Cielle e il non profit diversamente profit

“Meno Stato, più società”. Era uno slogan storico di Comunione e liberazione. Ultimamente lo si ascolta molto meno: la pratica dei ciellini, negli ultimi anni, sembra piuttosto essere stata “Dallo Stato alle società”. Le loro, ovviamente: soprattutto in Lombardia, il regno del ciellinismo monopolista realizzato che, secondo i magistrati, era anche il regno di una “diffusa illegalità”. Il capo storico Roberto Formigoni è stato rinviato a giudizio per associazione per delinquere, ma per i leader di Cielle sono solo incidenti di percorso. Tanto che rilanciano: vogliono ancora di più. In nome del principio di sussidiarietà, ovviamente.

Quando il principio di sussidiarietà fece ingresso nella Costituzione, Comunione e liberazione e la Compagnia delle Opere diedero vita a una Fondazione della sussidiarietà. La quale ha ora realizzato, in collaborazione con il Politecnico di Milano, il rapporto Sussidiarietà e… qualità nei servizi sociali, secondo il quale “i costi delle organizzazioni non profit risultano in media inferiori del 23% ai costi unitari delle organizzazioni del settore pubblico, senza che questo significhi una minore attenzione alla qualità”. A studiare il rapporto, si nota però come siano state confrontate solo tredici strutture, sei pubbliche, quattro private e tre non profit. Un “piccolo campione”, è scritto nello stesso studio, nemmeno scelto a caso. Ci si è basato sui dati disponibili, che per due realtà d’altra parte mancavano. L’autore del rapporto non è noto: molto probabilmente è Tommaso Agasisti, che ha all’attivo ricerche simili e che scrive per la Fondazione stessa.

Insomma, uno studio dalle pretese bassissime, scientificamente discutibile. Ma tanto bastava perché il committente Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione e già presidente della CdO, ne strombazzasse i risultati, ovviamente sul sito Il Sussidiario e su Avvenire. E ovviamente senza rendere noto quanto piccolo e discrezionale fosse il campione. Lo studio gli serviva per ribadire ancora una volta la richiesta di meno Stato, ancora più non profit. Perché, scrive, “la sussidiarietà è una necessità imposta dalla crisi e dal bisogno di giustizia sociale”. Domani lo studio sarà presentato in pompa magna al Politecnico presenti Vittadini, Agasisti, don Colmegna, il rettore, un banchiere, politici di Pdl, Ncd e Pd.

Eppure, non è certo tutto oro quello che luccica, nemmeno nel mondo del non profit. Critiche documentate sono state avanzate negli ultimi anni sia all’estero (L’industria della solidarietà di Linda Polman), sia in Italia (L’industria della carità di Valentina Furlanetto). Il 14 marzo, su Repubblica, l’economista Tito Boeri ha osato accennare al fatto che il mercato del lavoro, nel terzo settore, “è troppe volte sinonimo di precariato, con persone che operano nell’associazionismo e nelle cooperative prive di qualsiasi assicurazione sociale, al di sotto di standard minimi”. Tanto è bastato perché il portavoce nazionale del Forum del Terzo Settore Pietro Barbieri protestasse piccato: per il “riferimento poco gradevole” e la “valutazione superficiale”.

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Controreplica di Boeri: “credo che il terzo settore non possa permettersi di lasciare senza tutele i propri lavoratori. […] Fin dal 1997 il terzo settore contava il 60% di lavoratori atipici senza prendere in considerazione i finti lavoratori autonomi. Fra questi ultimi la figura dei “soci lavoratori” delle cooperative sociali, dipendenti di fatto, che assumono su di sé anche i rischi d’impresa. Oggi più del 50% dei lavoratori delle cooperative sociali sono soci lavoratori”. Dati inconfutabili. E confermati da quanto appena accaduto alla Croce Rossa: la trasformazione giuridica ha comportato la fine dell’applicazione dei contratti di “ente pubblico non economico”. Risultato: stipendi giù del 30%. Paradossalmente Vittadini potrebbe avere anche ragione: il terzo settore potrebbe realmente avere costi minori, semplicemente perché il costo del lavoro è minore e assai meno tutelato. Ma sarebbe questa la ragion d’essere del non profit?

