Stefano Marullo
Il prof. Andrés Torres Queiruga, le cui opere teologiche sono finite nel mirino della Commissione per la Dottrina della Fede della Conferenza episcopale spagnola (Queiruga è galiziano), se può consolarsi, è in ottima compagnia, candidato ormai inevitabile ad essere attenzionato dalla più autorevole Congregazione (Vaticana) per la Dottrina della Fede (già Sacra Congregazione, già Sant’Uffizio, già Santa Inquisizione), per la quale il lavoro della prima commissione locale rappresenta un utile dossier.
Capitò anche al teologo brasiliano Leonardo Boff che, subito dopo la pubblicazione del saggio Iglesia: carisma e poder, vide sottoposte le tesi contenute nel suo libro alla Commissione Archidiocesana per la Dottrina della Fede di Rio de Janeiro, che nella persona del professor Urbano Zilles usò toni sferzanti parlando di “metodo di demistificazione del tutto somigliante a Nietzsche, Freud e Marx” (paragoni che farebbero montare la testa a chiunque, sogno di essere insultato in questo modo per quello che scrivo n.d.r.). Non passò molto tempo che Boff fu convocato dal card. Ratzinger a Roma, per essere sentito dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, di cui il futuro Benedetto XVI era prefetto. L’epilogo lo conosciamo.
Come per Boff, chi vuole colpire Queiruga lo fa strumentalmente con l’intento di colpire tutto un indirizzo teologico. E’ avvenuto così anche con la condanna delle opere del gesuita belga Jacques Dupuis, teorico della teologia del pluralismo religioso a cui lo stesso Queiruga per certi versi si richiama, e con Jon Sobrino esponente della teologia della liberazione verso la quale Queiruga non ha mai lesinato le sue simpatie. Nella Nota la Commissione, con istituzionale ipocrisia, tiene a sottolineare come “ha tenuto un dialogo lungo e minuzioso con l’Autore, in seguito al quale ha considerato necessario offrire un chiarimento sul suo pensiero teologico”.
In realtà si è trattato di un unico colloquio, a giochi fatti, in cui Queiruga è stato messo al corrente di quanto già era stato deciso nei suoi confronti. Leonardo Boff, proprio nel libro succitato Chiesa: carisma e potere, illustra molto bene cosa voglia dire essere convocato da una Commissione o Congregazione che tuteli la Dottrina della Fede. Le sue parole sono inequivocabili e tristemente profetiche per il medesimo (per i lettori sarà utile ricordare che Boff scriveva queste cose da religioso credente e cattolico, mica da pericoloso ateo anticlericale):
Il processo viene aperto dando ascolto alle accuse, senza che lo stesso accusato ne sia a conoscenza. In una fase posteriore, quando si sono assunte posizioni all’interno della stessa Congregazione, l’accusato viene informato e sollecitato a rispondere ai vari quesiti in questione. Generalmente si tratta di frasi estrapolate dal contesto loro proprio, mozzate e, non di rado, mal tradotte in latino dall’originale. L’accusato non può accedere agli atti, né alle accuse concrete, né ai vari pareri dei teologi della Sacra Congregazione. Per questo c’è un apposito Relator pro auctore. Ma l’accusato non ne conosce il nome, né può nominarlo lui stesso. Si tratta di un processo dottrinale kafkiano, in cui l’accusatore, il difensore, il legislatore e il giudice sono la Sacra Congregazione e le medesime persone. Non c’è diritto ad un avvocato, nessun possibile ricorso ad altra istanza. Tutto si svolge in un segreto che, per la mancanza di un diritto acquisito, provoca dicerie, dannose alla persona e all’attività dell’accusato. L’unico diritto dell’accusato è quello di rispondere alle sollecitazioni che gli vengono dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede. Egli non può contare su una sua qualunque risposta o domanda, né può essere informato sull’andamento del processo. La lettera incriminatrice già gli arriva, previamente a ogni difesa, con le qualifiche della condanna. Le proposizioni dell’accusato sono theologicae incertae, periculosae, erroneae (corsivo mio, n.d.r.). Alla fine, ancor prima della risposta dell’accusato, già si ha la punizione: egli non può più né scrivere né parlare sui temi in questione. Ciò che gli resta, generalmente, non è altro che firmare la propria condanna.
Interessante notare che queste cose Boff le scriveva in un capitolo che significativamente è intitolato: La questione della violazione dei diritti umani nella Chiesa, tema spesso ripreso anche dal teologo spagnolo Juan José Tamayo, e che tra le note Boff cita un caso divenuto da manuale per “rozzezza e violenza ideologica” (sono sempre parole di Boff), il processo a Ivan Illich:
Così iniziò l’interrogatorio << Io sono Illich – Va bene – Monsignore, come si chiama il signore? – Il suo giudice – Io pensavo di poter sapere il suo nome! – Questo non ha importanza. Il mio nome è Casoria >> Volevano obbligare Illich, sotto giuramento, a tenere il segreto assoluto su tutto quanto sarebbe avvenuto nelle sale della S. Congregazione, cosa che Illich non accettò. L’interrogatorio mescolava bagattelle della vita di un istituto, con domande su cinquanta persone, su problemi di fede, proposizioni teologiche, interpretazioni sovversive (corsivo mio n.d.r.). Tra cui figurava, per esempio, questa: <<E’ vero che il signore vuole che le donne si confessino in confessionali senza grate? >>.
