Sulla coscienza civile degli Italiani

Livio Scorolli*

Livio Scorolli

“Divisi saremmo stati spazzati via dalla storia” ha detto il Presidente Napolitano. Nulla di più vero. Dubito però che l’argomento abbia l’effetto di rinsaldare l’identità nazionale. Altre identità, altre categorie di appartenenza hanno maggiore forza e danno maggiore sicurezza. Per quanti Italiani l’identità cattolica è più rassicurante dell’identità nazionale nell’attuale situazione economica? Un’ineffabile fiducia nella giustizia divina e la fede nella provvidenza consentono di sopportare il discredito delle istituzioni: istituzioni terrene, poco affidabili. E la riflessione può essere estesa ai fedeli di tutte le chiese che mal tollerano lo Stato in cui i loro adepti si organizzano: tutte li vincolano con i loro riti (riti mafiosi, celtici, massonici, ecc.).
Il vero problema è comunque un altro.
Per definire l’identità degli Italiani si è fatto riferimento alla lingua, all’arte, alla cultura e alle gloriose (talvolta ignobili) vicende politiche, ma non alla Chiesa; come se essa fosse stata al di sopra delle parti, quando invece l’identità religiosa ha tenuto insieme gli Italiani, soprattutto in virtù del potere politico che la Chiesa ha avuto nella nostra storia. Il sentimento religioso è sempre prevalso sul senso civico: per troppo tempo gli italiani prima che italiani sono stati cattolici.
Sulla lingua sarebbe il caso di puntualizzare che hanno maggiore rilevanza i concetti e i precetti che essa consente di comunicare. Sull’arte non è forse vero che l’arte “profana” mette a nudo la fragilità umana, mentre l’arte “sacra” esalta le certezze della fede? Sul territorio, poi, si pensi ai toponimi e ai protettori.
E con l’avvento della democrazia gli italiani sono diventati “demo-cristiani”: di fatto “cristiano-democratici” ma suonava male perché il cristianesimo non è il cattolicesimo. Anche ora che la Democrazia Cristiana si è dissolta, ciò che dice o scrive il Papa ha l’eco di verità sovrumane, anche quando sono valori di civiltà e non specificamente religiosi. E i laici? Anche tra i laici vi è chi ha il vezzo di citare il “verbo” di S.S. per rafforzare concetti che dovrebbero essere ormai acquisiti dalla società civile: come dire che lo citano per dare autorevolezza a concetti che altrimenti, per sé stessi, rischierebbero di non averlo, tanto è debole la coscienza civile.
E fin qui nulla di grave. Se non fosse che l’Italia è l’unico Stato al mondo che accoglie e sostiene al suo interno un altro Stato che su temi politici forma l’opinione pubblica e il consenso/dissenso, non raramente in contrasto con i principi della democrazia. È un non senso che non può non riflettersi sulla coscienza civile.
Coscienza civile e coscienza religiosa. Nell’essere umano non esistono due coscienze e fino a qualche decennio fa siamo stati tutti educati al catechismo. La scuola ribadiva ciò che era stato insegnato al catechismo sul peccato e il perdono: materie che interferiscono con la coscienza civile.
Dal punto di vista della giustizia sociale il perdono è un non senso: le leggi vanno rispettate e chi non le rispetta, in base al principio di responsabilità, ne sopporta le conseguenze che non possono essere annullate dal perdono: la società civile fallirebbe. Il perdono religioso, se vanifica il rigore della legge, distrugge la coscienza civile.
Mi dicevano al catechismo che ero perdonato se mi pentivo e m’impegnavo a non farlo più. Io, in buona fede, mi pentivo anche se dubitavo che sarei riuscito a non farlo più: il mio dubbio concerneva me solo, la mia coscienza infantile e nessun altro. Ma per un adulto che svolge attività socio-economiche e i cui comportamenti si collocano in un sistema istituzionale, il discorso è diverso. Ogni volta che chiede il perdono divino dissocia la propria coscienza dai suoi comportamenti disonesti che tranquillamente continuerà a tenere. Che senso ha il pentimento per chi gestisce un’azienda che froda il fisco? Per dire la più veniale delle colpe. Il nostro imprenditore sa e il confessore che lo perdona sa, con assoluta certezza, che continuerà a farlo perché quella confessione non può decretare l’immediata cessazione di un’attività che dà lavoro a due o duemila lavoratori. Solo che dopo la confessione i peccati sono assolti e la coscienza è tranquilla.
Gli insegnamenti della Chiesa s’impongono nella società civile e quindi il principio “libera Chiesa in libero Stato” non funziona dato che il rapporto non è simmetrico. La Chiesa – non il sacerdote che dà sostegno a prostitute, tossicomani e detenuti – trae la sua forza anche da rapporti di potere in cui la coscienza, più che coscienza morale, è consapevolezza del potere di uno Stato con un suo territorio, sue leggi, sue banche. Credo che una Chiesa che rispetti la Stato nazionale dovrebbe appellarsi alle coscienze e dire: “io ti perdono se rimedi al malfatto, altrimenti non sei perdonato”.
Si obietterà che in tutti paesi esiste il malaffare. È vero: anche in altri paesi che però hanno un’altra storia. Si potrebbe ancora eccepire che la religiosità degli Italiani si è molto affievolita: d’accordo, ma i nostri attuali costumi risalgono a tempi lontani.
Vasto è il problema e complesso. Lo sintetizzerei ricorrendo a quel “fattore k” che, con un significato ben diverso, fu elaborato da Alberto Ronchey. Ed è il fattore k a destrutturare la coscienza civile degli Italiani. Se lo Stato va in malora poco importa: lo Stato nazionale ovviamente, non lo Stato Pontificio che è là a garanzia della salvezza eterna. “Libera Chiesa in libero Stato”? No, non funziona.

* Docente di scuola media superiore in pensione. Credente. Credo che ogni essere umano sia responsabile di ciò che pensa: il pensiero è la nostra libertà e la nostra dannazione.

NB: le opinioni espresse in questa sezione non riflettono necessariamente le posizioni dell’associazione.
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47 commenti

bruno gualerzi

“Libera Chiesa in libero Stato”? No, non funziona.”

Assolutamente d’accordo. Ma non funziona non perchè l’italia ha la storia che ha (che se mai è decisiva per altri aspetti): non funziona perchè non può funzionare, in quanto presuppone che la chiesa sia una realtà autonoma, che rispetta lo stato, ma che lo stato a sua volta deve rispettare. Quando si tratta di un’istituzione religiosa, quale che sia, la libertà di cui può, anzi deve, godere è libertà di culto, di associazione ecc., ma non ‘libertà come istituzione”. Due istituzioni, con i rispettivi obblighi e doveri, non possono che entrare in concorrenza, e per ‘concordati’ che siano i rapporti, l’una istituzione cercherà sempre di sovrapporsi all’altra.
O una chiesa diventa ‘chiesa di stato’ (come nei paesi protestanti) e quindi è tenuta come qualsiasi altro oragano dello stato a rispettarne le leggi… oppure si identifica totalmente con lo stato (stato integralista)… oppure se ne pone al di fuori senza alcun rapporto privilegiato.
Il caso dell’Italia è considerato, e si accetta, come anomalo in relazione alla sue ‘radici’ cattoliche: tutto da discutere, e sulla natura di queste radici, e sulla loro storia (le due cose vanno di pari passo), ma, anche se così fosse, niente legittima questa ‘libertà’ della chiesa.
da cui deriva il colossale equivoco di uno stato Vaticano il quale non si sa mai bene che rapporti intrattenga con la massa dei fedeli, e viceversa.

