Le donne sono state protagoniste di prima fila della cosiddetta “primavera araba”. Sono state anche le prima a essere tradite, con il tentativo di inserire una condizione discriminatoria direttamente all’interno della Costituzione tunisina. Da allora sotto i colpi di maglio dei partiti islamisti si è assistito a un continuo regresso, e non solo in Tunisia, ma anche in Egitto e in Libia. Nel frattempo, anche la Turchia è a rischio. E le donne tornano in prima fila: non più contro le dittature, ma contro i regimi confessionali che hanno preso il potere nei loro paesi.
Vi sono diversi modi di protestare, ma accomunati però dalla rivendicazione dei diritti delle donne. Da tempo la regista tunisina Nadia El Fani, apertamente atea, sta sensibilizzando l’opinione pubblica sulla deriva islamista nel suo paese dopo la caduta di Ben Ali e sulla necessità di difendere la laicità come carattere essenziale della democrazia. Lo ha fatto e lo fa suo rischio, ricevendo minacce e subendo l’ostracismo violento dei salafiti contro la proiezione del suo film Laïcité, inch’Allah. Lungometraggio uscito anche in Francia e la cui produzione è stata sostenuta tra gli altri pure dall’Uaar.
Recentemente su Libération è stato pubblicato un appello firmato , sostenuto anche dalla regista tunisina, per chiedere il rilascio di Amina Tyler e delle tre militanti di Femen che successivamente avevano protestato davanti al Palazzo di Giustizia di Tunisi a seno nudo contro l’arresto della ragazza. Ora le donne devono affrontare un processo che si prannuncia lungo e difficile, in cui è assai alto il rischio di condanne “esemplari”: intanto, per far capire come funziona da quelle parti, sono state costrette ad apparire velate in tribunale.
Il neo-femminismo agguerrito delle Femen non piace a tutti. Qualche mese fa, sull’inserto femminile di Repubblica, D, la filosofa Michela Marzano, nel frattempo diventata parlamentare Pd, lo ha criticato perché, a suo dire, utilizza il corpo nudo per far passare un messaggio politico. “Lottare ancora oggi attraverso il corpo non è in fondo ammettere che la donna non abbia altri strumenti per farsi ascoltare?”, si domanda. Secondo lei oggi le femministe devono piuttosto “de-politicizzare il corpo e trasferire la lotta politica sul piano delle idee”, andando oltre la “postura della performance o della provocazione corporale” e puntando a “lavorare sul linguaggio” per trasformare le dinamiche sociali e culturali che giustificano la disuguaglianza e lo sfruttamento delle donne. Ma il problema casomai è che per “lavorare sul linguaggio” occorre agire anche sulle dinamiche politiche e impegnarsi attivamente, anche sporcandosi le mani, specie in contesti dove le donne subiscono l’oppressione in maniera pesante: non c’è dicotomia tra i due approcci.
Un altro stile ancora per contestare l’integralismo islamico è quello della libanese Joumana Haddad, recente autrice del libro Superman è arabo. Su Dio, il matrimonio, il machismo e altre invenzioni disastrose. In cui critica appunto la cultura islamica che mortifica le donne e in cui sbandiera senza problemi il proprio ateismo: il libro contiene addirittura una sorta di invettiva, Perché no, in cui spiega perché non credere. Un libro in cui si parla molto del piacere del sesso e del monoteismo patriarcale che lo reprime promuovendo nel contempo il machismo.
Ebbene, recentemente proprio Joumana Haddad ha sua volta sostenuto su Il Corriere della Sera che difende Amina e le Femen ma, nel contempo, critica la protesta a seno nudo. Le difende con schiettezza perché “ne abbiamo abbastanza di questo mondo di guerre interfemministe”, specie tra il “femminismo coloniale («aiutiamole»)” e il “femminismo orientalista («il burqa è un relativismo culturale da rispettare»)”. E spiega: “una cosa è avere una posizione critica nei confronti di una forma di protesta, un’altra cosa è cancellare l’importanza di una lotta particolare perché non è nostra”. Ritiene la protesta a seno nudo “controproducente” perché “utilizzare la nudità della donna […] per protestare contro l’oppressione della donna, ci fa girare nello stesso circolo vizioso dello sguardo patriarcale, che ci detta come ottenere la sua benedetta attenzione”. Secondo Haddad questo “estremismo provocatorio delle Femen nutre la causa del mostro salafita”. E lo dice una donna che ha fondato la prima rivista dedicata al corpo (e in particolare femminile) del mondo arabo, Jasad, che ha rotto dei tabù e si è attirata le ire degli integralisti.
Il metodo Femen garantisce senza dubbio maggiore visibilità all’estero. Come Greenpeace, le azioni eclatanti, benché possano impensierire qualche benpensante, portano alla luce ovunque l’esistenza di problemi. Non è detto, però, che ciò aiuti a risolvere i problemi in loco. Ogni contesto sociale ha le sue forme di lotte proprie: nel Sessantotto la nudità di Woodstock e di Hair si poteva più facilmente recepire a livello di massa come un messaggio di liberazione sessuale. Le società a maggioranza musulmana sono però tutt’altra cosa. E, in ogni caso, chi si sente provocato dall’intromissione della donna nella cosa pubblica o religiosa si sentirà provocato sia da quella nuda che da quella con il burqa. Haddad ha probabilmente ragione a suggerire forme rivendicative più adeguate. Ma è anche vero che la rete ha permesso la diffusione, soprattutto in ambito giovanile, di atteggiamenti mentali che potrebbero essere molto più avanzati di quelli che le generazioni più anziane suppongono. E questo giocherebbe, in teoria, a favore del metodo Femen anche in ambito islamico. Ma il rischio di un boomerang è sempre dietro l’angolo.
