Religione e superstizione, religiosità e condizione umana

Bruno Gualerzi*

Bruno Gualerzi

Le religioni positive più elaborate, più meditate e approfondite ‘razionalmente’, si sforzano di combattere la superstizione in quanto malintesa interpretazione/esperienza delle stesse. Ma è proprio la ‘positività’, cioè la storicità, la visibilità, di una religione, che reca inevitabilmente con sé la ‘caduta’ superstiziosa. Per cui in realtà se una religione positiva eliminasse davvero ogni comportamento superstizioso tra i suoi adepti, eliminerebbe anche se stessa come religione positiva; questo ‘successo’ coronerebbe la sua estinzione.
Ma cosa si deve intendere, propriamente, per superstizione? In sostanza il superstizioso è colui che crede in un intervento reale, tangibile, verificabile direttamente, in grado di incidere concretamente sulla propria esistenza, della divinità, a cui chiede di non occultarglisi… Ma non è, questo – questo richiamarsi ad una divinità che si manifesta con segni in qualche modo coglibili dall’uomo – il presupposto di ogni religione storica? Per cui con quale coerenza, da un lato si esalta la rivelazione, cioè il manifestarsi del dio nella storia, e dall’altro si condanna chi di questo dio vuol fare un’esperienza reale, vedere le conseguenze del suo operato, della sua volontà, nel presente della propria esistenza: che è esistenza storica in quanto fisica e fisica in quanto storica? E gli si dice in sostanza che il dio deve solo ‘immaginarlo’, che non ha niente a che fare – se non in casi eccezionali (!?) – col mondo, con una umanità intesa come esistenza corporea nel tempo… che la sua vera dimensione è al di fuori dello spazio e del tempo… e che non ‘viverlo’ così sarebbe solo superstizione. Come è possibile legittimare l’esistenza di qualcosa e nello stesso tempo sostenere l’impossibilità di farne l’esperienza senza alimentare quanto meno il sospetto che si tratti solo di un colossale imbroglio, magari alimentato da qualcuno, in buona o mala fede, che sfrutta così l’incongruenza e si propone come in grado di superarla in quanto mediatore-interprete delegato dal dio? Che c’è, ma non si può pretendere di conoscere nei modi usuali della conoscenza umana, ben nota per i suoi limiti (caso solo apparentemente a parte, il dio cristiano, che pure è il tentativo ‘platonizzante’ di superare questa incongruenza con l’ipotizzare il ‘farsi uomo’ del dio stesso… in realtà imbrogliando in questo modo ancor più le carte). E perché, se è un imbroglio, un inganno, non lo si smaschera mai definitivamente… e se non lo è non si riesce a provare definitivamente che non lo è?
Perché, in effetti, poggia tutto su un mistero: il mistero della condizione umana. Perché al fondo di tutto ciò ci sono… sia una condizione umana reale di sospensione tra essere e nulla (essere e ‘nulla d’esperienza’) che può benissimo essere vissuta come sospensione tra cielo e terra, in senso letterale o figurato… sia una altrettanto reale esigenza di conciliare la propria esistenza nel presente dell’essere e nel presente del non essere (cos’altro è il divenire se non un continuo passaggio dall’essere al non essere e viceversa?)… per cui ogni tentativo di uscire da questa condizione è destinato nello stesso tempo ad essere vissuto come esigenza reale e come fallimento. E lo scandalo ‘logico’ della religione… da un lato si presenta come accettabile perché tentativo estremo di evitare il fallimento, che però deve essere corroborato da un ‘successo’, cioè da un ‘miracolo’, da un sovvertimento dell’ordine naturale delle cose (del mondo esteriore e del mondo interiore), cioè da un evento che, in quanto ‘oggettivo’, è sempre ai limiti della superstizione… e dall’altro può essere accettato proprio perché ‘scandalo’, cioè in grado di riflettere in modo pieno, totale, coinvolgente senza fughe intellettualistiche, fatto di carne e sangue, il paradosso, l’assurdo, il mistero della esistenza. Ma in questa seconda possibilità è aperta la strada verso una forma di religiosità, che, nel caso specifico, può diventare un modo a sua volta paradossale, scandaloso, di vivere una religione positiva consistente nel corroderne sempre più la ‘positività’, nel confrontarsi solo con l’assurdo della sua storicità. Gli spiriti più soffertamente religiosi non possono non rendersi conto che tutte le sottigliezze logiche escogitate per una conciliazione tra cielo e terra, tra essere e non essere, tra esigenza e suo appagamento, sono, alla fine, proprio prive di coerenza, e che l’assurdo, solo l’assurdo, è il messaggio vero contenuto in tutte le religioni. Che è l’assurdo, solo l’assurdo, cioè il non accettabile dalla nostra coscienza ma che pure la abita in continuazione, ciò che un autentico spirito religioso non può che trovarsi di fronte e vivere angosciosamente… e che accettare il credo quia absurdum e poi non vivere, anzi, non soffrire, l’assurdo come tale, e, al contrario, sentirsene pacificati, è solo un maldestro tentativo di esorcizzare la condizione umana. Una maldestra razionalizzazione che non può che essere sentita nel profondo come ipocrisia. Se si vuole veramente cacciare la superstizione dalla religione, bisogna ammettere l’inconsistenza storica della religione stessa e riconoscere di doverla ricacciare nel mondo delle esigenze insoddisfatte; accettare e affrontare il problema dell’esigenza insoddisfatta significa considerare la superstizione come la risposta sbagliata a questa esigenza. Alla fine non c’è spazio praticabile per una religione positiva, storica, senza superstizione.
Cosa significa invece vivere questo assurdo proprio passando attraverso l’esperienza della incongruenza delle religioni rivelate? Significa dare credito all’esigenza, considerarla insopprimibile, ma rendersi conto che il passaggio dall’esigenza al suo soddisfacimento oggettivo, storico, ritagliato nel tempo dell’uomo reale e non virtuale, è di fatto soffocare l’esigenza, perderne il vero significato, perdere di vista la reale dimensione della condizione umana. E rendersi conto di questo è approdare alla religiosità. Che è la percezione non rimossa – non occultata a se stessi perché matrice di sofferenza, di paura, di terrore – del mistero, e della nostra esistenza e dell’esistenza del mondo… non tanto, e non solo, cioè, la percezione in termini puramente concettuali (che non esistono se non come fuga, come razionalizzazione, appunto) del mistero, ma vivendolo come orizzonte reale e illusorio nello stesso tempo, che apre e chiude nello stesso tempo ogni possibilità di esperienza di ciò che sta oltre la sua concreta illusorietà. La religiosità non tollera squarci nel mistero pur esigendoli, e si rende conto che questo è l’unico modo di vivere il mistero, il quale, né può lasciare indifferenti (un ‘tranquillo’ agnosticismo), né può essere violato.
E questo senso del mistero, che toglie ogni feticismo al senso del sacro (che si può quindi chiamare il senso del sacro senza, appunto, feticismi) è infine l’unico vero antidoto per ogni integralismo religioso. Il quale integralismo religioso non è altro che il trionfo incontrastato della superstizione, il venire a compimento – travolgendo ogni resistenza condotta infruttuosamente dalle anime autenticamente religiose quando è condotta dal suo interno – della tendenza implicita in ogni religione positiva.
PS: il termine ‘religiosità’ è qui inteso – secondo una convenzione per lo più accettata anche se spesso causa di equivoci – come espressione del possibile (possibile, non necessario) sentimento del mistero che, riflettendo sulla condizione umana, avvolge la cosiddetta realtà. E che può portare sia ad una fuga in avanti (le religioni positive), sia ad una accettazione senza illusioni (senza l’illusione di poterlo svelare) di questo mistero.

