tu stesso, sì.
Per questo io continuo a far fatica a considerare la ragione, cioè una facoltà, un istinto.

bruno gualerzi

Non so se avrai tempo e voglia per riprendere e continuare un confronto che per me – sia pure col rischio incombene di pestare l’acqua nel mortaio – si sta rivelando molto stimolante… e in ogni caso mi spinge ad approfittarne per provare a mettere sempre meglio a punto certe mie convinzioni. Sperando possano offrire spunti anche a te (ad altri amici del blog, non oso nemmeno pensarlo).

Gli istinti, si diceva. Tutti indistintamente… intanto possono, per servire alla specie, essere distruttivi per gli individui: per ‘saziare la fame’ ‘ mi nutro di altri individui, in genere di altra specie, anche se non sempre, i quali a loro volta si nutrono ecc… non escluso da questo punto di vista l’uomo, che, come si suol dire, è sì al vertice (o alla fine) della catena alimentare, ma non tanto perchè non è fatto oggetto di ‘attenzione’ da parte di altri individui di altra specie, ma perchè – in genere – sfrutta la facoltà razionale per proteggersi. In ogni caso gli istinti di una specie – per ragioni in genere legate a mutamenti climatici, ma anche per altri motivi – invece di aiutare la specie stessa a sopravvivere e a riprodursi ‘riuscendo’ l’evoluzione a modificare ‘in tempo’ gli istinti per adeguarli alla nuova situazione, possono portare all’autodistruzione. A questo proposito si citano sempre i dinosauri, quale sia stato il vero motivo della loro scomparsa.
Ma l’uomo, si dirà, si comporta diversaente dalle altre specie. Nessun dubbio, ma alla fine anche lui – come già dicevo – si avvale del suo istinto (facoltà) razionale, certamente per autopromuersi… ma intanto, a questo scopo – almeno fino ad ora – si è studiato più che altro di ‘sconfiggere’, e possibilmewnte annientare, ‘i nemici’, cioè degli appartenenti alla stessa specie visti come concorrenti nel soddisfacimento dei bisogni. E non ha risparmiando certo a questo scopo la capacità razionale, anzi!, usandola però contro se stesso fino a costruire armi di distruzione di massa potenzialmente in grado di portare all’estinzione l’umanità intera… prima ancora che vi possa provvedere il ‘respiro’ della terra (questo magari controllabile) o eventi cosmici certamente non condizionabili dall’uomo. (Freud parlava a questo proposito di Eros e di Thanatos, di ‘istinto di vita’ e ‘istinto di morte’, altri di ‘homo homini lupus’ ecc). Nel ‘frattempo’, in ogni caso – sacrificandoli sull’altare del ‘progresso’ per l’autopromozione della specie – è stata tolta la vita a milioni di individui. Tanto che si parla, anche per l’uomo, di ‘selezione naturale’.

In quanto alla ‘libertà’, può essere esrcitata solo ‘all’interno’ di una parabola biologica individuale che, come tale, può essere dilatata, modificata, riprodotta artificialmente, certamente sempre migliorata come scelta… ma mai eliminata come condizioine umana (‘condizione’, cioè, appunto, parabola biologica che determina il ‘transito’ di ogni individuo dalla nascita alla morte, e non ‘natura’ umana, questa sempre modificabile).

Credo comunque non ci si intenda sul fatto che, per diversa dagli altri istinti che sia, la facoltà razionale, è pur sempre – come del resto concordi anche tu – un prodotto dell’evoluzione. A me sembra che vedere le cose in altro modo (non parlo per te), cioè non accettando che la razionalità sia, non tanto un istinto ‘diverso’ dagli altrri (ovvio), ma pur sempre un istinto, sia il prodotto di una cultura magico-religiosa la quale non accetta che il ‘destino’ dell’uomo sia ‘altro’, e superiore, a quello delle altre specie animali.

Batrakos

Bruno, ho acceso il computer appena adesso. Risèondo poi lo farò appena mi è possibile.

L’istinto di mangiare (per cui posso uccidere altri animali) rimane, posso al massimo decidere entro un certo limite (e chiaramente come dici tu la scelta umana non è libera assolutamente, ma lo è relativamente) di non soddisfarlo o soddisfarlo non mangiando animali, ma il mangiare in sè non ha nulla di male o di bene, se rimane nell’ambito dell’istinto e non è ingordigia.

Abbiamo a questo punto il temperamento, che è fatto di tendenze. Ma il temperamento (con le sue tendenze) non è immediato e coercitivo come l’istinto, è un mix di geni e ambiente. Dunque c’è chi ha temperamenti più o meno violenti, più o meno allegri, più o meno ingordi. Ma qui la ragione può influire e contenere certe tendenze, ma io -ad esempio- non posso fare buon uso della tendenza alla sopraffazione: posso capire che per una serie di ragioni è meglio non favorirla.
Ovvero nemmeno di una tendenza in sè si può fare buono o cattivo uso, ma ci posso lavorare con la ragione.
Certo se io devo sopravvivere e la ragione mi dice che devo ammazzare per sopravvivere non si tratta più di tendenza a sopraffare l’altro, bensì di necessità di sopravvivenza.