Massimiliano

Ottimo articolo, Livio.
Laddove lo Stato non è riuscito mai ad imporsi ha lasciato un vuoto (soprattutto nell’Italia del Sud), subito colmato dalla Chiesa, con effetti nefasti che si ripercuotono sulla società ancora oggi. Nel 2011.
Coloro i quali vogliono farsi un’idea in merito, consiglio l’ottimo libro di Giordano Bruno Guerri “Gli Italiani sotto la Chiesa”
http://www.uaar.it/ateismo/opere/25.html

Gianluca

Ho letto quel libro, anch’io lo consiglio a tutti. Una delle cose che mi ha colpito di più, arrivando al periodo fascista, è stato constatare come bastano pochi anni di comportamenti imposti per cambiare (e distruggere) quanto di buono si possa essere fatto in secoli di lotte per la conquista di diritti.

Batrakos

Evidentemente (parlo del periodo storico, senza aver letto il libro in questione, ma credo sia argomento generale e interessante) quel buono che era stato fatto o era stato fatto male o non era penetrato per altre ragioni nella mente degli italiani.
Credo che per gran parte (poi dobbiamo mettere più di millecinquecento anni di supremazia culturale, politica e sociale del clero) del problema sia spiegabile con la prima ipotesi: l’ostilità, giustissima, alla politica economica e all’assoggettamento di fatto delle classi popolari nel Sud Italia dei Savoia e dei Governi immediatamente post-unitari (e anche prima) credo che abbia giocato un ruolo fondamentale nel rigetto, anche della laicità, negli strati popolari, in particolare nelle campagne, in cui il peso della tradizione era più forte rispetto all’embrionale e nascente classe operaia.

Batrakos

Concordo con l’articolo e ritengo ottimo l’intervento di Bruno Gualerzi, al quale, per una volta non romperò le scatole come faccio solitamente, poichè stavolta sono d’accordo con lui al primo colpo.
Difficile pensare ad un rapporto di parità (fondante per il concetto di ‘libera chiesa in libero stato’) col Vaticano dentro casa.

Riguardo all’autore dell’articolo: è molto bello che sia un credente a scrivere queste cose, anche se ‘credente’ non specifica in quale religione, o sottogruppo religioso creda (per me, per capirci, un deista filosofico o un panteista non è un ‘credente’, visto che non ha, o non dovrebbe avere, un impianto dogmatico ed escatologico, fondato su una Rivelazione a cui bisogna ‘credere’ visto che essa non è evidente, dentro la sua weltanshauung).
Dico questo perchè per un valdese sarebbe ad esempio normale sostenere quel che qua è stato sostenuto), soprattutto perchè ci mostra come sulla laicità si possa benissimo avere punti comuni, al di là delle filosofie di fondo.
Per un cattolico -e spesso con credente da noi si intende cattolico, visto che si tratta di larga maggioranza, almeno formalmente- è altro discorso, anche se nulla vieta ad un cattolico di essere critico sulla Chiesa ed il suo comportamento storico (altro è il dogma di fede).

Dunque: ma perchè di credenti come il signor Livio, ancor più se fosse cattolico, qua tra i commentatori delle ultimissime non se ne trovano, o si trovano assai di rado?
E che abbiamo, la nuvoletta del razionalista 😉 ?
A naso mi pare che discutere con una persona così possa essere molto più interessante dei flames che avvengono spesso qua.

Godspeed you

“Credente. Crede che ogni essere umano sia responsabile di ciò che pensa: il pensiero è la sua libertà e la sua dannazione.” Penso, anche se non ne ho certezza che non creda in nessuna religione. Ambiguita’ voluta, immagino…

Batrakos

Anche io ho colto questa ambiguità, ma ho pure pensato che anche un credente, ragionando sul libero arbitrio, potrebbe dir lo stesso, magari più uno di area protestante che cattolica.
D’altronde però l’aforisma suona molto da razionalista, quindi, in mancanza di un giudizio certo che ci dica come lui la pensa (cosa che peraltro nemmeno mi preme molto sapere) probabilmente è come dici tu.

Livio Scorolli

In realtà io avevo scritto nella presentazione “credo” e non “crede”. L’ambiguità deriva in parte dall’errore di trascrizione (ora corretto). Perché era anche voluta. La mia voleva essere una sottile provocazione: anche un ateo, agnostico o razionalista “crede” (se ha perso il senso del dubbio le sue saranno “religiose verità”) e quindi è un “credente”

alessandro pendesini

Non dovremmo, prima di perderci in discussioni e polemiche che non possono avere fine, chiederci quali sono le caratteristiche cognitive che emergono della scimmia epifenomenale della specie umana alla quale noi apparteniamo ?
Se accettiamo che le nostre « emozioni » guidano o dirigono il nostro ragionamento in un senso o nell’altro (dagli studi neuroscientifici attuali, questa sembra essere la realtà), allora conoscere meglio i nostri meccanismi cerebrali diventa una necessità ! Molti dei nostri problemi potrebbero essere evitati insegnando nelle scuole -ma non solo-, in modo intelligibile, come funzionia realmente il nostro « elaboratore biologico », e le relative conseguenze.
L’etica non è dedotta dai libri santi -contrariamente a cio’ che credono miliardi di persone-, ma puo’ benissimo essere dedotta dalla conoscenza scientifica (olistica), adattandosi ai progressivi cambiamenti socioculturali.
Il descrivere l’umano com’é realmente, e non come vorremmo ho immaginiamo che sia, sarebbe un buon punto di partenza per il progresso etico-sociale….Un utopia ?
P.S. E assurdo dire che l’uomo nasce « razionale », ma che poi -solo se le circostanze sono (anche se rarmente) favorevoli- entro certi limiti, lo rimane ?

#Aldo#

Proponi una questione di grande spessore. Per questo non avrà alcun seguito concreto.

bruno gualerzi

“Se accettiamo che le nostre « emozioni » guidano o dirigono il nostro ragionamento in un senso o nell’altro (dagli studi neuroscientifici attuali, questa sembra essere la realtà…(…)”

In questo rapporto causa-effetto (emozioni-ragionamento)… a parte altre considerazioni… da cosa sono prodotte le ’emozioni”? E in ogni caso, come definirle e classificarle? Non credi che ci sia tra le une e gli altri una reciprocità (le emozioni condizionano e ragionamenti e i ragionamenti condizionano le emozioni) che ne vanifica ogni rapporto di causalità e quindi che ci si trova davanti ad un circolo vizioso?
Le neuroscienze servono, e come, per conoscere certi meccanismi e chimismi del nostro cervello e di conseguenza avere una importantisima funzione terapeutica… ma questo serve perche emozioni e ragionamenti possano svolgersi nel migliore dei modi possibili, senza ostacoli neuronali, non per stabilire la natura di emozioni e sentimenti, che sono dati culturali.

PS. Non capisco comunque che rapporto c’è con l”opinione’ di Livio Scrolli.

#Aldo#

Secondo me sei fuori strada. Le culture stesse sono espressione delle possibilità (non potenzialità, proprio possibilità) dell’hardware che le ospita. Il nostro cervello, pur con grande variabilità individuale [1], non può uscire dagli schemi che la sua struttura fisica gli impone, non può forzarli più di quanto un’aquila possa volare sul fondo della Fossa delle Marianne. Le culture, su questo concordo, condizionano i nostri atteggiamenti emotivi ma, essendo le culture vincolate alla struttura fisica del cervello, ne deriva che anche le emozioni sono vincolate alla stessa struttura.