* Insegnante di storia e filosofia in pensione e socio UAAR

NB: le opinioni espresse in questa sezione non riflettono necessariamente le posizioni dell’associazione.
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27 commenti

iging

Condivido appieno l’analisi di Gualerzi. Mi è piaciuto molto il suo argomento circa il senso del mistero e dell’assurdo come modo di ricacciare le paure nel nulla. Nella religione cristiana ho osservato due modalità di espressione del mistero: da un lato quella propria della religione cattolica e della chiesa ortodossa con i loro dogmi, dove al credente è proibito fare domande e dall’altro quella protestante luterana, teorizzata a suo tempo dal teologo tedesco Karl Barth, il quale diceva che Dio è il totalmente altro: in altre parole le chiese luterane (bisogna usare il plurale) pur permettendo l’espressione libera del pensiero e senza minacciare scomuniche, ti danno un valium, ovvero ti dicono di non preoccuparti di definire Dio, perché è totalmente altro. Puoi solamente dire ciò che non è (cosiddetta teologia negativa) o puoi dire che è amore (quale?). In effetti si riconferma ancora la religione come palliativo contro la paura di vivere, della nostra fragile condizione umana. Credo che la sfida per noi atei/agnostici pensanti e liberi, sia anche quella di riflettere su come affrontare le paure con saggezza senza tirare in ballo l’escatologia. La CCAR a pensarci bene è come Gheddafi, si basa unicamente sul potere del denaro e sulla forza per stare in piedi, ma col tempo la CCAR sarà solo storia, come lo sono migliaia di religioni che si sono succedute nella ben + lunga storia dell’umanità.