Torniamo però ad Andrés Torres Queiruga, prete oltre che teologo, tra l’altro, una delle firme più prestigiose della rivista Concilium, da sempre su posizioni progressiste e molto critica sul neo-centralismo romano. La Nota della Commissione della conferenza episcopale spagnola segnala almeno “sette errori dottrinali”. La condanna di Queiruga era nell’aria da qualche anno. Il teologo galiziano era nel recente passato incappato in spiacevoli episodi quando gli era stato finanche impedito di parlare in qualche diocesi.
Della sua vasta produzione, in particolare, sono da segnalare due opere che ho trovato suggestive oltreché coraggiose e, per certi versi, dirompenti, entrambi riferibili al discorso sulla trascendenza di Dio e sull’escatologia. Una è (riporto la traduzione in italiano) La resurrezione senza miracolo, nella quale Queiruga, nega la natura storica dell’avvenimento, spogliandolo dai sui crismi soprannaturali e parlando solo di esperienza interiore e psicologica dell’avvenimento medesimo da parte degli Apostoli e di altri testimoni. La narrazione neotestamentaria dell’evento resurrezione secondo Queiruga risente dal contesto entro cui nasce a partire da una mentalità “capace di produrre, leggere ed interpretare questo tipo di narrazioni”. Storica è, secondo Queiruga, non la resurrezione del corpo di Gesù, ma la sua morte e la fede pasquale dei discepoli. Altra opera, meno intrigante dal punto di vista espositivo e forse meno originale da quello dottrinale, è L’Inferno, nella quale Queiruga nega la possibilità di un Inferno immortale, luogo di pena perenne per le anime in eterna dannazione, ritenendola in contrasto con le stesse Scritture e con le riflessioni di alcuni Padri della Chiesa come Gregorio di Nissa o Teodoro di Mopsuestia oppure con Origene (le cui tesi furono in seguito dichiarate eretiche, ma che forse fu intellettualmente il più dotato tra i pensatori cristiani dei primi secoli), i quali hanno parlato della cosiddetta apokatastasis o riconciliazione-restaurazione finale in cui tutte le cose “in cielo e in terra” ritorneranno alla suprema armonia in Cristo (angeli decaduti compresi).
Superfluo aggiungere che la dottrina dell’apokatastasis è stata condannata da più di un concilio, ma che il pensiero teologico non ha cessato di esserne affascinato (solo qualche nome: Karl Barth, Teilhard de Chardin, Von Balthasar, Leonardo Boff e, naturalmente, lo stesso Queiruga). La riflessione di Queiruga al riguardo è, a dir poco, brillante e molto razionale. Il teologo spagnolo riesuma un vecchio adagio scolastico: Nihil volitum, quin praecognitum, che sostanzialmente vuol dire che nessuno può ragionevolmente scegliere di dannarsi perpetuamente senza conoscere le conseguenze della sua scelte. Senza dire, anche qui Queiruga è molto efficace, dell’intima contraddizione di un peccato (sia pur “mortale”) che dispiegandosi sul piano temporale ha conseguenze su una sfera preternaturale (immortale).
La teologia razionalista (lasciatemi passare il termine) di Andrés Torres Queiruga implica un netto rifiuto dell’interventismo divino (il richiamo al dio “tappabuchi” di Dietrich Bonhoeffer è qui inevitabile) perché si possa avere una nozione corretta della creazione e delle leggi della natura (che Dio stesso ha voluto e al quale per primo si conforma; le suggestioni leibniziane anche qui sono molto forti). Anche la cosiddetta preghiera per i defunti è messa seriamente sotto accusa dal teologo galiziano: “l’oggettività delle preghiere e dei riti procede troppe volte come se noi fossimo i buoni, amorevoli e misericordiosi, che stanno cercando di commuovere un dio crudele, giustiziere e terribile”.
Insomma, ce n’è abbastanza perché a breve scoppi un nuovo “caso” Torres Queiruga, (dopo i “casi” Hans Küng, Edward Schillebeeckx, Giulio Girardi, Gustavo Gutiérrez, Leonardo Boff, Tissa Balasuriya e compagnia “eretica” tutti passati sotto le forche caudine dell’ex Sant’Uffizio).
Un ultimo particolare, che la dice lunga sul delirio di onnipotenza del Magistero Ecclesiastico: quello fatto osservare dal teologo José Maria Castillo il quale ha opportunamente osservato che nella Nota della Commissione per la Dottrina della Fede, i censori non siano ricorsi alla Bibbia, ai Padri della Chiesa, ai grandi teologi (Castillo osserva che delle 80 note del documento solo in una si incontra una citazione di Tommaso d’Aquino) ma continuamente citano il Catechismo della Chiesa Cattolica e i documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede. Un segnale inequivocabile, se ce ne fosse bisogno, del solipsismo di cui irrimediabilmente soffre il Magistero Cattolico.
NB: le opinioni espresse in questa sezione non riflettono necessariamente le posizioni dell’associazione.