Nuova recensione sul sito: “Schopenhauer, Thoreau, Stirner” di Onfray

Una nuova recensione è stata pubblicata nella sezione Libri del sito UAAR. Il volume è Schopenhauer, Thoreau, Stirner. Le radicalità esistenziali di Michel Onfray (Fazi editore). Recensione a cura di Stefano Marullo.

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18 commenti

bruno gualerzi

“Davvero viene da dire morta la filosofia: per fortuna, rimangono i filosofi.”

Ma ogni vero filosofo non può che ‘far morire’ la filosofia, nel senso che, pensando in proprio, esercitando il libero pensiero, elabora una visione della realtà che… anche se naturalmente non può non utilizzare pure il pensiero altrui, il già pensato… non può che contrapporvi il proprio di pensieri. Quale che sia.
Quindi ‘rifiuto’ della filosofia se intesa come sapere prefabbricato. Rifiuto della filosofia come professione, da cui il ‘professore’ di filosofia… che è altra cosa dal filosofo.
E a cosa serve la filosofia? A niente se si ritiene di trovarvi qualche formula più o meno magica, o qualche filosofo da far diventare oggetto di culto, in grado di dare una risposta definitiva circa la cosiddetta realtà e in merito ai quesiti esistenziali; a tutto se abitua a ragionare, ad acquisire – ovviamente nei limiti del possibile – una vera autonomia di giudizio. Quella autonomia di giudizio che aiuta ad uscire dal gregge. Quale che sia.
Se la filosofia non è questo allora coglie nel segno il detto popolare che recita: “la filosofia è quella scienza con la quale senza la quale tutto resta tale e quale”

bruno gualerzi

Detto in modo più appropriato: la filosofia – se non è pura acquisizione di nozioni, ma riflessione sui problemi posti dai filosofi (non importa quali, purchè siano quelli che stimolano a riflettere sulle cose importanti) – aiuta ad aprire la mente. A non fossilizzarsi. La filosofia così intesa è l’esatto contrario di ogni fideismo.

faber

Senza inoltrarmi nel campo filosofico che mi è estraneo per interesse e formazione…ma la bistecca non me la dovete toccare! Non sono itticorepellente, anzi apprezzo molto ogni tipo di bestiola marina, ma una fiorentina succulenta o un filetto di manzo argentino stuzzicano ulteriormente il palato, eccome se lo fanno! Dunque, ben venga un sano relativismo palatale, tenendo sempre in mente che in fondo la cultura culinaria è quella più autentica di un popolo. Dimmi cosa mangi, ti dirò chi sei. 😀

Ermete

Amico mio, io invece sono del partito dello spago alla carbonara. Quale opera filosofica può mai essere di così alto valore da poter essere paragonata a questo?

faber

Pur appartenendo alla setta dei bisteccari, il mio spirito ecumenico mi spinge a sentirmi tuo fratello. Per cui ritengo assolutamente in linea con i precetti lombatiani partecipare ai riti “carbonari”.

bruno gualerzi

“Dimmi cosa mangi, ti dirò chi sei”

Lo sapevi che la stessa cosa la sostenne un filosofo? Naturalmente motivandola. O comunque prestandosi a interpretazioni come questa:

“La massima del filosofo Feuerbach, l’uomo è ciò che mangia, intende porre l’accento sull’importanza di considerare che tutto ciò che l’essere umano ingurgita, cibo e liquidi, è di primaria importanza, costituendo il carburante che consente lo sviluppo e la propulsione di quella che è la macchina del corpo non disgiunta, beninteso, da quella che è la mente. Tale massima è ricca di significati. Significa che il cosa si mangia fa l’uomo ricco o povero, forte o debole, intelligente o carenziato, ben nutrito e quindi in salute oppure malnutrito e soggetto a malattie, ecc., ma implica anche che l’uomo è come mangia , da solo, in compagnia, con foga o parsimonia, di fretta o con il gusto della lentezza, nel rispetto o nello spregio dell’ambiente e dei viventi, nella consapevolezza o cecità che ciò che è buono da mangiare non coincide, spesso, con ciò che è buono da vendere, ecc.