In soldoni: è sempre è solo la ragione di cui possiamo fare diverso uso, non l’istinto e solo per pochissima parte le tendenze.
Per me questa (limitata ma esistente) possibilità di scelta rende la ragione una facoltà, che allo stato attuale dell’evoluzione solo l’uomo ha, e non un istinto. In remoti futuri ci saranno specie che saranno più razionali di noi, questo è molto probabile e certamente la ragione è un adattamento evolutivo.
Ma proprio per le caratteristiche che sono l’opposto della coercizione e dell’impulso totut court, io faccio fatica a definirla ‘istinto’, anzichè facolta.
Anche perchè, per come è fatto l’istinto, se fosse un istinto non ci sarebbe alcun margine di libertà.
(La decisione giuridica sulla capacità di intendere e di volere si basa proprio sulla ragione come facoltà anzichè come istinto e segue questo schema di ragionamento, pur non avendo nulla di religioso).

lucia

Faccio la compagna di Bertoldo e Bertoldino e scrivo senza prima leggere i vari commenti. Gira che ti rigira, tutti abbiamo ben chiaro cosa significhi agire con generosità o con avarizia. Gira e rigira tutti abbiamo ben chiaro che quando si é in una condizione di superiorità, anche solo di benessere fisico, è più “naturale” sentirsi generosi. I giovani generalmente lo sono, nei confronti, ad esempio, di estranei che vedano in difficoltà immediata e di età avanzata. Risulta chiaro a tutti, in particolare, cosa voglia dire condividere anche solo idealmente un disagio o una sofferenza: lo si capisce di più quando, con una certa comprensibile insincerità, diventa necessario darne dimostrazione.
Dunque se etica è comportamento, si è indotti a provare un certo fastidio nei confronti di chi senta il bisogno di arzigogolare per dimostrare” nonsisaché”.
Se davvero prendessimo per buono quel “li riconoscerete dalle loro opere” che ora non compare quasi più negli scritti e nei detti dei moralisti, sapremmo subito di essere tutti ben poco riconoscibili come “morali” quanto alle nostre opere . E ragionevolmente peraltro: mica vogliamo porgere l’altra guancia! Né ci parrebbe giusto rinunciare al nostro sudatissimo pane per cederlo a chi venisse a pretenderlo come suo gratuito diritto!. Questo tipo di morale ci appare anche troppo ragionevolmente eludibile e dunque non parliamone. Parliamo piuttosto della morale non del credente, ma del cittadino. Ci verrebbe chiesto ( o lo dovremmo di nostra iniziativa?) innanzitutto di fare bene, al meglio e provvedendo a migliorare, il nostro lavoro.Ci verrebbe chiesto di non ingannare chi ne sa meno ammantando di misteri cose che misteri non sono: ad esempio le leggi o le procedure. Ci verrebbe chiesto di non lucrare su una “sacralizzazione” del nostro lavoro tesa ad allungare i tempi e dunque gli “onorari”. Ci verrebbe chiesto, insomma, di non approfittare, da “divoratori di doni”, del nostro maggior sapere teorico o pratico (in Veneto si dice. se vuoi che tuo figlio diventi un delinquente, fallo studiare.. Dante Alighieri ha messo a fuoco la “morale”: “L’ingegno affreno che virtù no’l guidi”…)Per chiudere il cerchio delle mie( inconcludenti?) parole, ripropongo una trovata comica di qualche anno fa e di un comico che non ricordo: “Se tu cincischi tu c’inciampi, Ciompi!” Se la morale é comportamento, può essere che la tanto vituperata casistica gesuitica sia più radicata e convincente di altre argomentazioni tipo “incantesimi del vuoto”. Infatti certi studi recenti, senza voler scomodare il comportamentismo, ripropongono il concetto di contesto (essendo esso una realtà, non una teoria) per giungere ad una casistica, appunto, che è, nella sua concretezza, più etica che mai ( perché dalla della realtà, supportata e supportante ). Insomma delle somme e per finire in “propaganda”, il paesaggio visivo, sonoro, umano e morale che l’ateo Leopardi ha scolpito con le parole ne LA GINESTRA , può valere ben più di ogni Summa Theologica..o Philosophica: ben più di tutti i “ragionamenti” che usualmente chiosano opere di quella fatta (per dirla in uno stile adeguato…).Amen

bruno gualerzi

Solo un appunto, per altro scontato… ma te lo sei cercato. Cos’è il tuo se non un ‘ragionamento’? ‘Cincischiato’ o no, non l’avresti certo potuto fare se – come si dice nel Veneto – ti fosse stato applicato il detto: “se vuoi che tuo figlio diventi un delinquente, fallo studiare”
In quanto all’ateo Leopardi, non solo è stato un grande poeta, ma molto probabilmente il maggior filosofo italiano dell’800. Basta intendersi sulla nozione di ‘filosofia’.

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