stefano marullo

La teologia negativa (o apofatica) non l’ha inventata la chiesa luterana e semmai Barth ha avuto il merito di rilanciarla nel Novecento. Affonda le sue radici nella tradizione neoplatonica (Plotino in primis) ma è stata elaborata da Dionigi l’Aeropagita e soprattutto da Meister Eckhart e Nicolò Cusano. Troviamo tracce anche in Tommaso d’Aquino. Ma forse quello che più felicemente ne esprime il senso è Agostino d’Ippona quando dice “Si comprehendis non est Deus”; in questa formula è racchiusa tutta la ricchezza della teologia negativa

iging

Dove hai letto che affermo che fu Barth ad inventare la teologia negativa?

stefano marullo

“teorizzata a suo tempo dal teologo tedesco Karl Barth, il quale diceva che Dio è il totalmente altro”

Sì vabbé Iging, non facciamo però siparietti, era un inciso, mi pare si parli di altro…

luca06

Ho sempre inteso la religiosità come ricerca di una risposta alle domande che l’uomo si pone sulla vita/morte. Quando DIO c’è, ossia viene creduto come vivente qui ed ora si diventa credenti. In caso contrario si resta atei. Non vuol dire però che in tale condizione si rinunci ad elaborare ipotesi e congetture…. è solo che essendo prive di riscontri soddisfacenti le si rigetta di volta in volta, fino a quando ci si rende conto dell’inutilità della ricerca e si approda ad uno stadio che direi di ateismo maturo, finalmente liberi.

#Aldo#

Bruno: «in effetti, poggia tutto su un mistero: il mistero della condizione umana».

In effetti, non c’è nessun mistero nella condizione umana. Il “mistero” nasce più che altro dal fatto che molti non vogliono o non possono accettare la crudezza della realtà dei fatti, per cui cercano rifugio e consolazione (senza trovare nè l’uno nè l’altra) nella superstizione. Il fatto che si cerchi di rendere certe superstizioni più dignitose di altre cambiandone il nome in “religione” è solo l’espressione di un atto di forza reso possibile dai numeri e dalla “penetrazione” in un corpo sociale.

giordanobruno

@ Bruno Gualerzi

Nella riflessione filosofica concernente l’essere ed il nulla preferisco non entrare, dal momento che io di mestiere faccio il matematico e non il filososfo, e di certe cose ne capisco ben poco. Tuttavia mi preme ribadire una verità molto semplice ed elementare, che quasi sempre viene ignorata: la religione, indipendenetemente dal livello di concettualizzazione dogmatica cui ha saputo giungere attraverso un’elaborazione teologico-metafisica nel corso dei secoli, ed indipendentemente da tutte le scorie superstiziose che si porta dietro, è sempre espressione di un determinato sistema di potere, prima economico e poi politico. Credi davvero che, in una società senza classi sociali, ci sarebbe posto per individui squallidi come karol-wojtyla-da-krakòw o padre-pio-da-pietrelcina?

@ #Aldo#

Certo ci vuole un bel coraggio, da parte tua, ad intervenire in questo thread. Ti faccio notare, ma dubito fortemente che tu sia in grado di recepire certe sottigliezze, che la formazione politica più rozza e stupida tra quelle che oggi ammorbano il paese dei maccheroni è… come si chiama più? ah, sì, Lega Nord! Capisco che ad un razzista e xenofobo come te il bossi-padre ed il bossi-figlio (meglio conosciuto con il nome di trota) appaiono come vere e proprie divinità incarnate, ma vorrei lo stesso che tu rispondessi ad alcune domandine. Le cerimoniette, variamente folkloristiche, in onore del grande dio celtico Po sono espressione della più alta e matura razionalità politica? E l’alleanza, che i leghisti hanno stretto in questi ultimi anni con i settori più retrivi del cattolicismo, dipende forse dal fatto che, all’improvviso, hanno cominciato a riflettere sul terribile fato che incombe sui poveri mortali, e non hanno voluto o potuto “accettare la crudezza della realtà dei fatti”? Anche se di sicuro non sei in grado di capirlo, te lo scrivo lo stesso: la superstizione politica e la superstizione religiosa non possono mai essere disgiunte, dato che sono solo due epifenomeni diversi del medesimo substrato socio-culturale!

#Aldo#

Giordanobruno, non ti seguo. Probabilmente hai sbagliato persona e mi confondi con qualcun altro. O forse sei talmente sottile che non riesco a comprenderti, non so.

P.S. Tra gli insulti più conformisticamente in voga del momento hai dimenticato di darmi del nazista.

