Bruno Gualerzi*
Ritengo che i miglioramenti della condizione umana debbano riguardare prima di tutto i viventi, cioè quanti ne possono effettivamente usufruire nell’arco della loro esistenza, altrimenti tutto verrà sempre proiettato in avanti, per ‘quelli che verranno’… i quali a loro volta proietteranno in avanti gli ulteriori necessari miglioramenti… e così via. E’ proprio puntando invece sul presente che si lascia in eredità un mondo dal quale chi verrà in seguito potrà partire sfruttando, per risolvere i problemi che lo riguardano mentre vive, quelli già risolti in precedenza, lasciando così in eredità a quelli che verranno un punto di partenza sulla base del quale… eccetera, eccetera.
Naturalmente, se non tutti, la maggioranza dei problemi non si possono risolvere certo solo nel giro di qualche generazione, e meno che meno per tutti, e alcuni forse non si risolveranno mai… ma non si dovrebbe procedere lasciando che i problemi risolti nel presente, quali che siano, valgano per alcuni e siano lasciati marcire per altri (che, almeno fino ad ora, sono sempre la maggioranza) perché è da qui che nascono quegli squilibri sociali, quelle differenze insostenibili tra chi può e chi non può, tra chi ha e chi non ha, che manterranno sempre una condizione di conflittualità. Non credo si debba procedere sempre e comunque da parte di pochi “perchè poi gli altri seguiranno”, in quanto è da qui – sia pure in modi diversi, anche diametralmente opposti – che si vive tutti in uno stato di precarietà che prima o poi provocherà quelle esplosioni di violenza le quali, invece di stabilire un qualche equilibrio, creano solo le premesse per nuove forme di disparità e quindi di violenza. E sempre alto – come la storia dimostra – è il prezzo da pagare in vite umane perchè ci si troverà sempre immersi in una faida infinita. Dovrebbe essere questa ‘esperienza’, la necessità del suo superamento, a dare la misura di ciò che migliora effettivamente la condizione umana rispetto a ciò che la peggiora.
Tutti uguali allora, altrimenti non si va avanti? Si tratta naturalmente di un’utopia… ma è proprio il modo con cui ci si rapporta all’utopia – che esprime sempre un’esigenza reale come esigenza – che scatta, dovrebbe scattare, la radicale differenza tra ateismo e religioni. L’utopia come tale non è storicamente realizzabile pena il realizzare proprio il contrario di quanto vi si propone (utopia è, e utopia deve restare)… e quando si è creduto di realizzarla nella storia – per esempio col cosiddetto socialismo reale (cioè il comunismo sul modello sovietico) – si è solo obbligato gli individui a far parte di un unico gregge (tutti ‘uguali’ perchè si fa parte di uno stesso gregge) procurando solo tragedie.
Ora, come si comportano le religioni di fronte alla constatazione che storicamente l’utopia non è realizzabile? La collocano in una dimensione trascendente, a-storica, per accedere alla quale occorre andare oltre la condizione umana prospettando così necessariamente – sia pure nei modi più svariati – una vita dopo la morte, singola o collettiva. O comunque, con le cosiddette religioni immanentiste, viene proposto un ‘superamento’ della condizione umana attraverso pratiche che, al massimo, hanno effetto su alcuni ‘illuminati’, mentre agli altri, ai più, sono riservati gesti ripetitivi, giaculatorie ossessivamente ripetute, rituali pur sempre alienanti. E uguali per tutti i fedeli.