[1] Come succede per i tratti somatici (per i quali puoi avere persone altissime e persone bassissime, persone che pesano oltre un quintale e persone che pesano una quarantina di chili pur essendo entrambe in piena forma e così via), l’hardware cerebrale presenta evidenti picchi, ma oltre certi limiti non si può spingere. Proprio come non può esistere un umano che pesi una tonnellata o che misuri sei centimetri di statura.

bruno gualerzi

@ #Aldo#
Per replicare ti rimando – oltre agli altri – al mio commento ad alessandro pendesini delle 19.51

il parroco di Funo

Credo che una Chiesa che rispetti la Stato nazionale dovrebbe appellarsi alle coscienze e dire: “io ti perdono se rimedi al malfatto, altrimenti non sei perdonato”.

a me risulta che la “riparazione”, sia indispensabile per essere perdonati.
così come essere ottimi cittadini è necessario per essere buoni cristiani

Livio Scorolli

Al parroco di Funo rispondo: la sua difesa avrebbe potuto essere più incisiva e non solo doverosa.
Se operatori economici e funzionari della pubblica amministrazione che hanno tenuto comportamenti disonesti e si dicono cattolici, effettivamente si impegnassero a rimediare al male che hanno fatto, l’Italia non sarebbe il paese che è.
Ma non lo vede che i disonesti si sentono “perdonati” dalla Chiesa e continuano ad essere disonesti!
Se la Chiesa si commuove quando il mafioso o il truffatore hanno in mano, in tasca o nella ventiquattrore il Vangelo e non si chiede l’uso che ne fa, umilia le persone oneste.
La Chiesa dice che le porte sono aperte anche e soprattutto per le pecorelle smarrite (infelice espressione, ma qui mi fa gioco): se però si accorge che le pecorelle sono tutt’altro che smarrite ed entrano ed escono dall’ovile ad libitum (escono per delinquere e rientrano per avere protezione) e fa finta di niente allora c’è responsabilità.

Federico Tonizzo

@ Livio Scorolli:
E che dire dello IOR e del suo riciclaggio di denaro sporco di mafiosi e corrotti, oltre al fatto che lo IOR è un “paradiso fiscale”?
E che dire di chi lavora allo IOR e ricicla materialmente il denaro sporco? Cosa dovrebbe fare costui a mo’ di pentimento, espiazione e proposito di non farlo più? Dovrebbe dare le dimissioni e denunciare alla magistratura italiana quello che ha fatto e visto? Ma quando mai…

nightshade90

@parroco
“Credo che una Chiesa che rispetti la Stato nazionale dovrebbe appellarsi alle coscienze e dire: “io ti perdono se rimedi al malfatto, altrimenti non sei perdonato”.

a me risulta che la “riparazione”, sia indispensabile per essere perdonati.
così come essere ottimi cittadini è necessario per essere buoni cristiani”

ora capisci perchè delle scuse fatte da GPII nei confronti di galileo e sulle persecuzioni perpetrate nei confronti di streghe, eretici, infedeli, ecc. non ce ne facciamo assolutamente niente? così come di quelle del papa nei confronti delle vittime dei preti pedofili?

Federico Tonizzo

Concordo perfettamente con nightshade90: dire “scusate” non costa niente, ma rimediare al danno può essere costosissimo o addirittura impossibile.

In particolare, Ratzinger e i vescovi vari potrebbero benissimo ancora denunciare i preti pedofili alla magistratura civile, ma non lo fanno perchè “costerebbe” troppo in termini di calo del già esiguo numero di preti disponibili, e di conseguenza preferiscono attenersi all’omertà prescritta dalle “Crimen sollicitationis” e “De delictis gravioribus” e trasferire i preti pedofili in altre parrocchie, dove però possono reiterare il reato!

alessandro pendesini

@bruno gualerzi scrive:
“le emozioni condizionano e ragionamenti e i ragionamenti condizionano le emozioni”
“PS. Non capisco comunque che rapporto c’è con l’opinione di Livio Scrolli”
al quale rispondo:
-Rispetto la tua opinione ma non posso condividerla poiché a me risulta (da solide basi scientifiche) che sono le emozioni che condizionano ragionamenti e decisioni dell’umano, NON il contrario !(L’incidenza del razionale nelle nostre decisioni è tutt’altro che determinante..)
-Nell’articolo di Livio (che condivido) fa riferimenti a: Coscienza, Giustizia, Tolleranza, Identità etc…
i quali sono indiscutibilmente filtrati (fino prova contraria) dalla struttura che codifica il carattere cerebro-emozionale, largamente dominante, del nostro cervello limbico.
La nostra personalità risulta dall’acquisito (cultura) e dall’innato (determinismo genetico fonte dei nostri istinti e pulsioni, che possono -nei migliori dei casi- essere modulati o relativamente inibiti)
Ma insisto sul fatto che la “razionalità” cerebrale REGNA MA NON GOVERNA …. Con questo voglio dire che se vogliamo sperare di migliorare non è sufficente “volere” ma dobbiamo innanzitutto conoscere le carratteristiche e i limiti cognitivi nel miglior modo scientifico e prammatico possibile !, dopo -ma solo dopo- chiederci: “con questi “trè cervelli, sovente antagonisti” quali risultati auspicabili possiamo realmente sperare dall’uomo ?

bruno gualerzi

“(L’incidenza del razionale nelle nostre decisioni è tutt’altro che determinante..)”

Dipende da cosa si intende per razionalità. Ritengo sia un istinto come gli altri di cui la specie ha dotato l’uomo (che lo si chiami ragione, coscienza, facoltà di parlare e pensare), costitutivo di quell’organismo che è l’uomo, e che quindi, operando, condiziona il resto dell’organismo così come ne viene condizionato. Ed entro i limiti della condizione umana può esercitarsi come consapevolezza e come volontà… altrimenti io e te come potremmo discutere come stiamo discutendo e, nel caso delle neuroscienze, pervenire a quelle conoscenze cui sono pervenute?
Quindi la definizione dell’uomo come ‘animale razionale’… senza naturalmente per questo considerarlo un animale privilegiato rispetto agli altri… a me sembra più che pertinente. Certamente esistono aree del nostro cervello che presiedono all’emozionalità, così come al linguaggio (sinonimo, essendone l’espressione, di pensiero), le determinano sulla base della loro anatomia e fisiologia, e le cui alterazioni (patologiche o meno) incidono direttamente… ma essendo parti di un unico organismo non possono non condizionarsi reciprocamente.
Altrimenti, ripeto, da dove deriverebbe la facoltà di pensare, di ragionare? C’è tutta una tradizione di pensiero che riteneva (e tuttora ritiene) che esista una razionalità in grado di ‘tenere sotto controllo’ le emozioni, gli istinti (per un credente il cosiddetto libero arbitrio)… ma non basta rovesciare il rapporto (gli istinti condizionano la ragione) per uscire da un rapporto causa-effetto altrettanto ingannevole.