#Aldo#

Tra l’altro, meno di una settimana fa Bruno M.T. mi ha apostrofato con un grazioso «perpetua della chiesa della falcemartello», mentre mpo addietro (troppo perché possa ricordare chi e quando) qualcun altro mi ha identificato come un cattolico sfegatato… insomma, mettetevi d’accordo! A quale modello devo conformarmi?

giordanobruno

@ #Aldo#

Per favore, non glissare le domande che ti ho posto. Questo thread è incentrato sul rapporto tra religiosità e superstizione. Per questo, ti sarei grato se tu esprimessi un tuo giudizio sulla linea politica tenuta finora dalla Lega Nord, la quale si è sempre mostrata in prima linea nell’attaccare l’islam, consentendo un libero sfogo alle pulsioni più xenofobe e razziste degli italiani, ma al tempo stesso non ha esitato a stringere una sorta di “santa alleanza” con gli ambienti più retrivi del cattolicesimo contemporaneo. Personalmente, faccio molta fatica a trovare una differenza sostanziale tra il fondamentalismo arabo e certo integralismo cattolico oggi tanto di moda. Mi piacerebbe conoscere il tuo parere in merito. Tutto qui.

#Aldo#

OK, Giordano, allora la risposta è semplice: la deriva filo-cristiana della Lega è ai miei occhi alla pari con qualsiasi altra deriva filo-cristiana, filo-islamica, filo-buddista, filo-induista, filo-ebraica, filo-animista, filo-mercatista, filo-globalista (già, anche quelle ideologie hanno preso una piega piuttosto simile ad una vera e propria fede religiosa), filo-quel-che-vuoi, ivi compresi i riti pseudo-pagani a base di ampolle e simili. Della Lega mi interessa men che niente, visto che si è dimostrato niente più che l’ennesimo partito capace a sparare grosso in campagna elettorale per poi tradire il proprio elettorato senza alcuna remora.

Ora che ti ho risposto, glisso signorilmente sugli inutili e mal riposti insulti che mi hai rivolto, e fingo di non averli letti. Per il futuro cerca d’essere un po’ più temperante e prima di reagire ad una provocazione aspetta almeno che la provocazione sia stata lanciata!

Batrakos

Secondo me si tratta di due ordini diversi.

Da una parte c’è la curiosità verso il mistero, verso le ‘origini’ del cosmo, esigenza insopprimibile della mente umana che arriva a porsi domande a ritroso fino ad arrivare anche laddove non ha più il supporto dell’esperienza, domande irresolubili proprio perchè manca il dato sensibile.
Tuttavia questa sorta di ‘vizio procedurale’ della mente umana è quello per cui siamo arrivati a forme di conoscenza sempre più precisa, intendo il livello attuale delle scienze, e quello che continuerà a farci cercare, perchè, venisse meno la curiosità strutturale alla nostra mente, verrebbero meno la ricerca ed il perfezionamento.
L’uomo cerca un senso forse anche dove un senso non c’è, ma da questa domanda di senso sono in qualche modo nate: arte, filosofia, scienza moderna, ma anche idea dei diritti e dell’uguaglianza, perchè sempre su domande di senso i diritti si basano, non su domande meramente procedurali e formali.

Dall’altra c’è la paura della morte, dei nostri cari forse più che nostra.
E per rispondere (illusoriamente secondo me) alla paura nascono le religioni, soprattutto quelle soteriologiche come cristianesimo ed islam, per dire le più vicine a noi.

Dunque per me il mistero, che nasce sempre da domande di senso (fossero semplici domande di struttura non avremmo il senso del mistero) non è all’origine della religione, esso è all’origine della conoscenza; all’origine della religione c’è la paura della morte, massima sublimazione dell’istinto di conservazione proprio di tutti gli altri animali.

iging

Ciao Batrakos, da quello che gli antropologi e i neuroscienziati attuali hanno potuto constatare, l’essere umano è “pattern seeker” ovvero cerca di prevedere quello che viene dopo. Gli antropologi dicono infatti che per le comunità umane dell’Africa questo era fondamentale per la loro sopravvivenza. Provate a pensare se un essere umano dovesse fare un ragionamento di lunga durata per stabilire per esempio se un determinato terreno è pericoloso o no. Potrebbe esporsi alle belve e finire male. Meglio invece saltare il ragionamento ed andarsene nell’incertezza. I neuroscienziati hanno anche visto che il cervello umano è tendenzialmente avverso al rischio in modo eccessivo rispetto alle situazioni attuali che sono ben diverse da quelle dell’era primitiva in Africa, che menzionavo poc’anzi.
Quindi l’anelito religioso è stata una risposta sicuramente in linea con il modello “pattern seeker”, se si tiene conto che la scienza propriamente detta ha preso veramente piede in occidente diciamo dal 17º secolo.
C’è poi una parte del nostro cervello che ha inibisce le paure (al contrario dell’amigdala che le inietta): certe volte bisogna credere ed essere temerari per raggiungere qualcosa: pensate ai pionieri o ad imprenditori che fondano una società in un garage spendendo i pochi soldi che hanno. Senza questi atteggiamenti razionalmente spericolati e temerari, nessuno si metterebbe a scoprire o ad inventare magari rischiando la propria vita. Il mistero potrebbe essere quindi una molla necessaria per la nostra sopravvivenza. Non per questo dico che tutto è un mistero alla luce dei fatti, ma certamente abbiamo bisogno di sorprese e di misteri per poter superare noi stessi, almeno così credono alcuni neuroscienziati ( e ne sono convinto pure io).