L’ateismo – basato invece sulla convinzione che per ogni singolo essere vivente esiste una sola vita – non deve cadere anch’esso nella trappola del divenire indefinito per un’umanità che in realtà è un’astrazione, esistendo veramente solo gli individui, sia pure come componenti di una specie… e per questo può porsi l’obiettivo di un’utopia, come dire, ‘concreta’. Consistente per prima cosa nell’avere ben presente che l’utopia esprime un’esigenza reale che deve comunque essere affrontata per orientare l’attività umana… e poi, per questo, servirsi dei mezzi e dei modi che gli uomini hanno escogitato, e continuano ad escogitare, per conoscere sempre meglio il mondo in cui si vive, esteriore ed interiore, allo scopo di creare poi condizioni oggettive da mettere a disposizione di tutti per poter vivere meglio. Ognuno vivendole liberamente, senza obblighi se non il rispetto reciproco. E a tale scopo la scienza, il metodo scientifico, è il meglio che l’uomo ha saputo elaborare anche, e soprattutto, perchè si tratta di un sapere sempre verificabile concretamente… che però non deve riprodursi in modo autoreferenziale, bensì rapportandosi ai bisogni, in continua progressione, della condizione umana. Non lasciando, in altre parole, che la scienza proceda in totale autonomia, ritenendo, più o meno inconsciamente, che finirà così per realizzare concretamente, storicamente, l’utopia. Naturalmente è necessaria l’elaborazione teorica, che come tale non può essere direttamente rapportata ai bisogni e deve avere tempi propri, ma pur sempre in funzione dei bisogni deve essere orientata per non sottrarsi al vero scopo per cui è nata. Ogni attività umana è resa necessaria dal bisogno., dalla necessità di farvi fronte. Un uomo senza bisogni, diceva Feuerbach… non esiste.
Ecco, ma perchè non prevalga questa possibile deriva, occorre fare riferimento non ad una condizione umana idealizzata, astratta (come fanno le religioni e i loro surrogati), ma, ateisticamente, ad una condizione umana che è esperita veramente da ogni singolo individuo mentre la sta vivendo. Altrimenti servirà sempre… ad altri. E ad altro.
* Già insegnante di storia e filosofia nei licei, è ora in pensione. Nel 2010 è uscito il suo libro Ateismo o barbarie? (autoanalisi di un’ossessione)
D’accordo.
Ma all’atto pratico le sembra veramente che si ecceda nel preoccuparsi di quelli che verranno?
A me pare invece che sia la volontà individuale, sia le forze sociali spingano verso un sistematico scaricabarile a danno delle generazioni future. La questione ambientale e demografica ne è l’esempio più lampante, ma se ne potrebbero trovare altri.
Per il resto, d’accordo al 100%. Sperando di non aver equivocato.
Caro Gualerzi,
sinceramente devo dire che questo è un po’ l’argomento che ripeti abbastanza sovente e che sicuramente su alcune cose mi convince, su altre meno.
Dove non mi convince?
1)Intanto c’è una cosa che mi sfugge.
Prima si dice:
‘Ritengo che i miglioramenti della condizione umana debbano riguardare prima di tutto i viventi, cioè quanti ne possono effettivamente usufruire nell’arco della loro esistenza, altrimenti tutto verrà sempre proiettato in avanti, per ‘quelli che verranno’… i quali a loro volta proietteranno in avanti gli ulteriori necessari miglioramenti… e così via’.
Qualche riga dopo:
‘Naturalmente, se non tutti, la maggioranza dei problemi non si possono risolvere certo solo nel giro di qualche generazione, e meno che meno per tutti, e alcuni forse non si risolveranno mai’
Concordando sul discorso che viene dopo, cioè sul fatto che i miglioramenti non dovrebbero essere solo per strette elites, mi domando come facciano a riguardare i viventi se per questi miglioramenti ci vuole almeno qualche generazione.
2) Inoltre vengono spese righe su righe per esprimere concetti abbastanza semplici estendendoli al massimo nell’esposizione del problema, poi la soluzione si dà in cinque righe finali che invitano genricamente ad una, potremmo dire, presa di coscienza.
Proporre come soluzione una presa di coscienza mi pare un po’ poco: la presa di coscienza semmai è successiva o almeno concomitante alle soluzioni proposte, altrimenti aspettare di risolvere qualcosa auspicando una presa di coscienza è un po’ aspettare Godot…
Avrei piacere di sentire alcune soluzioni pratiche volte a stimolare questa presa di coscienza.
Gualerzi: voglio essere sincero, almeno spiego meglio la mia vis polemica nel commento precedente.
Vedendo che questa tua critica all’alienazione compare sul sito UAAR quindi -indicativamente- credo rivolta anche ai suoi lettori ,già addentro nel tema, leggendoti da un po’ ed avendo già sentito questi punti mi sembra che il tuo post consti di una critica all’alienazione che tu vedi presente anche nei non credenti, non solo come residuo culturale ma come rimandare al futuro il miglioramento.