#Aldo#

Alcune considerazioni…

1. Un’Italia divisa, molto semplicemente, non sarebbe stata “Italia” ma un certo numero di altri Stati indipendenti con nome e caratteristiche diversi. Dire che la storia avrebbe spazzato via quegli Stati è una frase che mi fa spanciare dalle risate. Che so, avete presente come la storia ha spazzato via la Svizzera, l’Olanda, la Danimarca… o anche i minuscoli Principato di Monaco, Principato d’Andorra… Inoltre, sostenere che la divisione è di per sé peggiorativa, significa affermare che il nostro contributo alla storia della Jugoslavia è stato alquanto negativo, che ha peggiorato la situazione dei locali frantumando la loro identità nazionale.
Non sono persuaso che, se l’Italia fosse rimasta divisa, gli abitanti dei rispettivi territori si sarebbero trovati peggio di come si trovino ora.

2. Una lingua definisce un’identità culturale eccome! Certi concetti possono essere espressi più o meno efficacemente a seconda della lingua che si impiega; alcuni concetti sono esprimibili solo per mezzo di contorte perifrasi in alcune lingue, in modo immediato e diretto in altre, contribuendo così a definire gli orientamenti della popolazione che impiega una particolare lingua.
Vista la sede nella quale sto scrivendo, porto ad esempio il lemma “ateo”: il significato della parola denota una mancanza, una privazione, trasferendo l’idea di minorazione dal termine in sè alla persona alla quale il termine si abbina. Aggirare questo significato implicito richiede stratagemmi che appesantiscono il discorso, rendendolo involuto e assai meno efficace dal punto di vista comunicativo.
Un altro esempio, più generico, può derivare dall’uso dei possessivi nel definire le parentele.
O, ancora, si pensi a come è scontata in termini linguistici la separazione corpo/mente nella nostra cultura, fino a renderla un concetto che per essere contrastato richiede un evidente sforzo (il linguaggio guida la concettualizzazione e, in una certa misura, la plasma).
Aggiungo che una lingua definisce anche un’identità “paesaggistica”, contribuendo a rafforzare la sensazione di trovarsi davvero a casa propria, di essere in un ambiente familiare e rassicurante (almeno fin dove può essere familiare e rassicurante un ambiente sovraffollato).

3. Sempre in tema di lingua, osservo come Livio ha usato il termine “detenuti” anziché il termine (in massima parte sovrapponibile) “criminali”. Non credo l’abbia fatto intenzionalmente, per fuorviare il lettore, ma provate a sostituirlo nella frase e valutate l’effetto. Il linguaggio è importantissimo, e tutto ciò che lo snatura, lo manipola, lo impoverisce, lo diluisce, lo imbastardisce costituisce un danno enorme per la società che lo condivide. Esistono espressioni locali quasi perdute (la loro scomparsa è questione di pochissimi decenni) che contribuiscono a definire in modo assai rilevante l’identità dei popoli italiani. Ad uccidere quelle identità sono tutti quei processi di unificazione ottenuti con i metodi coercitivamente invasivi che, con forme diverse dovute al cambiamento dei contesti, abbiamo sotto gli occhi da oltre un secolo.
Miscelare popolazioni che impiegano lingue diverse (o varianti significativamente diverse della stessa lingua) significa costringere l’intera comunità a impiegare un linguaggio generico e semplificato per garantire un minimo di comunicazione. Le sfumature si perdono, la ricchezza scompare…

Se tutto questo vi sembra irragionevole, be’, pazienza — per parafrasare le parole di Giorgio Napolitano, possiamo dire che la storia spazza via le cose da tempo immemore (a breve spazzerà via anche lui, fisicamente, e mi chiedo in che misura sia un male o un bene). Non mi stupisco che spazzi via, col vostro eventuale contributo, anche le idee che ho espresso o cercato di esprimere. Parliamo la stessa lingua?

Livio Scorolli

Fortunatamente parliamo la stessa lingua e possiamo comunicare. Pensi se avessimo parlato solo i nostri dialetti! Poi nei nostri dialetti esprimiamo “spontaneamente” le nostre emozioni. Ma se abbiamo bisogno di un’informazione, ad esempio di carattere scientifico, ci rinunciamo forse finché non viene resa disponibile nella nostra lingua o nel nostro dialetto?
Il mio riferimento alla frase di Napolitano era un pretesto proprio per dire che altre identità assumono più importanza dell’identità nazionale e mi preoccupano quelle identità che vogliono costruire delle chiese (che possono essere anche partiti politici).
Sulle perplessità per le identità regionali una riflessione. L’adolescente oggi viaggia e comunica senza confini e deve confrontarsi con lingue valori conoscenze che non hanno riferimenti sul territorio. Possiamo sempre educarlo alla lingua e ai costumi regionali; se poi vuole comunicare con il mondo apprenda le altre lingue e gli altri costumi. E così gli adolescenti e i giovani di Berlino, di Lione, di Pechino, di Barcellona, di Tokio, di Boston. Se la comunicazione tra loro sarà autentica e feconda matureranno nuove idee e nuove conoscenze e saranno quelle idee, non le nostre supponenti opinioni, a far girare la “macina” della storia. Non sarà certo la cultura regionale a fermare la storia. C’è invece da chiedersi: si evolverà o finirà in modo tragico creando disagi di adattamento e sofferenze?
Una noticina sui “detenuti” e sui “criminali”. Ho usato intenzionalmente il termine “detenuti”. Parlando del sacerdote che crede nella sua missione ho reputato giusto usare il termine che lui userebbe e quel sacerdote a cui mi riferivo non va a dare sostegno a “criminali” ma a “detenuti”. Se avessi usato il termine “criminali” avrei snaturato la funzione che lui in buona fede svolge e lo avrei offeso. Il rispetto che abbiamo per gli altri si rivela anche nell’uso che facciamo della lingua.
La lingua ci svela.

#Aldo#

Livio: «Fortunatamente parliamo la stessa lingua e possiamo comunicare. Pensi se avessimo parlato solo i nostri dialetti!»

Innanzitutto grazie per aver preso in considerazione il mio commento.

Temo ci sia un almeno parziale fraintendimento e non nutro particolari speranze di poter colmare la lacuna, perché colgo segnali che indicano atteggiamenti di fondo piuttosto diversi e probabilmente inconciliabili, tali da rendere difficile la comunicazione.

Personalmente ritengo la diversità culturale in certa misura un’equivalente della biodiversità, per cui non riesco proprio a considerare positive l’omologazione e l’ibridazione “selvagge” che ci vengono proposte come modello da conseguire. Ovvio che un certo grado di ibridazione fa parte del processo evolutivo, ma solo quando si verifica in misura e con modalità spontanee e “diluite”. Ritengo che stiamo invece vivendo un’epoca in cui più che di evoluzione si può parlare di forme di selezione che per molti versi richiamano quelle praticate nel campo della zootecnia: la mandria viene accuratamente indirizzata a sviluppare il più rapidamente possibile quelle caratteristiche che l’allevatore ritiene appetibili, senza che questi si curi troppo degli effetti che quelle caratteristiche possono avere sul benessere dei singoli capi di bestiame, né del grado di disagio che può provocare negli individui meno adatti, considerati evidentemente dei semplici sottoprodotti. La massificazione dovuta alla spaventosa entità numerica della mandria fa da volano a questo processo, rendendolo quanto di meno umanamente positivo mi riesca di immaginare.