Batrakos

Ciao Iging, grazie dell’integrazione, molto interessante.
Parlando da profano in materia, anche io ho sempre pensato che sia proprio questa capacità di ‘andare oltre’, nel senso di cercare sempre e senza posa, che ha permesso all’uomo di non estinguersi fino ad ora:un animale scarsissimo -se pensiamo a ratti e formiche- a livello di adattabilità e assai debole come forza ed istinto è sopravvissuto proprio perchè continuamente pronto a riadattare nuovi stimoli e a plasmare l’ambiente.
Da una parte l’uomo stabilisce convenzioni sociali che vorrebbe fossero stabili (e qui entra la religione) dall’altra ha lo ‘spirito del pioniere’ che lo porta ad aprire nuove situazioni e modi f i c are le vecchie.
Non so se dico cose inesatte o superficiali: poco male, personalmente sono qua anche e soprattutto per imparare attraverso il confronto.

Giancarlo Niccolai

Non solo la mente umana. Tutti i sistemi neurali sono squisitamente dei pattern-seeker. A partire dagli strati neurali delle piante carnivore e della mimosa pudica, passando per i gangli degli invertebrati marini primitivi, fino ai sistemi nervosi centrali più semplici e su’ fino all’uomo, tutto quello che si ha una complessificazione del processo di base, ossia, alla retroazione del processo di patter recognition sui pre-esistenti processi di pattern recognition.

La differenza non sta nella qualità, ma nella qualità.

Non sorprende, quindi, che la specialità della mente umana sia unicamente quella di essere molto agile nel cercare i pattern nei propri pattern cercati (e anche qui, siamo solo più bravi di altri, non “differenti”).

Batrakos

Niccolai,
hai fatto bene a specfi fi c are; nemmeno io pensavo che il solo sistema nervoso umano fosse un pattern-seeker.
La diversità, quantitativa come dici bene, è però anche quella che ci permette di discuterne e ragionarci sopra (ovvero il linguaggio concettuale e il cosidetto ‘pensiero del pensiero’, parola apparentemente oscura, la quale però vuole semplicemente dire che l’uomo arriva a ragionare finanche sui modi, le strutture e i significati del suo stesso pensare) e, dal momento che ne discutiamo solo tra uomini, sorge un’inconscia tendenza all’antropomorfismo che va subito corretta come hai fatto tu.
Chissà, probabilmente in futuro evolveranno animali più evoluti di noi che sapranno spingersi più avanti dell’ homo sapiens sapiens a livello di capacità di astrazione ed elaborazione.
Ma noi non ci saremo, come dicevano Guccini e i Nomadi.

bruno gualerzi

Mi riservo di replicare dettagliatamente, in modo ‘cumulativo’, se si aggiungeranno altri commenti agli attuali (per i quali intanto ringrazio), ma una precisazione devo farla subito.
Lo davo un pò per scontato, ma è meglio, appunto, precisare: la mia analisi e ciò che ne ricavo sono l’espressione di un modo personale, anche se ovviamente non unico, di vivere l’ateismo, fermo restando che ne esistono mille altri… e per fortuna, perchè non esiste un ateismo ‘ortodosso’ e uno ‘eretico’ (a parte gli ‘atei-devoti’, i quali non a caso sbavano contro chiunque non la pensa come loro) in quanto – sempre per fortuna – non esistono (non dovrebbero esistere) dogmi.
Lo scopo è stimolare – come già sta avvenendo – un confronto tra di noi. In particolare, come già si prospetta, sulla questione del ‘mistero’.

giordanobruno

@ Bruno Gualerzi

Come ti ho già scritto, io non sono un filosofo, e faccio una certa fatica a seguirti nelle tue argomentazioni, che sono tutt’altro che semplici. Per questo, vorrei impostare il problema ad un livello, per così dire, più terra-terra.