Il cosa mangiare dipende dalla densità demografica, dalla disponibilità di cibo, o di certi cibi, dipende anche dalle tradizioni culturali e alimentari, dalla peculiarità e dalla predominanza di certi prodotti relativi ad una determinata area geografica, ma anche dalle strategie di allevatori, politici e compagnie multinazionali che vedono nel cibo un profitto più che un nutrimento; può inoltre dipendere dall’osservanza di precetti religiosi o da particolari tabù, ma è sicuramente relativo anche ad una scelta individuale consapevole che prescinde dall’offerta o dai costumi alimentari dominanti…”

E altro ancora

faber

Si, conoscevo la massima di Feuerbach. In ogni caso è una mia convinzione che realmente la cultura culinaria dica tanto, anzi tantissimo, di un popolo. I motivi penso siano svariati. Innanzitutto la cucina è l’unica tipologia di attività (qualcuno direbbe arte 🙂 ) di cui nessuno può fare a meno. C’è chi studia avidamente la letteratura, chi sviene davanti ad un quadro, chi trascorre ore davanti ad un microscopio, chi si diletta ad osservare e decifrare il comportamento umano, ma tutti, in un modo o nell’altro, ogni giorno (se possono), devono sedersi a tavola. Per cui la cucina popolare, quella accessibile a tutti, è obiettivamente lo strumento culturale più democratico e, di conseguenza, più rappresentativo.
Inoltre sapere cosa mangia un popolo significa sapere come vive. Chi assaggia le seadas non può non pensare al pastore che accompagna il gregge su per i pascoli. Un’insalata di pomodori e cipolle (rigorosamente rosse) con una bella foglia di basilico, non può che riportare alla mente il contadino chinato a zappare sotto il sole di un’estate mediterranea. Il pane injera tipico del corno d’Africa dice tanto sul sentimento comunitario di chi condivide il cibo al centro della tavola. Mentre un cheesburger da fast-food potrebbe essere quasi il ritratto dell’attuale società occidentale. E adesso ho fatto degli esempi venuti rapidamente in mente. Ma ce ne sarebbero a migliaia.
A questo proposito mi torna in mente la mia prof di francese del liceo (persona eccezionale!). In quel periodo (parlo di 8-9 anni fa), si cominciava a parlare di crocifisso si o crocifisso no nelle aule e, inevitabilmente, venne fuori il discorso delle “radici” della nostra cultura. Lei disse una cosa che ancora mi porto dentro: “L’unico simbolo che può rappresentare le radici dei popoli del Mediterraneo è l’ulivo”.

bruno gualerzi

Caro faber, che la cosa ti piaccia o no, il tuo commento è rivelatore di un modo di procedere tipicamente filosofico (almeno per come concepisco io la filosofia), cioè l’identificazione di una chiave di letture con la quale procedere ad una interpretazione, o della realtà nel suo complesso, o di un suo aspetto. Che in questo caso riguarda l’uomo nella sua concretezza storica. Naturalmente opinabile, frutto di una particolare sensibilità, ma una eventuale opinione contraria deve tener conto di quanto ti ha portato a sostenere la tua tesi. E’ così che si nutre e si fortifica la mente.
In ogni caso la tua a me sembra una brillante interpretazione di una affermazione – quella di Feuerbach – che se non interpretata, cioè sviluppata usando una propria chiave di lettura… che può essere anche quella di Feuerbach purchè ‘metabolizzata’… vuol dire tutto e niente.

bruno gualerzi

Aggiungo. Sia chiaro che ci sta benissimo – proprio per quanto sostenuto – parodiare le affermazioni dei filosofi, di quelli ‘ufficiali’, codificati tali dagli storici della filosofia.
Ed espressioni come ‘l’uomo è ciò che mangia’… stimola fortemente l’appetito in questo senso!

Ermete

Faccio presente, per aggiungere qualcosa agli ottimi spunti del professor Gualerzi e del ‘fratello’ Faber (fratello per l’ecumenismo delle buone forchette 😉 ) che tutto quel che Feuerbach dice e che Faber riprende è patrimonio anche accademico della facoltà chiamata storia sociale, dove appunto si studiano le società attraverso le varie forme culturali, di cui quella del cibo (inteso nell’accezione lata in cui lo intendono Gualerzi e Faber) è una delle più importanti, assieme alla sessualità.
Il modo in cui vengono culturalizzate le attività biologiche può dire molto sulle varie società passate e attuali.