Alla domanda «C’è invece da chiedersi: si evolverà o finirà in modo tragico creando disagi di adattamento e sofferenze?» rispondo «Senza dubbio la seconda ipotesi: ogni cambiamento sottintende un disagio di adattamento e, se estremamente marcato o estremamente rapido, anche vere e proprie sofferenze. Poco umano è colui che infligge sofferenze agli altri senza curarsene, ed è ciò che vedo accadere.» Ho 47 anni, e da almeno una decina non riconosco più il territorio che un tempo era il mio — questa condizione è fonte di sofferenza, e coloro che consapevolmente o inconsapevolmente l’hanno generata hanno nome e cognome. Grazie tante. Davvero non è possibile prendersela un po’ più comoda? Rallentare il cambiamento anziché spingere sull’acceleratore come dei pazzi? La velocità del cambiamento, intersecandosi con il fluire delle vite umane, è un fattore determinante per enfatizzare o mitigare lo sforzo legato all’adattamento.

La lingua ci svela? Certo, quando le parole hanno significati univoci e condivisi che nascono da una cultura comune ed omogenea. Non sono certo che ciò accada tanto spesso, nella marmellata sociale odierna. Forse anche per questo è palpabile un senso di diffusa “isteria” che sicuramente non migliora la qualità della vita.

La settimana scorsa ho visto un cartello sul portone della scuola ove insegno. Era una comunicazione scritta in quattro lingue. C’era più d’un sottinteso, in quel cartello. Era a tutti gli effetti un segnale di rinuncia e di resa. Un altro pezzetto del mio mondo che se ne va.

Temo che la formazione radicata sul territorio e quella fondata sul mondo globalizzato non possano convivere, essendo mutualmente esclusive. Volendo fare un paragone azzardato ed iperbolico, è come pensare di poter essere nel contempo individui monogami e aperti alle esperienze promiscue — o l’uno, o l’altro. Non a caso chi ha un’indole orientata alla monogamia considera il promiscuo come un “deviato”, mentre simmetricamente il promiscuo considera il monogamo come un “bacchettone retrogrado”. Conciliare le due attitudini è un’aspirazione difficilmente realizzabile, una scelta di campo s’impone. Intuisco che le nostre scelte di campo sono antitetiche.

alessandro pendesini

@Bruno Gualzieri
Il tuo ragionamento è del tipo “classico”, si riferisce ad epoche che il “libero arbitrio” era -ed è tuttora da miliardi di persone- considerato il riflesso della realtà a livello umano; solo una minoranza- sostengono il determinismo. Purtroppo il Libero arbitrio, dai risultati neuroscentifici recenti, risulta essere PURA ILLUSIONE !!! (fra l’altro non è la sola…..). Da qualche decennio, grazie alla Tomographie d’emission de positons (TEP), Imagerie de résonance magnetique fonctionnelle (IRMf), Magnéto-encéphalographie (MEG), Electroencéphalogramme amplifié (EEG), e non solo, si arriva alla conclusione che le nostre decisioni avvengono qualche millesimo di secondo PRIMA di averne coscienza ! Inoltre analizzando il cervello con apparecchiature sofisticate, si possono addirittura determinare con una certa precisione, il movimento e il tipo d’emozione che puo’ risentire una persona qualche millisecondo PRIMA di esserne cosciente ! Comunque se ti interessa avere spiegazioni più dettagliate, ti suggerisco de leggere il mio articolo (in francese) “Libre Arbitre” su Wikipedia (discussions)
Per cio’ che riguarda la “razionalità umana” avremo l’occasione di riparlarne ulteriormente.

bruno gualerzi

“C’è tutta una tradizione di pensiero che riteneva (e tuttora ritiene) che esista una razionalità in grado di ‘tenere sotto controllo’ le emozioni, gli istinti (per un credente il cosiddetto libero arbitrio)… ma non basta rovesciare il rapporto (gli istinti condizionano la ragione) per uscire da un rapporto causa-effetto altrettanto ingannevole.”

Scusa se riprendo me stesso, ma per me ‘libero arbitrio’ è quello di cui parlano i credenti e che ritengo sia una delle più clamorose arrampicate sugli specchi che la teologia abbia mai escogitato (non sto a ripetere le ragioni)… se poi per ‘libero arbitrio’ intendi genericamente la facoltà di pensare senza condizionamenti, mi pare di aver sostenuto esattamente il contrario, sia per quel che riguarda il pensiero classico, sia per quel che riguarda il ruolo che si intende dare alle neuroscienze.
La ‘libertà’ di cui parlo io – come ho cercato di argomentare – è semplicemente quella di usare quell’istinto specifico (nel senso di ‘proprio della specie’) che chiamiamo coscienza, ragione, ecc. E’ quella, come dicevo, che permette a noi di discutere e alla ricerca di fare gli esperimenti che fa e giungere alle conoscenze cui giunge.
In quanto al determinismo… anche qui si tratta di intenderci su questa nozione. Se per determinismo si intende la dimensione fisica, quindi quantificabile e misurabile, che caratterizza i nostri comportamenti e pensieri, anch’io mi ritengo determinista… il che però non toglie che esista una facoltà, un istinto, ‘determinato’ come tutti gli altri, che consiste nella facoltà di pensare.
Solo una domanda: da dove ricavi la nozione, o il cocetto, di determinismo che serve per ‘qualificare’ (non quantificare) i risultati degli esperimenti? Bada – sempre a scanso di equivosi – che non sto parlano di una sorta di idee innate di tipo platonico, ma della ‘pratica’ permessa da questo istinto. Oppure, detto in altro modo: cos’è che definisce ’emozione’ un riflesso che chiamiamo tale se non sulla base di definizioni dei nostri comportamenti che non ricaviamo certo dall’esperimento e che invece è pre-definito?

alessandro pendesini

Il mio articolo “Libre Arbitre” che si trova su Wikipedia, è la sintesi di diverse conferenze, rapporti universitari, libri specializzati scritti dai migliori neurologi mondialmente conosciuti. Ritengo che le risposte alle tue domande (sperando che tu conosca il francese) si trovano in questo articolo. Se leggendolo trovi delle imprecisioni o sbagli ti pregherei di avvisarmi. Sono aperto a qualsiasi critica costruttiva.

bruno gualerzi

Conosco abbastanza il francese, ti ringrazio, e leggerò con attenzione.
Ma non posso non ribadire un punto: si può benissimo considerare determinismo e ‘libero arbitrio’ (nel senso di autonomia del pensiero) come due aspetti di una stessa condizione, quella umana, appunto. Non capisco perchè non sia accettabile (se ho inteso bene) un pensiero considerato come ‘il riflesso della realtà a livello umano’: basta considerare questa realtà resa ‘a livello umano’ non da un riscontro ‘oggettivo’ della stessa, ma il prodotto di un’attività cerebrale ‘determinata’ dall’evoluzione. Questa è la vera ‘oggettività’.
Si può benissimo studiare questa attività, identificarne procedimenti ‘determinati’ dall’anatomia e fisiologia del cervello… ma tutto ciò non può non essere sottoposto ad una valutazione, sia per i procedimenti che per i risultati della ricerca, pur sempre ‘determinata’ da questa attività. In questo senso – non spregiativo – mi viene da parlare di ‘circolo vizioso’.
Faccio un esempio preso dal tuo commento: “(…) si arriva alla conclusione che le nostre decisioni avvengono qualche millesimo di secondo PRIMA di averne coscienza”. Francamente in ciò non riesco a vedere altro che la conferma, attraverso un esperimento scientifico che ne evidenzia tutta la complessità, del fatto che la coscienza è determinata da un’attività (qui non c’entra se non metaforicamente la psicanalisi) inconscia. Sì, la decisione è già presa ‘prima’ che si ritenga di averla presa con libero atto di volontà… ma cosa cambia circa il valore, la qualità, della decisione? Quella ‘prodiuce’ il mio cervello, quella utilizzo con un atto che condiziona a sua volta il cervello. Il quale, ecc.
Tutto ciò si può anche esprimere come il riscontro di una dinamicità del cervello che può essere descrtta scientificamente solo ‘arrestandola’.
(Temo che, pur avendo preso spunto dall’opinione’ di Scorolli, si sia andati un pò troppo oltre… e per questo chiedo scusa all’opinionista’ e agli altri freuentatori del blog)

Batrakos

Alessandro Pendesini.