Lasciamo stare l’uomo primitivo, il quale non sapeva dare una spiegazione razionale a fenomeni naturali come il fulmine, e finì con il credere nell’esistenza di terribili divinità “fulminatrici” perennemente corrucciate con l’uomo, la cui ira doveva essere placata con frequenti sacrifici. Ma perché molti uomini di oggi, nonostante l’evoluzione imponente del pensiero scientifico e filosofico in questi ultimi secoli, continuano a dare credito ai vari sistemi religiosi con tutti i loro apparati mitologici e dogmatici? Mi sembra che la risposta sia una sola: la paura della morte. Bene, allora chiediamoci una buona volta: la paura della morte è innata nell’uomo, in ogni uomo, oppure ha una valenza in larga misura culturale, proprio nel senso antropologico di Kultur? Pur non essendo un antropologo, ho l’impressione che, nella domanda disgiuntiva appena posta, sia il secondo elemento ad essere più giusto.

Riflettiamo un momento. Nella civiltà borghese, nella quale tutti siamo nati e cresciuti, assorbendone fino in fondo il sistema di valori e disvalori come se questo fosse il latte materno, viene insegnato in continuazione che la vita è lotta e competizione, che il tempo è sacro perché equivale al denaro, e soprattutto che l’io individuale è tutto e tutto deve essere riferito ad esso. Si dà il caso, però, che la morte si ponga in contraddizione radicale rispetto a questo quadro antropologico borghese: nella vita lottare quanto vuoi, ma alla fine sarà la morte a darti scacco matto; il “tuo” tempo sarà anche sacro come il “tuo” denaro, ma la morte, in ogni caso, ti priverà di entrambi; ed hai voglia ad aggrapparti al tuo io individuale per non precipitare nell’abisso del nulla, un po’ come Odisseo che si aggrappò ad un albero di fico per non essere inghiottito nel gorgo spaventoso di Cariddi, tanto, prima o poi, la morte decreterà la fine irreversibile di questo “tuo” io individuale, che ti è stato insegnato ad idolatrare fin da quando eri nella culla.

La paura della morte non potrà mai essere debellata del tutto: su questo sono d’accordo anch’io. Ma se noi vivessimo in una civiltà diversa da quella borghese attuale, credi davvero che la morte continuerebbe ad icuterci tanto terrore quanto ce ne incute adesso? e, soprattutto, credi che le religioni continuerebbero ad esercitare la loro bieca fascinazione su moltitudini di uomini?

cesares

Penso che la ragione, se la seguiamo onestamente fino in fondo, ci porti a comprendere molto chiaramente che la religione è nella sostanza un’invenzione consolatoria che serve per esorcizzare la paura della morte. Poi viene anche strumentalizzata per creare consenso al potere (instrumentum regni) ma questo è un altro problema.
Resta però il fatto che non sempre siamo in grado di accettare fino in fondo certe prove a cui siamo sottoposti dalla durezza e precarietà della condizione umana. Penso ad esempio alla morte improvvisa di figli, o all’aver subito gravi ingiustizie sapendo che non ci sarà mai riparazione. Di fronte a queste prove la convinzione razionale che con la morte tutto finirà non ci è di molto aiuto. Coerentemente dovremmo suicidarci subito, così abbrevieremmo i tempi della nostra sofferenza. Il problema è che non possiamo seguire la ragione fino in fondo perchè non siamo solo esseri razionali. E che di fronte a certi problemi la ragione ci offre una risposta, ma di fronte ad altri no.

iging

Concordo e aggiungo che storicamente la religione è in auge quando le persone stanno male davvero, come è il caso del medioevo, particolarmente nell’alto medioevo. Per chi ama un po’ la storia dell’arte, ricorderà molti quadri dove si mostra la salvezza dopo la morte. La salvezza è quella ultraterrena, perché in questa vita i più si sentono spacciati. Pensateci bene: in una società alla mercé di signorotti, invasori e pestilenze, senza prospettive di cambiamenti, la salvezza ultraterrena promessa dalla CCAR veniva a fagiolo!

Giorgio77

La maggior parte delle religioni hanno radici nella superstizione, però non direi che questa è sempre figlia di una visione metafisica e spirituale della realtà ma piuttosto di una visione manichea, perchè nella superstizione esiste sempre una sostanza del male, una forza negativa che si contrappone al bene (per cui Dio oltretutto non sarebbe più una realtà infinita), però in una visione non manichea anche se religiosa può essere teorizzato in modo abbastanza convincente e razionale che questo modo di intenedere la realtà è sbagliato e illusorio, che malocchio e forze negative non sono la realtà e non esistono neanche e soprattutto in senso metafisico, che non è più necessario utilizzare insulsi amuleti e rivolgersi al mago per avere il favore di falsi dei che hanno l’umore variabile e la luna storta, e quindi anche se si tratta di religione in qualche modo viene neutralizzato il pericolo della superstizione.