Se lo è chiesto anche Giovanni Moro, figlio dello statista Dc e fondatore di Cittadinanzattiva. Ha scritto un libro, Contro il non profit, che descrive tutto ciò che non va nel terzo settore, di cui pure sottolinea l’importanza. E sono tante, troppe le cose che non vanno. In pratica, in Italia, “non profit” è chi dichiara fiscalmente di esserlo, non chi veramente lo è. E ciò conduce a tantissime aberrazioni. A partire dalle condizioni di lavoro, già criticate da Boeri, per cui si dà luogo al fenomeno della “sussidiarietà strumentale”: il “mercato squallido” delle esternalizzazioni inventate per aggirare la spending review o ridurre i costi a ogni costo, all’insegna dei “soldi, pochi e maledetti”. Forme di sfruttamento ai danni dei lavoratori (anche quelli appartenenti a categorie in difficoltà, come i disabili) che spesso viaggiano di pari passo con frodi allo Stato e ai donatori. Il tutto in assenza di controlli.

Non sorprende dunque che il 20% delle organizzazioni non profit non abbia alcun volontario, e che siano restie a diffondere i rendiconti economici (come per esempio la stessa Fondazione della Sussidiarietà: online il suo bilancio non si trova). C’è poi la corsa senza esclusione di colpi ad accaparrarsi il Cinque per Mille, corsa a cui — come ricorda Moro — partecipano persino due Caf cattolici, Acli e Mcl, con risultati ovviamente milionari. E come classificare lo Stato, cosa sono i partiti, i sindacati, le chiese? È tutto non profit? I paradossi non solo del resto soltanto italiani, in Spagna due club calcistici fantamiliardari come Real Madrid e Barcellona sono considerati non profit. È difficile, nota Moro, dar torto a chi pensa che “una istituzione non profit è solo un’azienda privata senza azionisti”. Se si è arrivati a tanto, sottolinea lo studioso, è anche a causa della “narrativa dei buoni sentimenti”, che dipinge il terzo settore come intrinsecamente buono e gratuito. E che si accompagna all’enfasi posta sulla contribuzione del terzo settore al Pil nazionale: sarebbe questa un’altra ragion d’essere del non profit? Moro ritiene ormai impossibile capire cosa sia il non profit. Meglio prendere atto che “un oggetto come il non profit non esiste”.

Non vogliamo in alcun modo negare le enormi inefficienze del settore pubblico. E nemmeno siamo aprioristicamente contrari al principio di sussidiarietà. Ma non ha senso pensare di risolvere i problemi esistenti esternalizzando automaticamente servizi pubblici alle realtà non profit. Che peraltro sono sovente clericalmente orientate: è indegno per uno stato civile che un genitore non cattolico sia costretto a mandare i suoi figli in una scuola cattolica solo perché il Comune ha rinunciato a fornire istruzione pubblica. E ha ancora meno senso che accada in base a presupposti banali (e indimostrati) quali “non profit è bello”, “non profit è buono”, “non profit è meglio”. È facile fare carità con i soldi pubblici, tanto che, quando questi vengono a mancare e il rubinetto comincia e erogare meno acqua, tante realtà del terzo settore annegano nei debiti.

I problemi devono invece essere sempre affrontati “a ragion veduta”, basandosi sui dati di fatto, e non c’è dunque alcuna valida ragione per cui si dovrebbe prediligere sistematicamente il mondo non profit. Di cui peraltro fa parte anche l’Uaar e questo dimostra che — anche in questo caso — non critichiamo per partito preso. Ma noi siamo un’associazione di promozione sociale che basa la sua attività soprattutto sul volontariato (ed è dura). La Compagnia delle Opere cos’è?

La redazione

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