Potremmo dire, se ho capito quanto dici, che la ragione ha un valore esclusivamente retroattivo (cioè capace di giudicare solo a posteriori se le scelte sono state giuste e avventate) poichè ormai non più correlata all’emozione, mentre nel momento deliberativo (cioè della scelta) siamo determinati dall’emozione?

Esistono peraltro persone emotivamente molto fredde: non potremmo pensare a questo punto che in queste persone, in virtù della poca incidenza emotiva, vi potrebbe essere una maggiore possibilità di compiere scelte almeno un po’ più razionali, dunque libere, rispetto a quelle maggiormente emotive?

Purtroppo conosco l’inglese ma non il francese, e ti faccio questa domanda per pura curiosità di vedere se ho capito, senza poi voler aprire assolutamente un off topic sull’off topic. Grazie!

Federico Tonizzo

“per troppo tempo gli italiani prima che italiani sono stati cattolici.”, dice Livio Scorolli.

Ma ci rendiamo conto di quale “cattolicesimo” d’Egitto (come se nella storia fosse sempre stato quello di adesso) si sta parlando???

Da http://it.wikipedia.org/wiki/Indice_dei_libri_proibiti :
“Il concilio di Tolosa del 1229 giunse a proibire ai laici il possesso di copie della Bibbia e nel 1234 quello di Tarragona ordinò il rogo delle traduzioni della Bibbia in volgare. (…)
Nell’Indice dei libri proibiti del 1558 (…)”Vi erano inoltre elencate 45 edizioni proibite della Bibbia e veniva condannata l’intera produzione di 61 tipografi (prevalentemente svizzeri e tedeschi). Infine si proibivano intere categorie di libri, come quelli di astrologia o di magia, mentre le traduzioni della Bibbia in volgare potevano essere lette solo su specifica licenza, concessa solo a chi conoscesse il latino e non alle donne.”
Successivamente al concilio di Trento “L’elenco fu meno restrittivo del precedente: vi erano inseriti solo i libri eretici ed era prevista la possibilità di “espurgare” i libri che comprendessero solo brevi passaggi proibiti. Restava valida la necessità di una licenza per la lettura della Bibbia in volgare, ma questa venne concessa senza le precedenti restrizioni.”
(…) “Il concilio di Tolosa del 1229 giunse a proibire ai laici il possesso di copie della Bibbia e nel 1234 quello di Tarragona ordinò il rogo delle traduzioni della Bibbia in volgare.” (…)
“La diffusione di idee contrarie ai dogmi della Chiesa cattolica, e in particolare della Riforma protestante, fu grandemente favorita dall’invenzione della stampa a caratteri mobili (1455): la Chiesa prese dunque provvedimenti nel tentativo di controllare quanto veniva stampato.”Nel 1758, sotto papa Benedetto XIV, le norme furono riviste e l’indice venne corretto e reso più comodo. Fu inoltre eliminato il divieto di lettura della Bibbia tradotta dal latino. Le competenze per la compilazione e l’aggiornamento dell’indice passarono a partire dal 1917 al Sant’Uffizio.” (…) “L’indice nei suoi quattro secoli di vita venne aggiornato almeno venti volte (l’ultima nel 1948) e fu definitivamente abolito solo dopo il Concilio Vaticano II nel 1966, sotto papa Paolo VI. L’indice dei libri proibiti è stato mantenuto in vigore ed aggiornato al 2003, sotto forma di guida bibliografica, da parte dell’Opus Dei, prelatura personale della Chiesa Cattolica.”

Al posto della Bibbia i “cattolici” ebbero i vari “Padri della Chiesa”, ebbero una moltitudine di esegeti delle “Scritture” (o meglio: del loro proprio pensiero!), ebbero i tentativi di esegesi non ufficiale (chiamati “eresie”) soffocati nel sangue, ebbero la persecuzione di tante povere donne considerate “streghe”, ebbero mitomani quali Francesco d’Assisi con problemi psichici riguardanti la sua relazione col padre, personaggi assolutamente folli quali “santa” Maria Margherita Alacoque (v. in: http://100cosecosi.blogspot.com/2010/10/le-vite-dei-santi-del-dolorismo.html ), ebbero il clero che ingrassava alle spalle di poverissimi contadini alla fame e tenuti nella più assoluta ignoranza non solo riguardo all’alfabeto ma anche alla Bibbia, ebbero un’Inquisizione che estorceva confessioni con le torture, ebbero un “san Gennaro” che fu recentemente abolito dalla Chiesa perchè non c’erano prove certe della sua esistenza ma poi la Chiesa ci ripensò per non avere una sollevazione popolare, un “san Pio” che fu dapprima diffidato e riconosciuto dal papa come ciarlatano per le sue autoprocurate stimmate ma poi fatto santo perchè portava un sacco di soldi alla Chiesa, un Woytjla di cui qui nel sito UAAR sono stati elencati tutti i pessimi altarini (il famigerato Marcinkus per fare solo un nome) e altrettanto dicasi di Ratzinger…

QUESTO è il “cattolicesimo” che ebbero, e in parte ancora hanno, i “cattolici” italiani (o meglio: i “cattolici” che hanno abitato e abitano nella penisola italiana).

Per ulteriori approfondimenti sul fatto che il “cattolicesimo” attuale è frutto di una miriade di eventi storici che avrebbero potuto andare anche in direzioni molto diverse, portando a “cattolicesimi” di vari e insospettati generi e gusti, consiglio “Storia del Cristianesimo – come si costruisce una religione” di Corrado Augias e Remo Cacitti.

Federico Tonizzo

Aggiungo il suggerimento di leggere “I papi e il sesso” di Eric Frattini, per una panoramica completa dei sollazzi sessuali (di molto varia natura) di quasi tutti i papi esistiti.

bruno gualerzi

“Coscienza civile e coscienza religiosa. Nell’essere umano non esistono due coscienze (…)”