Da laici e razionalisti, e da laiche e razionaliste, non possiamo non fare della pluralità delle opinioni un valore. Non c’è a priori un modo giusto o uno sbagliato per protestare, fino a quando non si fa male ad alcuno deve essere lecito farlo a seno nudo o a seno coperto. Senza essere in alcun modo criminalizzate.
La redazione
Secondo me le forme di protesta vanno adattate nei modi ai luoghi in cui avvengono.
In realtà la nudità è una forma di protesta efficace proprio là dove, tra le altre cose, si attuano forme di limitazione della libertà di espressione, come essere obbligate a portare un velo. In questo concordo con le femen.
Purtroppo a volte mi paiono un po’ isteriche qui in europa: mostrare le tette a Putin, soprattutto se a farlo sono delle modelle ventenni ucraine, ha tutt’altro che effetto di smovere le coscienze.
Con quei personaggi sono più efficaci le parole che la Bindi a Berlusconi a ‘Porta a Porta’ –> http://www.youtube.com/watch?v=lz8Q910TJUk
L’hanno fatto anche con Berlusconi. In pratica gli hanno fatto un favore.
Mentre se invece le mostrano ad un imam/ayatollah/prete è una forma di protesta.
peccato che bindi sia stata così dura con b. e tanto fragile con le sue congeneri alle quali nega matrimonio omosessuae e adozione da singole.
la nudità e la liberazione del corpo in qualsiasi battaglia è la prima arma che si usa. quando in italia ancora non c’era l’aborto io che non avevo e non ho mai avuto bisogno di abortire (ooprio perchè il femminismo mi ha insegnato a conoscere il mio corpo e i suoi meccanismi compresa la contraccezione) andavo per strada gridando come raggungere l’orgasmo e autodenunciandomi per avere abortito. Certamente oggi non lo fareperchè qui in Italia il momento è diversoi, ma sento di aver contribuito con la mia ingenua libertà di allora a cambiare pochissimo certo , la vita di tante donne che avevanomeno di me.
@Tiziana
Ovviamente l’esempio della Bindi era emblematico di come rispondere a un uomo tipo Putin (Berlusconi è un suo amico di merende). La Bindi è e rimane democristiana.
Poi le forme di protesta vanno adattate ai luoighi e momenti storici, come riconosci: la protesta di Amina e altre donne ha senso in Tunisia, in Italia meno.
ma non è la geografia, è solo lo stadio di sviluppo del paese
Non conoscevo Joumana Haddad. Devo dire che sono molto incuriosito dalla sua opera. Mi informerò.
D’accordo su tutto l’articolo, salvo una piccola puntualizzazione quando dice: “E le donne tornano in prima fila: non più contro le dittature, ma contro i regimi confessionali che hanno preso il potere nei loro paesi.” Perché un regime confessionale non è anch’esso una dittatura, anche quando abbia il consenso di maggioranze composte da semianalfabeti manipolati dai capi religiosi? La dittatura delle maggioranze può anzi essere anche peggiore di governi autoritari più o meno illuminati. Del resto anche il nazismo ottenne il potere “democraticamente” e lo stesso stava per fare il FIS in Algeria.
Era Asimov, mi pare, che diceva che certe volte era meglio una dittatura funzionante, ovviamente che non violasse i diritti umani, di una democrazia corrotta e oligarchica, o che permetta agli Hitler di turno di prendere il potere democraticamente.
Non sono completamente d’accordo, ma se si deve scegliere tra un “democratico” regime islamista e una dittatura laica, credo che per uno stato arabo sia meglio il secondo;
Napoleone era un dittatore ma fece crescere lo spirito laico in Europa, per fare un paragone.
Tecnicamente sono due cose leggermente diverse. La dittatura è un regime accentrato su una persona sola. Le ierocrazie portano invece al potere una casta.
Admin, mi sbloccheresti il commento?
Papa (ufficiale): Este donne emancipates, se vede che gle le gusta el cigaro.
Segretario: Sua Santità!!!
Papa (emerito): Che sporcaccionen.
Papa (ufficiale): Sei solo gelosos.
Papa (emerito): Io gelosen de te, ma figuraten.
Papa (ufficiale): Non de me, ma de le donne emancipates.
Papa (emerito): Se t’acchiapen ti faccien rimpiangeren di essere naten!
Papa (ufficiale): Vedemo probace!
Segretario: Ora riattaccano.
Per chi non l’avesse gia letto sui quotidiani :
http://news.you-ng.it/2013/06/05/molestate-le-donne-per-preservare-la-loro-purezza-il-tweet-dello-scrittore-arabo/
Credo che questo esempio di “intellettuale”islamico sintetizzi molto efficacemente la possibilita di un dialogo serio tra occidente e mondo islamico,e questo riguardo a qualunque tema e non certo
solo a quello pur fondamentale dei diritti della donna.
Ne avevo visto una simile la settimana scorsa, in cui un famoso imam saudita diceva di molestare le donne che lavorano.