Avendone già discusso con te, a me pare che questa critica se non si traduce in critica puntuale alle situazioni dove tu pensi che questo riflesso religioso più sia ostativo nei confronti di una battaglia per la laicità (scuola, rapporto con la politica, come porsi sull’8×1000 per fare degli esempi su cosa intendo, poinaturalmente i punti sono solo indicativi)e di una pars construens che possa meglio farci individuare il dibattito e magari migliorarci tutti mi sembra perdere molta della sua efficacia visto che qua lo svolgi.
Vedo ora che hai scritto un libro: se è un estratto dal libro oppure è argomento di conferenze ad una platea più eterogenea e non già impegnata sulla laicità è altro paio di maniche e mi scuso, ma forse sarebbe stato bene indicarlo.
Ecco, mi scuso ancora del tono polemico, avrei fatto bene ad esprimere meglio le mie perplessità da subito.
La butto lì: il rispetto aprioristico non è anch’esso un’utopia?
Vi sono diveri tipi di utopia e, ironia della sorte, utopia molto relativamente differenziata a seconda dell’ideale laico e della speranza religiosa, quindi, non esiste un utopia che unisce tutti in una eguaglianza da unico gregge, ma diverse utopie in cui le differenze tra ideale e speranza hanno un comune denominatore, la giustizia, il lavoro e la pace: si amici, non l’unica religione per tutti, ma la giustizia come riconoscimento di tutti in diritti, individuali e collettivi, il lavoro naturalmente ma eco sostenibile, e di certo la pace e la libertà che resistono ancora come ideali universali nel cuore dell’umanità.
Ma l’utopia, come giustamente dice Bruno Gualerzi, rimane quella che è per suo stesso significato, nonostante abbiamo raggiunto rispetto al passato dei risultati impensabili, sufficienti però oggi per delle nuove piattaforme di progresso civile e scientifico, tecnologico e di grande respiro interculturale, consci che la realtà attuale è tutt’altro che un’antica utopia realizzata, è tuttavia perfettibile e con molte risorse da ridistribuire anche alle popoloazioni che sono state sfrutatte dall’Occidente e che abbisognano della nostra solidarietà civile e politica.
Tra idealità laica e speranza cristiana vi può essere una utopia comune, cioè, un mondo più solidale e impegnato a restituire ai popoli e individui poveri la loro dignità garantendo loro aiuto concreto e riconoscimento dei diritti fondamentali, ma quando si parla invece di discriminazioni nei confronti dei cristiani da parte dell’islamismo, allora l’utopia si differenzia, la religione torna a discriminare tra chi avrà la salvezza e chi no, quindi, ironia della sorte, la speranza cristiana e le velleità islamiche si trasformano in selezione moralistica, cioè, presuntuosa e discriminatoria, avara e tirchia, e omicida.
Tra tutte le utopie e le speranze quale quelle dei laici e dei credenti seocnod voi?
Un mondo solo ateo non lo definirei un utopia degli atei, al contrario, gli atei stessi non lo idelizzerebbero, perchè non è un utopia, almeno da parte mia non ci tengo ad idelizzare un futuro di soli atei.
Poi per quanto riguarda la scienza, anche qui non vi è utopia perchè la scienza stessa ha il suo principio di falsificazione che non le consente di idealizzare un futuro dell’umanità solo scientifico, quindi rimane la speranza dei credenti, anch’essa non ha un futuro certo, appunto perchè è speranza e non certezza, ma tuttavia si possono prevedere alcuni sviluppi socio culturali anche senza essere degli indovini, mediante le statistiche e gli studi di antropologia e biologia, ma nessuno ha la bacchetta magica dell’utopia a costo zero.
L’homo Atheus abbozzato da Gualerzi, che ancora una volta ci fa volare alto, evoca la migliore tradizione letteraria e filosofica. Abita nel tempo goethiano o nell’eterno presente nietzschiano. Ma mi richiama molto il Sisifo di Camus, l’uomo assurdo, senza speranza ma non disperato, libero dal peso del passato e indifferente ad un domani senza senso. “Le fiamme della terra valgono bene i profumi del cielo” insomma, ancorché, sempre Camus, “la parola di saggio si applica all’uomo che vive di ciò che possiede, senza speculare su ciò che non ha”.