Anche oer farmi perdonare dall’eccesso di OT disseminati nel post, riprendo questo passaggio del bell’articolo di Scorolli per ribadire – oltre a quanto scritto all’inizio – una considerazione più volte espressa.
Sì, nell’essere umano non esistono due coscienza, una civile e una religiosa… tranne che per i cattolici italiani. O meglio i cattolici italiani che non lo sono solo per convenienza o per tradizione (forse la maggior parte, però abituati ad andare al traino… soprattutto di questi tempi… degli altri, di quelli dichiarati, su certe questioni chiave, tipo aborto, eutanasia, testamento biologico ecc.) sono ‘costretti’ ad avere ‘due coscienze’: devono seguire integralmente gli inegnamenti della chiesa, quanto meno per le questioni cosiddette di principio, oppure deve prevalere, qualora ci sia contrasto, la fedeltà alle leggi dello stato, o comunque condividerne lo spirito? E, di conseguenza, cosa significa veramente essere ‘cattolici laici’? Per dei cattolici convinti e onesti (per gli altri il problema non esiste: seguono solo o la convenienza o un istinto ancestrale che non si curano di mettere in discussione) non può esserci che una prospettiva: dover fare i conti con lo spettro della schizofrenia. Il ‘date a Cesare quel che è di Cesare e a dio quel che è di Dio” serve ben poco quando si tratta poi di stabilire concretamente ‘quel che è ‘di Cesare’ e quel che è ‘di Dio’.
Conseguenza di tutto ciò? Visto che la schizofrenia non definisce propriamente una status ideale, si ritiene di vincerla valutando caso per caso… ma in realtà così la si rimuove solamente, con tutte le conseguenze che la rimozione comporta.
Quindi, per tornare all’articolo di Scorolli, esiste sì un’identità nazionale resa possibile soprattutto da una storia ‘cattolica’ comune in realtà politiche come tali separate l’una dall’altra… ma al prezzo di una contraddizione mai risolta che rende sempre questa identità molto aleatoria di fronte a certe scadenze.
Questo al di là (o al di qua) del problema di fondo posto dalla militanza e dalla pratica religiosa che non vale solo per gli italiani.
Comunque credo sia identificabile il momento in cui la chiesa romana ha impresso il suo marchio indelebile sul popolo italiano e proprio costringendolo a vivere una contraddizione insanabile, nel periodo della controriforma.

Livio Scorolli

@gualerzi
Uso la (at) per indicare il destinatario del messaggio: lo vedo fare da altri e presumo sia corretto. Per me è una “novità”, non tanto la (at) quanto l’uso di internet in una modalità comunicativa che prospetta un discorso senza fine. È capitato, senza prevederlo (non sto a dire il come e il perché), che ci sono finito dentro anch’io. Come dire: al logos non si sfugge, anche nelle sue forme più perverse.
Vengo al punto: la schizofrenia. Anch’io credo che si tratti di schizofrenia. Non quella diagnosticata da psichiatri e che porta con se dolore. È una schizofrenia del pensiero logico. Non porta dolore, tutt’al più delle incoerenze. Ma chi ci fa caso? Anzi, gli scienziati ci rassicurano descrivendo le diverse funzioni dei nostri “due cervelli”. E poi Flaiano ha detto “La coerenza è la virtù degli imbecilli”. E sinceramente il motto ha un suo fascino: ci alleggerisce dal rigore della logica. Ma un conto è alleggerire il rigore della logica trasgredendo le sue regole e un conto è ignorarle completamente.
Forse più che schizofrenia è “ignoranza” e la scuola ha non poche responsabilità. A scuola si fa teoria, una teoria che a poco serve nella vita, anche se contribuisce a far crescere l’allievo nutrendo lobo destro e lobo sinistro. Ne avrei di cose da dire sulla realtà della scuola: mi limito ad una di cui molti sanno. È scomparsa la inutile (non solo perché realmente non si insegnava) “educazione civica” e si fa invece “diritto”, cioè il diritto dei nostri Ghedini e Alfano. È chiaro il passaggio? Senza farla lunga: i precetti del vivere civile saranno ancora quelli religiosi: al potere bastano. La religione avrà la funzione di colmare i voti e ricucire le smagliature tra un pensiero e l’altro.
Ed ecco il paradosso: la religione non fa impazzire nel senso che limita i danni delle fratture nel pensiero logico. Quindi il rischio di schizofrenia psichiatrica è ridotto al minimo.

alessandro pendesini

@Batrackos:
Dai risultati attuali dell’Istituto Max Planck a Francoforte -e non solo- possiamo dimostrare che non esiste un centro anatomico dove l’Io abbia una completa percezione della sua esistenza. Il nostro cervello è un sistema decentralizzato nel quale le senzazioni e gli stati mentali si formano dopo una specie di concorrenza tra le varie interpretazioni dei diversi segnali ricevuti. Quindi ci illudiamo di decidere, in realtà le decisioni vengono già stabilite dal cervello !
Aggiungo che certi individui manifestano un talento eccezionale in un contesto patologico….
La vita è fatta di un’esauribile profusione di malintesi con se stesso, e non solamente con gli altri ! Se accettiamo questa caratteristica, possiamo concludere che l’uomo non puo’ essere che psicologicamente incoerente ? Seneca diceva « la ragione vuol decidere di cio’ che ritiene giusto ; la collera vuole che si trovi giusto cio’ che ha deciso »…
Per concludere : l’uomo è il solo animale dotato di una coscienza complessa e di una ragione evoluta ; ma è anche il solo dotato di comportamenti (a diversi livelli) completamente irrazionali !

Batrakos

Ciao Alessandro.

Temo, ringraziandoti della risposta, di non aver formulato bene la mia domanda e forse, partendo da questo tuo intervento, ci riuscirò meglio.

Tu concludi la prima parte dell’intervento così:
–Quindi ci illudiamo di decidere, in realtà le decisioni vengono già stabilite dal cervello !–

Sì, di questo mi ero reso conto già dal tuo precedente intervento e ti ringrazio tanto della spiegazione più dettagliata, che ovviamente non può che giungere alle conclusioni che riporti sull’incoerenza psicologica.
Ma, appunto, alla fine mi parli dell’uomo che sviluppa una ‘ragione evoluta’ a fronte di comportamenti irrazionali, e forse non avevo formulato bene la mia domanda, che pare ritornare.
Ovvero, proprio perchè abbiamo una ragione voluta, non potremmo dire che, stante la sua inutilità nel prendere le decisioni, ha una validità retroattiva, ovvero di riesaminare e rielaborare le decisioni prese (o meglio quelle che allora ci sembravano decisioni libere e razionali non essendolo) e le cose fatte, e, rielaborando, saper operarenessi e valutazioni?
In fin dei conti mi pare che scienza, filosofia e storia ragionino, ognuna a modo suo, a posteriori, cioè su eventi già avvenuti.

Se sono stato di nuovo troppo fumoso e poco chiaro, nessun problema e la finiamo qua. Ti ringrazio ancora per i contributi.

Batrakos

Scusa:
Nona riga partendo dalla fine è ‘ragione evoluta’ al posto del mio errato ‘ragione voluta’.
Correggo il refuso sennò sembrava che avessi capito l’opposto esatto 🙂

bruno gualerzi

“Quindi ci illudiamo di decidere, in realtà le decisioni vengono già stabilite dal cervello !”

Mi ero riproposto di non più intervenire nel merito… ma questa affermazione è per me troppo ‘provocatoria’ per non lasciarmi ‘provocare’ (^_^)
Scusa pendesini, ma cosa significa che non siamo noi a decidere ma il nostro cervello? Ma di chi è il cervello se non nostro, costitutivo di quell’apparato biologico che è ciascuno di noi?
Forse che quanto viene ‘già stabilito’ dal cervello viene da Marte… o per volontà divina? Come già dicevo nell’intervento precedente, che giunga a coscienza un decisione stabilita ‘prima’ è comunque con questa che ci esprimiamo. Ed è sulla base di questa che ci comportiamo, che si manifesta una volontà comunque nostra, che non credo si possa considerare estranea a noi perchè arrivata ‘dopo’ il consapevole atto di volontà. Un organismo è tale, credo, perchè ogni sua componente concorre a renderlo tale… ed è un pensiero basato sulla separazione – per dirla con Cartesio – tra una ‘res cogitans’ e una ‘res extensa’, tra spirito e materia, che distingue analiticamente tra due attività che invece fanno tutt’uno.