Francesco S.

Il cibo oltre che una necessità e uno dei piaceri della vita insieme al sesso che ci mette in contatto e ci ricorda la nostra natura animale.

Per questo mai capirò chi se li nega per motivi religiosi o etici. Pur rispettando tali scelte mai capirò il negare la propria natura animale.

In fin dei conti la vita è unica e se proprio dobbiamo vivere questa avventura almeno godiamocela, senza eccessi ma neppur privazioni.

faber

Aggiungo un’altra cosa: il cibo è, almeno per quanto mi riguarda, una delle esperienze più sinestetiche e, al tempo stesso o forse proprio per questo, evocative. Soprattutto per alcuni piatti, gli odori, i sapori, le immagini, la consistenza sotto i denti e sulla lingua, fanno un tutt’uno con i ricordi, le sensazioni, le emozioni. Ogni volta che mangio la pasta con il sugo con le polpette non posso che pensare alle domeniche a pranzo dalla mia nonna materna, agli odori di quella cucina, alle vibrazioni del pavimento della vecchia casa con le travi in legno, agli animaletti di plastica con cui giocavo a casa sua da bambino sul plaid rosso e nero a quadroni. E come fare a meno di ricordare la mia nonna paterna ogni volta che sento anche solo lontanamente l’odore della salsiccia di fegato e lo “sfregolio” dell’olio in cui friggeva le patate (rigorosamente a spicchi grossi, in modo che rimanessero morbide dentro e mai croccanti! mai sia a bastoncini!)? Non posso separare quei sapori da quelle emozioni, non posso separare certe immagini dal cibo che le accompagna. Il cibo, come il sesso, è parte del nostro patrimonio biologico più antico. Le aree cerebrali che mettono insieme le sensazioni legate al cibo, vengono fuori da centinaia di milioni di anni di evoluzione. Inutile dire che, anche in altri animali, i ricordi più persistenti sono proprio quelli legati al cibo. Nei roditori, per esempio, una singola esposizione ad un cibo associato a sensazione di malessere, genera un’avversione a quel cibo che perdura per tutta la vita dell’animale.

Francesco

Er Profeta: Schopenhauer, Thoreau e Stirner…… braccia rubate all’agricortura.
Cherubino: A Maomè un poco dovresti imparà a contenerte.

Francesco

Cherubino: A Maomè!
Er Profeta: Dimme Cherubì?
Cherubino: Che ne pensi de sto libro?
Er Profeta: Quello en copertina chi fosserebbe?
Cherubino: Schopenhauer.
Er Profeta: E’ paro paro er Dracula der firme de Francis Ford Coppola.
Cherubino: A Maomè, me sa che tu de filosofia non ne capisci na mazza.
Er Profeta: Però sò un grande “cinofilo”
Cherubino: Vedo che a situazione è ancò più grave de quello che pensassi.

bruno gualerzi

Papa (emerito): ha ragione il collega Maometto: quella brutta faccia in copertina è proprio un mostro. Un vero incubo.
Segretario (emerito pure lui?): Santità, ma non è magari perché si tratta di un famoso filosofo dichiaratamente ateo?
Papa (emerito): so bene di chi si tratta! Avevo incaricato il Ravasi di dimostrare che in realtà anche lui era un ‘credente a sua insaputa’, come Spinoza, Nietzsche e altri, ma quell’incompetente… nonostante i suoi tea party in quel cortile per ricevere consigli dagli atei devoti che contano… con Schopenhauer non ce l’ha fatta. E così quel vecchio bisbetico ogni tanto viene a turbarmi il sonno. E pensare che era un tedesco come me…
Segretario (emerito pure lui?): non resta che sperare nel nostro (si fa per dire) Francesco: quello è capace di ammansire anche le bestie più feroci.
Papa (emerito): non dire fesserie! Questo Francesco qui è già molto se riesce ad ammansire lo IOR…

Francesco

Era una risposta per Bruno Guarlezi.
N’attacco de Florenskijte, succede. 😉

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