luca06

Non capisco perchè non veniate tutti di là sul forum….. fra poche ore non sarà più possibile replicare un bel nulla…..

bruno gualerzi

Presuntuosamente mi riservavo di offrire un riscontro puntuale ai commenti che riguardavano direttamente o indirettamente la mia ‘opinione’, ma sono tante e tali le questioni sollevate che, appunto, peccherei di presunzione (in realtà non ne sarei capace! (^_^)) prendendole tutte in considerazione. Mi limiterò ad alcune questioni emerse.
Intanto due parole sulla filosofia. E’ vero che, per deformazione professionale, ho usato in più punti una terminologia e modi di argomentare più o meno specifici della tradizione filosofica, ma mi sono sempre sforzato, anche quando istituzionalmente (nella scuola) ero chiamato a ‘insegnare filosofia’ come si insegna matematica, lingue, scienze, ecc., di non considerare la filosofia una materia scolastica. E meno che meno considerare quella del filosofo una professione, un ‘mestiere’. Non perchè ritenga la filosofia un sapere speciale, al di sopra degli altri, ma perchè, al contrario, nel momento in cui ci si pongono le famose (o famigerate) domende esistenziali) inevitabilmente tutti siamo filosofi. Almeno per come vedo io la questione. Un esempio per tutti, collegato ad uno dei commenti. Parlo di ‘essere e nulla’ e giustamente c’è chi ha sentito subito il puzzo della speculazione astratta, fine a se stessa, lontana dai veri problemi posti dalla condizione umana. Concordo senza riserve (ed è a questo proposito che parlavo di deformazione professionale), per cui ‘traduco’ dicendo come li intendo io: riferendomi all’esperienza più ‘oggettiva’ che ci sia, nel senso che è di tutti… ma anche la più ‘soggettiva’ in quanto ognuno poi la vive ‘in proprio’… per ‘essere’ può intendersi la vita, per ‘nulla’, la morte. Che nell’esistenza di ognuno – nella misura in cui ‘sappiamo’ (l’animale uomo – privilegio o condanna che sia – ‘sa’) del ‘destino’ inevitabile di ogni singola esistenza – si rimandano in continuazione.
E riallacciandomi a quanto detto scelgo un punto che, in tutti i commenti, in modo esplicito o implicito, finisce per emergere e che comunque può essere il punto di riferimento per una serie di question poste così come sono qui poste. Parlo del ‘mistero’.
E’ chiaro che il termine (e non è certo il solo) può essere usato in tanti modi… ma qui mi pare di poter dire che ci troviamo tutti d’accordo. In questo senso. Quale che sia il modo di interpretarne la consistenza, il significato, la vera ragione del suo emergere… in sostanza quale che sia il ‘giudizio’ che se ne dà… ci si riferisce ad un tipo di risposta che viene data alle famose (famigerate) domande esisteziali (chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, perchè – domanda biecamente ‘filosofica’ – esiste l’essere e non il nulla… e via ‘masturbandoci’ mentalmente): ci troviamo di fronte ad un mistero! E qui si apre un ventaglio di giudizi su questo ‘mistero’ tra i più articolati e differenziati. Provo a rilevare i più ricorrenti.
a – si tratta di un portato culturale che non dipende tanto dalla condizione umana come tale ma dal significato, dal rilievo, che una determinata struttura sociale (prodotto genericamente culturale) conferisce alla vita e alla morte;
b- si tratta della risposta ad un quesito che – una volta constatata l’impossibilità di qualsiasi risposta, e quindi l’inutilità – serve solo a distogliere l’attenzione dai veri problemi;
c – il ricorso al ‘mistero’ è solo una fuga dall’impegno, dallo sforzo, per conoscere ciò che realisticamente si può conoscere. E qui si rimanda in modo specifico alla scienza;
d – poi c’è chi – pur partendo dal mistero come ‘prima risposta’ ai quesiti esistenziali – ritiene di poter ‘sciogliere’ il mistero puntando sulla risposta religiosa, la risposta che, in vari modi, danno comunque più o meno tutte le religioni.
A questo punto, anche per dare la mia interpretazione del ‘mistero’, sposto il discorso su quanto già anticipato e che ritengo centrale: sul ruolo della scienza.
A mio modo di vedere – senza ovviamente aprire qui un discorso dettagliato sulla scienza – la ricerca scientifica costituisce l’unica strada percorribile per acquisire conoscenze veramente attendibili in quanto verificabili e quindi utilizzabili per affrontare concretamente i problemi connessi alla condizione umana… fermo restando che la scienza (i criteri su cui si basano i suoi presupposti e i suoi procedimenti) non intende come tale dare in alcun modo risposta ai quesiti esistenziali. Al più può fornire – come fa – elementi in grado di mettere sempre meglio a fuoco la natura di tali problemi. E qui almeno due interpretazioni di questo fatto:
a – la scienza non intende dare alcuna risposta ai quesiti esistenziali, i quali pertanto – non essendo sottoponibili all’unica pratica che ci può dare conoscenze certe pur se sempre rivedibili e modificabili – finiscono per rivelarsi quesiti del tutto inutili.
b – l’altra interpretazione consiste nel fatto che, non essendo la scienza in grado di dare queste risposte, si pone la questione su un altro piano e si trova la risposta nella ‘fede’, che è la trave portante di qualsiasi religione, di qualsiasi ideologia vissuta religiosamente.
Personalmente ritengo allora che – proprio per quanto detto – la scienza non può (non vuole, è una cosa che non la riguarda) affrontare alcun mistero… il quale però non per questo svanisce dall’orizzonte della condizione umana… il che però a sua volta non legittima in alcun modo la ‘soluzione’ religiosa, che è solo un modo per esorcizzare – come più o meno ogni ateo ritiene – la paura della morte; o quanto meno per trovare in modo definitivo quel senso dell’esistenza che permette di affrontarne le contraddizioni di fondo e superarle.
Infine, la considerazione già accennata nell’altro intervento. Il mistero riguardante le domade esistenziali, (estensibili ovviamente al ‘mistero’ che circonda tutto ciò che chiamiamo realtà) per dritto o per traverso è nell’esperienza di ognuno: tutto dipende dall’importanza che ognuno poi intende attribuirgli, dal peso che intende debba avere nella propria vita. E qui penso che tutte le scelte siano legittime, purchè portino (parlo ovviamente da ateo) alla scelta ateo-agnostica. Per me ‘vivere’ questo mistero è porre le basi per dare poi un senso alla ‘mia’ esistenza, perfettamente consapevoile che altri identificheranno in altro il senso (o il nessun senso) da dare alla propria esistenza.