All’orizzonte dilatatamente vasto delle religioni preoccupate della salvezza dell’umanità non può che contrapporsi sul piano immanente la ricetta ateistica della sopravvivenza hic et nunc del genere umano
@ Replica ai commenti apparsi (di cui prendo visione solo ora)
Alcuni sono molto circostanziati (in particolare Batrakos e POPPER) e certamente meritano repliche pure circostanziate. Penso comunque che sia utile riproporre cosa intendevo servendomi della riflessione fatta su un’espressione dove è rinchiusa tutta la questione per come la vedo io, cioè quando si parla di ‘VITIME DEL PROGRESSO’.
In genere con questa espressione si vuole designare il tributo che, per quanto doloroso, è necessario versare perchè si possa parlare di progresso, a sua volta genericamente inteso come miglioramento della condizione umana; una sorta insomma di effetti collaterali, dolorosi ma indispensabili, sempre per altro riscontrabili storicamente in concomitanza con un qualche passo avanti dell’umanità. Ebbene, io credo in realtà che si tratti di un ossimoro… pure questo riscontrabile storicamente come tale purchè si legga la storia da un particolare punto di vista, che mi piace definire ‘ateo’.
Perchè ossimoro? Perchè ‘vittime’ e ‘progresso’ si elidono a vicenda: o il progresso avviene senza vittime, oppure NON E’ PROGRESSO. Naturalmente per arrivare a queste conclusioni occorre ritenere che reale progresso a tutt’oggi non c’è stato, sia nel senso che le ‘vittime necessarie’ non sono certo diminuite, sia – da un altro punto di vista – perchè all’innegabile, e per tanti aspetti straordinario, incremento di ‘mezzi’ (sia culturali che pratici) in grado in sè di migliorare concretamente la condizione umana, fa sempre riscontro un proporzionale incremento dei ‘mezzi’ in grado di annullarne i benefici. Alla capacità costruttive fanno da contraltare ‘capacità’ distruttive. Il segno ‘più’ è sempre accompagnato dal segno ‘meno’. Il tutto accettato più o meno fatalisticamente in nome di un ‘miglioramento’ che comunque ‘ci sarà’. Intanto c’è per pochi, ma poi, col tempo, ci sarà per molti di più, se non per tutti. Il fatto però è che i pochi risolvono (almeno da un certo punto di vista) per sè i problemi facendosi ‘aiutare’ (per usare un eufemismo) dai più, i quali possono solo contare sul fatto che, forse, chi verrà dopo di loro – ma non loro! – usufruiranno anch’essi del miglioramento dei pochi, e così via.
Ora, in che senso l’ateismo può costituire un antidoto (io credo l’unico) a questa tendenza? Come ho tante volte sostenuto, ponendo in primo piano il fatto che la specie umana è sì una specie come tante altre, ma i cui individui, i cui elementi costitutivi, i singoli uomini, i soli realmente, storicamente, esistenti… prima di sentirsi specie si sentono, e di conseguenza vivono, come individui. E individui che – ed è propriamente qui che può entrare in gioco l’ateismo – vivono una sola vita, la quale per ognuno di noi si risolve per intero nella parabola biologica che va dalla nascita alla morte. Prima e dopo, PER L’INDIVIDUO, non c’è niente, e meno che meno la specie. Insomma, il progresso della specie (dell’umanità astrattamente intesa, dell’uomo, appunto, come specie umana), non significa niente se perde per dtrada tanti individui che la costituiscono. E individui – ecco la chiave di tutto – che sono tali solo nel ‘presente’ della loro esistenza. Insomma. mentre vivono, non prima o dopo.
Banale? No, elementare.
Adesso mi fermo qui. Più tardi, se ce la farò, poverò a entrare nel dettaglio di alcuni commenti.
Gualerzi,
ti ringrazio intanto del chiarimento, che intanto mi risolve la prima obiezione (quella sui viventi e sui posteri) e sposta il problema della seconda, per cui ti chiederei, quando avrai tempo di entrare nel dettaglio, di tenere conto di questa replica più che del commento precedente.
Sicuramente questa tua precisazione mi trova in linea di massima concorde.