Batrakos

Bruno,
a me sembra invece che ci sia una grossa differenza; ovviamente quando lui dice ‘il cervello’ vuol dire che quello che noi crediamo di scegliere consapevolmente avviene in realtà inconsapevolmente e la razionalizzazione della scelta è una costruzione a posteriori.
Così fosse il problema della responsabilità individuale e dell’importanza della battaglia culturale diventa complicatissimo.
Io me lo risolvo dicendo che, comunque sia, noi viviamo le scelte come ponderate, più o meno a seconda dell’indole e delle situazione, ma comunque ponderate (o ponderabili) e che, essendo fatti così strutturalmente, dobbiamo ragionarci il più possibile, perchè fosse anche tutta una semplice ‘rappresentazione’, fuori di essa non si esce.
Sulla battaglia culturale, dunque lo studio di scienze, filosofia e storia (che ragionano a posteriori) penso possa su lunghi tempi essere utile, perchè penso che l’acquisizione di sapere e cultura sia influente anche sullo strato emotivo, che, stando ad Alessandro, a sua volta determinerà le scelte; quindi male non fa di certo.

bruno gualerzi

@ Batrakos
“(…) a me sembra invece che ci sia una grossa differenza; ovviamente quando lui dice ‘il cervello’ vuol dire che quello che noi crediamo di scegliere consapevolmente avviene in realtà inconsapevolmente e la razionalizzazione della scelta è una costruzione a posteriori.”

Scusa se insisto: ma cosa cambia? Come faccio a ritenere causa di irrazionalità ciò che sta alla base delle mie scelte… ma non so cosa sia? Sarebbe irrazionale solo perchè non conosco la vera origine delle mie decisioni? Qualora le conoscessi, qualora la neuroscienza mi facesse conoscere il ‘contenuto’, determinato da particolari attività del mio cervello, di queste decisioni pre-coscienti… quelle diventerebbero la ‘mia’ volontà. Fino ad allora non posso considerare irrazionale un atteggiamento solo perchè, pur ritenendola sicuramente esistente, non ne conosco la causa originaria… che comunque è una causa ‘biologica’. Come tutto ciò che riguarda il nostro comportamento.
Il razionale e l’irrazionale – a mio parere – si valutano usando altri criteri di giudizio…

Batrakos

Bruno,

semplicemente a me pare che, stando al determinismo che pone Alessandro, se io, per capirci, devo prendere una decisione e, convinto di valutare razionalmente il da farsi, faccio poi gravi danni, non ho alcuna responsabilità individuale e dunque nessun rimpianto, perchè la mia non è stata di fatto una scelta, dunque non ho sbagliato nulla perchè non avrei potuto scegliere altrimenti che così, poichè in realtà non scelgo ma sono determinato da impulsi ed emozioni su cui la mia ragione non ha potere, poichè razionalizzerebbe a posteriori.
Allo stesso modo, si creerebbe un grosso problema di ordine giuridico, perchè a quel punto la responsabilità civile o penale vien meno, visto che tutto l’impianto giuridico si basa su una (relativa e limitata, ma pur sempre considerata esistente) autonomia della ragione nella scelta, e il concetto di essere in grado di intendere e volere, o meno, è proprio lì che trae la sua ragion d’essere.

Peraltro, sul discorso della ‘rappresentazione’ e dell’impossibilità ad uscirne, che mi pare derivino dagli stessi problemi che tu stai ponendo, e sull’importanza della ragione ‘a posteriori’ ho detto nei miei commenti sopra ad Alessandro; se ti va di leggerli sono un po’ più su, perchè mi pare che c’entrino abbastanza con questi tuoi ultimo.

bruno gualerzi

@ Batrakos
Evidentemente non avevo letto con la dovuta attenzione quanto avevi postato, condizionato da un ‘attacco’ (inteso come inizio di discorso) che credevo tuo e invece era di #Aldo#, il quale diceva che ‘ero fuori strada’, per cui ho poi letto il resto in questa chiave. Porta pazienza, è la vecchiaia (che serve almeno per scaricare su di lei le stupidaggini che commettiamo (^_^).
In base a questo tuo ultimo intervento, credo di essere d’accordo con te. E’ molto pericoloso giudicare il nostro o l’altrui comportamento sulla base di un impulso incontrollato che ‘giustificherebbe’ qualsiasi scelta. Intendevo proprio invece che questo impulso pre-cosciente non può costituire il metro di giudizio per stabilire la razionalità o l’irrazionalità di un comportamento, i quali presuppongono comunque, come richiami tu, la classica ‘capacità di intendere e di volere’, quale che sia la ragione originaria di questa capacità. E ho cercato anche di darne spiegzione riferendomi ad una condizione umana che presuppone sempre, costituzionalmente perchè necessariamente, questa matrice biologica che comprende anche (è un mio ‘pallino’) l’istinto razionale.

alessandro pendesini

@Batrakos, grazie per le tue precisioni !
aggiungo : quando noi crediamo -o siamo convinti- che gli altri sono liberi di scegliere i loro comportamenti, pensieri, giudizi etc… ; a questo livello di ragionamento mi sembra molto difficile poter essere veramente tolleranti, cioè non risentire sentimenti di rancore e particolarmente de ODIO che si trova sovente (troppo, secondo me) alla base di antagonismi sociali, conflitti e guerre, che potremmo, entro una certa misura, evitare….Questa è la “morale” che dovrebbe giustificare cio’ che ho scritto; a voi comunque di decidere !

Federico Tonizzo

Dice Scorolli:
“Ma per un adulto che svolge attività socio-economiche e i cui comportamenti si collocano in un sistema istituzionale, il discorso è diverso. Ogni volta che chiede il perdono divino dissocia la propria coscienza dai suoi comportamenti disonesti che tranquillamente continuerà a tenere. Che senso ha il pentimento per chi gestisce un’azienda che froda il fisco? Per dire la più veniale delle colpe. Il nostro imprenditore sa e il confessore che lo perdona sa, con assoluta certezza, che continuerà a farlo perché quella confessione non può decretare l’immediata cessazione di un’attività che dà lavoro a due o duemila lavoratori. Solo che dopo la confessione i peccati sono assolti e la coscienza è tranquilla.”
Bah…….
1) “Che senso ha il pentimento per chi gestisce un’azienda che froda il fisco?” Ma evidentemente costui ne’ si pente ne’, tanto meno, lo confessa!
2) “quella confessione non può decretare l’immediata cessazione di un’attività che dà lavoro a due o duemila lavoratori.” E tutti i dentisti che lavorano IN PROPRIO? E tutti i medici che lavorano PRIVATAMENTE? E tutti gli altri professionisiti (dal negoziante all’idraulico al meccanico al… ecc. ecc.) che lavorano DA SOLI e non rilasciano fatture o ricevute fiscali, o le rialsciano per molti meno soldi di quanti hanno intascato? Anche costoro, prima di tutto NON saranno pentiti di aver evaso il fisco, ma sanno benissimo che continueranno a farlo. E, in ogni caso, innumerevoli aziende NON fallirebbero affatto anche se NON frodassero il fisco.
3) Secondo me le persone arricchitesi con anni o decenni di disonestà non possono dirsi “cattolici” se non con una specie di “schizofrenia cosciente” (proprio come coloro che si definiscono “cattolici” ma che non si fanno alcun problema – anzi!!! – a fare sesso al di fuori del matrimonio, anche per tutta la vita).

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