PS: solo un accenno, perchè anche questo, in tale contesto, diventa una questione centrale e quindi mertiterebbe ben altro: parlo della superstizione. Qui non mi riferisco tanto alle pratiche considerate propriamente superstiziose, come il ricorso ad amuleti, a maghi e personaggi simili, o a pratiche più o meno irrazionali alle quali comunque si attribuisce un qualche ‘potere’ in grado di risolvere problemi… le quali però sono solo un aspetto, quello per così dire più ‘povero’, della superstizione… che a livello più ‘nobile’ si manifesta nel rimettere alla divinità – trascendente o immanente che sia – la soluzione del problema della ‘salvezza’. Cioè del superamento – quale che ne sia il modo – della morte. Esigendo comunque (e qui propriamente consiste la dimensione superstiziosa propria dell’esperienza religios) di averne qualche segnale concreto. tangibile.

#Aldo#

Bruno, ma cosa c’è di tanto misterioso nella morte? Arriva, interrompe le connessioni neuronali, e si porta via l’individualità acquisita con anni di esperienze, ovvero la coscienza dell’esistere. Fine della partita. Davvero, il tutto è molto prosaico, non ci vedo alcun mistero.

bruno gualerzi

Il mistero di cui parlo (che comunque può essere ‘vissuto’ come tale da alcuni, da altri no) non riguarda soltanto la morte, ma l’esistenza stessa nel momento in cui, come ho provato a illustrare, sorgono le cosiddette domande esistenziali. Che possono sorgere in alcuni e in altri no, ma che sarebbe ‘ideologico’ negarne l’esistenza. Poi si può rispondere a queste domande in tutti i modi che ho cercato di elencare… ma storicamente non si può negare che le religioni si basano su un certo tipo di risposta, su un certo atteggiamento da prendere di fronte al mistero. E credo, appunto, che sia ‘ideologico’ ridurre tutto il fenomeno religioso (sempre riscontrabile in tutte le civiltà di cui si ha notizia) riducendolo alla volontà di alcuni di strumentalizzarlo per sfruttare il prossimo… il che è asolutamente vero, ma cosa strumentarizzerebbero se non ci fosse il predominio di una cultura che mi piace chiamare magico-religiosa? Solo sconfiggendo la quale si toglierebe la possibilità da parte di alcuni di sfruttare gli altrri.
Personalmente sono poi convinto che spesso è proprio il non voler prendere atto di tutto ciò che spinge ad agire ‘religiosamente’ (magari ‘sposando’ in modo totalizzante, ‘religioso’ appunto un’ideologia) senza averne coscienza… il che è sommamente pericoloso. Ma questo è un altro discorso.

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