Però questa tua ultima mi sembra più una critica di tipo storico/politico al modello di sviluppo adottato dal capitalismo e dal socialismo sovietico, consistente nello sfruttamento indefesso di risorse materiali del pianeta ed umane ‘necessarie al progresso’ del capitalismo (che secondo il liberismo si distribuirebbe in automatico tra la popolazione, cosa per me falsa e mi pare sia anche empiricamente rilevabile) o della patria socialista, come si diceva allora.
Ora, capisco anche che l’ateismo di cui tu parli è anche critica dell’alienazione ideologica e questo mi sta bene.
Però come uscirne?
Basta la diffusione culturale? E come fare a renderla capillare e forte?
Oppure è necessaria una rivoluzione? (Non necessariamente violenta)
I tempi non mi sembrano maturi, ma, prescindendo per il momento dalla reale fattualità del progetto e stando al puro principio espresso, qualsiasi rivoluzione implica comunque delle vittime, anche quella nonviolenta perchè il potere ha sempre reagito con la violenza alle manifestazioni nonviolente dove queste siano volte a paralizzare e boicottare strade e trasporti, cioè comunque a creare una situazione che deve essere conflittuale, come la storia dell’India di Gandhi insegna.
Esistono poi i ‘nemici del progresso’, che vanno messi in condizioni di non nuocere.
Insomma sarebbe difficile che anche questo mutamento non produca le sue vittime, tra i nemici e tra gli amici: purtroppo la materia stessa si basa sulla morte da cui rinasce altra vita, non possiamo farci nulla.
Se invece si pensasse di pensare a cose tipo decrescita o green economy resta difficile capire come in una società del genere, basata sul massimo profitto nei tempi più brevi possibile, esse possano venire imposte, oltre ad altre riserve su queste forme economiche che ora qua non interessano, c’è già parecchia carne al fuoco.
Riguardo al post -perchè da qui esce un altro argomento- quando dici che non bisogna lasciar fare la scienza da sola risponderei che non esistono applicazioni tecniche neutre, esse si ottengono a seconda dell’interesse che c’è dietro. Altra cosa è la ricerca teorico/scientifica che va benissimo ad andare da sola, perchè è diversa dalle sue applicazioni tecniche che poi possono essere usate in modi diversi a seconda, appunto, del modello economico, sociale e politico vigente. Quindi anche qua mi pare che il problema sia in realtà politico anzichè essere imputabile al metodo scientifico in sè.
Intanto, grazie buona giornata!
(continua)
Wishnet
Ti rimando a quanto scritto sopra. Come provavo a chiarire, è certamente vero che non ci si preoccupa per niente del futuro… ma da parte di chi può risolvere per sè i problemi che lo riguardano personalmente e che non sono certamente strutturali. Per i quali si chiede ai più di ‘sacrificarsi per’, Con quel che ne consegue.
Batrakos
Intanto non capisco perche parli di ‘polemica’. Ci si confronta – per quel che mi riguarda, ma sono sicuro anche per te – sulla base delle reciproche convinzioni, che possono divergere anche radicalmente, ma che comunque dal confronto non possono che arricchirsi.
