Nuova recensione sul sito: “Vivere senza dio” di Paolo Caruso

Una nuova recensione è stata pubblicata nella Biblioteca del sito UAAR. Il volume analizzato è Vivere senza dio, di Paolo Caruso. Recensione a cura di Stefano Marullo.

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La redazione

13 commenti

Roberto Grendene

Dalla recensione Marullo:
“Viene fuori un inedito manifesto dell’agnosticismo ateo (ateismo pratico naturalmente) che non è affatto, secondo Caruso, ignavia”

già
troppo spesso gli agnostici sono blanditi dalle gerarchie ecclesiastiche e definiti come persone “in ricerca”
l’agnostico che e’ in me semplicemente considera privo di senso arrovellarsi sulla questione dell’esistenza degli dèi e bada molto di più alle pretese di chi dice di crederci

bruno gualerzi

“D’altronde, lo si è ripetuto tante volte, finanche Sartre (molto citato in questo libro assieme a Nietzsche, Loewith, Kant, Kafka, Wittgenstein fino ai più recenti Odifreddi, Dennett, Hawking) constatava COME SAREBBE COMODO PER TUTTI SE DIO ESISTESSE.”

Mi rifaccio ovviamente solo alla recensioe, dove, ad un certo momento trovo la frase sopracitata nella quale ho posto in rilievo il punto che mi interessa.
Naturalmente occorrerebbe conoscere in quale contesto va posta l’affermazione… ma, per quanto mi riguarda (e per quanto può valere), ho sempre trovato INGOMBRANTE quel dio nel quale mi si voleva far credere. E appena ho potuto me ne sono liberato con un grande sospiro di sollievo.

stefano marullo

>Naturalmente occorrerebbe conoscere in quale contesto va posta l’affermazione

Sartre parlava al Club Maintenant. Poi sai, Gualerzi, sai meglio di me che Sartre amava i paradossi (“l’uomo è condannato ad essere libero”, “non possiamo concedere al Nulla la proprietà di nullificarsi”..), e a volte il suo pensiero (gigantesco secondo me) sembra essere in preda ad apparenti contraddizioni (capita anche con Nieztsche no?). Poteva essere anarchico e solidarista, marxista ed antimarxista, filosofo e antifilosofo. Forse “traboccava”.
Ma non credo proprio si prestasse a fare da sponsor a dio, tanté, ma lo leggi nella recensione, che subito dopo aver detto che farebbe comodo a tutti se esistesse, poi dice che il problema non è quello della sua esistenza

Otto Permille

In Cina non esiste un termine per tradurre Dio, per cui non si pongono il problema. Ecco infatti! Ciò che non si riesce a fare capire all’ateo o al credente è che possano esistere persone per le quali di questa questione di Dio/Non-dio importa un fico secco. E’ un sorpruso, una tortura, sottoporre le persone a questo aut-aut tra essere atei o credenti. Si ricade nel gioco stesso del prete il quale ha costretto la gente a ritenere l’interesse religioso come una questione fondamentale, irrinunciabile, universale – come qualcosa che deve impregnare l’uomo nella sua essenza. Non è vero. Se io mi professo “ateo” vuol dire che riconosco implicitamente alla religione una importanza per la mia vita che per me non ha affatto.

Federico Tonizzo

Secondo il traduttore di Google, in cinese “Dio” si scrive 神 …

Florasol

in effetti chiamare chi non riconosce un dio a-teo è come chiamare a-stampellico uno che cammina normalmente senza bisogno di stampelle…

bruno gualerzi

Non ho mai capito questa affermazione che ritorna puntualmente. A-teo vuol dire esattamente senza-dio, senza credere in dio. Forse che questo, sia esistenzialmente che storicamente, rappresenta una contraddizione? E, visto che ne parla il prete, devo far finta che la religione non mi riguarda, che non esiste? E se intendo ostacolare la religione non devo parlare di dio?

Florasol

scusa Bruno, forse mi sono espressa male, intendevo solo dire che quando i credenti dicono ateo sembra che intendano qualcuno che ha l’handicap di una mancanza di qualcosa di necessario, come se la fede fosse la gamba sana senza la quale non si può camminare bene.

Batrakos

Mi sembra che pensare di risolvere il problema del libero arbitrio (ovvero la capacità di discernere tra bene e male) riconducendo tutto a convenzioni sociali sia semplicemente un modo di scavalcare il problema senza esaminarlo puntualmente, visto che le convenzioni sociali di solito si formano da un’idea di ‘bene comune’ (che poi spesso questo sia stato spesso strumentalmente identificato solo nel bene di una parte è altro discorso) presente in quell’epoca storica ed in quella località geografica.
Non credo che esista il libero arbitrio a livello di agire (o perlomeno non in senso assoluto e non in tutti), perchè secondo me (e secondo il nostro compagno di discussioni Pendesini che, con cognizione di causa, è in questo sulle mie stesse posizioni) siamo molto più determinati che liberi nel momento in cui agiamo, ma nel momento in cui riflettiamo retrospettivamente sulle nostre azioni un certo grado di autonomia della ragione mi sembra difficile da negare (come si possa spiegare neurobiologicamente non so dirlo, non essendo un esperto del campo).
Altrimenti non saremmo nemmeno capaci di porci il problema stesso del libero arbitrio.

bruno gualerzi

“(…) siamo molto più determinati che liberi nel momento in cui agiamo, ma nel momento in cui riflettiamo retrospettivamente sulle nostre azioni un certo grado di autonomia della ragione mi sembra difficile da negare (come si possa spiegare neurobiologicamente non so dirlo, non essendo un esperto del campo).”

Perchè, non possiamo riflettere prima di agire? E cosa potrà mai spiegare la neurobiologia, una scienza elaborata liberamente o no?

E la vera considerazione da fare l’hai posta in conclusione:
“Altrimenti non saremmo nemmeno capaci di porci il problema stesso del libero arbitrio.”

Naturalmente della libertà si può poi parlare in mille modi, definirla in mille modi, ma non ho mai capito l’approccio biologico.
Per quanto mi riguarda la libertà ha la sua origine nella ‘ribellione’ ai condizionamenti posti dalla condizione umana ed è ‘gestita’ – bene o male, costruttivamente o distruttivamente – da quell’istinto di cui l’evoluzione ha dotato la specie umana: la ragione.

Batrakos

Certo che teoricamente possiamo farlo, ma quante volte a molti, me compreso, capita di ripetere lo stesso errore e poi, riflettendoci a posteriori (dove appunto reputo che ci sia un maggior e grado di autonomia razionale) ci accorgiamo che tutte le costruzioni mentali che ci siamo fatti per giustificare a noi stessi che la situazione non era proprio la stessa, si rivela un alibi intellettuale, di cui ci accorgiamo dopo?
Non so a te (magari la differenza si accentua nei caratteri più impulsivi), ma a me è capitato spesso, e ci diceva Pendesini che la neurobiologia mostra che le aree del cervello che più si attivano in quei momenti sono quelle istintive e quelle razionali arrivano dopo. (Mi scuso per il linguaggio tecnicamente assai rozzo, ma cerco di rendere il discorso semplice, per quelli come noi che non sono esperti del campo).
E, appunto, riprendendo il discorso sulla (secondo me) maggiore autonomia della ragione in fase valutativa rispetto a quella deliberante, le scienze neurobiologiche riguardano la fase esaminante e non quella deliberante, visto che valutano i comportamenti in fase successiva e non per determinarli nel momento della ‘decisione’.

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