Ciò che maggiormente non ti convince, se ho capito bene, è il legame che dovrebbe unire analisi e proposte concrete, troppo sbrigativamente queste ultime da me ridotte ad una non meglio precisata ‘presa di coscienza’. Inoltre non ti è ben chiaro dove si riscontrerebbe concretamente una alienazione pur sempre da ricondurre alla alienazione originaria di carattere religioso. Infine tocchi il tema della ‘rivoluzione. Provo a chiarire ulteriormente alcune mie convinzioni
Più che giustamente chiami in causa una critica che in fondo, dici, è una critica al capitalismo. Verissimo, ma non è certo che prima del capitalismo il divario tra i pochi e i molti, gli uni in grado di pianificare il proprio presente diciamo pure sfruttando gli altri, fosse meno profondo, anzi!… se mai il capitalismo – da vedere in uno con il processo di secolarizzazione – non ha ridotto il divario, lo ha solo ‘modernizzato’, creando l’illusione che così si sia democratizzato e laicizzato (se tutti sapessero comportarsi come me, dice Berlusconi, saremmo tutti ricchi… trascurando, si fa per dire, il piccolo particolare che se tutti facessero davvero come lui, a parte altre condiderazioni, lu sarebbe il primo a dover rinuciare alla propria ricchezza, dalla quale poi ricava direttamente il potere). Ora, a parte il fatto che, secondo ad esempio Max Weber, il capitalismo originario ha trovato la vera forza propulsiva nella riforma protestante (tesi controversa, ma tutt’altro che da scartare), il capitalismo ha nel suo dna un ‘valore’, la concorrenza, che finisce sempre per riprodurre una condizione umana completamente risolta nell”homo ‘homini lupus’. E si assimila in questo alla religione non tanto, come si dice comunemente, perchè adora ‘il dio denaro’, ma innestando un meccanismo sempre più fuori controllo in quanto le vere conseguenza si vedranno sempre ‘dopo’. Come per le religioni. Ciò che – per inciso – può valere anche per la ricerca scientifica (per la ricaduta tecnologica della scienza, certo, ma che condiziona a sua volta la teoria, in una sorta di circolo vizioso) qualora la si caricasse di poteri salvifici di natura esistenziale – in una sorta di concorenza con la religione – che non ha e che non vuole per statuto avere.
La rivoluzione, allora? Qui mi sento di essere categorico: la storia ci dice come tutte le rivoluzioni, non solo hanno sempre costituito un punto di rottura per delle contraddizioni ormai insostenibili che, per la necessaria violenza che hanno richiesto, non solo hanno visto la maggioranza dei suoi artefici costretti ad un sacrificio che ovviamente ha impedito loro di godere del nuovo ordine instaurato… ma, il nuovo ordine, proprio in quanto frutto di violenza inevitabilmente ha prodotto nuove contraddizioni. Comunque, si afferma, l’umanità così è andatia avanti, magari – per dirla con Hegel – ad opera dell”Astuzia della Ragione’, cioè di una sorta di Provvidenza ‘laica’ raffigurata dal buon Adamo Smith con la ‘Mano Invisibile’. Riproducendo di fatto all’infinito la dialettica – sempre per dirlo cone Hegel – ‘servo-padrone’, dalla quale, basta vedere chi sono i protagonisti, non può che derivare violenza. Quella violenza chiamata anche ‘levatrice della storia’ dove però i dolori del parto non li ha sopportati la storia, ma gli uomini storici.
Non si tratta quindi di ‘condannare’ le rivoluzioni, spesso, anzi sempre, esplose quando, come si diceva, le contraddizioni dell’ordine esistente, non erano più sopportabili… ma si tratta, COL SENNO DI POI, di provare a superare le contraddizioni prima che sia necessario farlo con la violenza, perchè altrimenti non si progredisce mai veramente.
Ed è di fronte a questa constatazione che l’unica ‘rivoluzione’ possibile è una rivoluzione culturale in grado di far prendere coscienza non in modo conflittuale, ma RAZIONALE, di una situazione che dipende in tutto e per tutto dall’irrazionaliutà: il punto di forza di tutte le religioni. Come concretamente? Con le battaglie per la vera laicità (che non sarà mai tale fin che prevarrà un pensiero magico-religioso) condotte per esempio da UAAR, tipo sbattezzo, rimozione del crocifisso dai luoghi pubblici, oltre naturalmente dall’elaborare e comunicare con i mezzi appropriati un punto di vista ateo di fronte alle varie situazioni.
Mi chiedevi infine se ritengo che l’alienazione sia riscontrabile anche tra gli atei. Sicuramente – e mi ci metto io per primo – quando ci si illude, soggettivamente, che ci si possa liberare facilmente e in modo radicale di un’eredità che ha sempre accompagnato, vanificandole, le conquiste della civiltà, e oggettivamente sostituendo il dio ‘morto’ con un suo surrogato. Di cui ho scritto anche sul blog in continuazione.
POPPER
E’ vero, ci sono diversi tipi di utopia (parafrasando Feuerbach si può dire “dimmi che utopia hai e ti dirò che sei”), ma intanto ritengo che l’utopia come tale esprima sempre il desiderio di ovviare in qualche modo ai limiti sempre esperibili della condizione umana… poi però occorre ‘scegliere’ l’utopia che funga da punto di riferimento, non per la sua realizzazione storica, ma per collocarla pur sempre in una storia gestita dall’uomo per l’uomo come orizzonte mobile che però non dovrà mai oltrepassare la condizione umana. Io credo che la principale esigenza dell’uomo in quanto animale razionale sia creare le condizioni per evitare di cedere all’impulso, per realizzarsi come individuo o come gruppo, di porsi in concorrenza coi propri simili. Non per ‘buonismo’ o per carità cristiana, ma per razionalità. Hobbes poneva l’accento sull’homo homini lupus’ come istinto ‘naturale’ salvo poi ricavarne che vivere in queste condizioini è ‘un gran brutto vivere’… magari per parte sua proponendo un rimedio (lo stato inteso come Leviatano) peggiore del male. Il problema però era impostato correttamente.
Per tornare all’utopia, credo che tra le tìre grandi proposte utopiche scaturite dalla rivoluzione francese, e più in generale dalla cultura illuministica, oggi come oggi da ‘coltivare’ sia l”ègalitè’, come supporto per tener vive ‘libertè’ e ‘fraternitè’.
In quanto ad un mondo ‘tutto ateo’… dipende da cosa si intende per ‘ateo’. Per quanto mi riguarda il ‘teo’ dal quale ci si vuol liberare costituisce solo la sintesi di tutto ciò che conduce all’alienazione, cioè al rimettere sempre ‘ad altro’ la soluzione dei problemi. Quindi non si tratta solo (anche, certo, e per tanti aspeti ovviamente soprattutto) di combattere le religioni positive, storiche, ma anche tutti quei surrogati che ne svolgono comunque la funzione attraverso una semplica sostituzione.
Kheld
Certamente il ‘rispetto reciproco’ considerato come ‘valore’ in sè è pura utopia… ma lo si deve vedere come momento di un processo razionale in grado di cogliere tutta la negatività, tradotta in sofferenza, del suo contrario, cioè (v. sopra) dell”homo homini lupus’.
stefano marullo
Se volevi che mi montassi la testa… ci sei quasi riuscito (^_^)
Bruno,
grazie della spiegazione.
Sulla rivoluzione culturale, per quanto essa sia indipensabile per cambiare il quadro e non solo la cornice, temo che essa da sola non basterà, perchè chi detiene le leve del potere ed ha interesse a mantenere potere e altissimo profitto è sordo agli argomenti e sensibile solo ai fatti, ma questa è solo una mia opinione.
concordo con Bruno,e credo che bisogni riprendere la riflessione di Schopenhauer,a mio avviso mai seriamente affrontata nelle sue implicazioni trasversali.
si infatti, e ringrazio Bruno G per la risposta, ma l’argomento è più che mai un cantiere ancora aperto dove, dalle fondamenta al tetto, vi si avvicendano molti lavoratori di ogni tipo di mesiere, poi alla fine della muratora esterna della casa o del palazzo, vi sono gli utenti finali che prenderanno possesso del lavoro finito, e magari avranno qualcosa ancora di cui lamentarsi, insomma, anche un bel palazzo esteticamente fatto nasconde all’interno dell’appartamento una famigglia o il singolo che dovrà sempre fare della manutenzione, perchè come l’utopia è per sua natura solo immaginaria, così sarà delle opere dell’uomo, mai esaurienti e mai del tutto soddisfacenti, abbisognano sempre della vita che si evolve, e ciò mette sempre in discussione il risultato finale del progresso.
Penso che valga anche per la giustizia, la convivenza e la laicità delle istituzioni, sempre in pericolo di essere reinterpretate a seconda dei contesti socio-poliitici predominanti, insomma, voglio dire che già la laicità non è un dogma di fede ma un modello istituzionale di vita democratica in cui la neutralità dello stato verso le religioni non è un utopia ma una necessittà della giustizia stessa, uguale per tutti, se si vuole garantire a tutti un’ampia partecipazione alla vita civile e politica, amministrativa e culturale, lavorativa e sportiva, ecc…ecc…, anche se non tutti vi sono portati e molti continueranno a delegare a dei rappresentanti politici la garanzia dei propri diritti senza combattere in prima persona, ma eistono anche questi cittadini e sono molti.
Ho usato delle metafore ma credo che mi avete capito.