Suicidi che uccidono in nome di Dio

Il suicidio è una libera scelta, a mio avviso altamente rispettabile. Ma soltanto finché non danneggia la libertà e la vita altrui, come purtroppo talvolta capita. In tempi in cui si cercano disperatamente soluzioni per contrastare il terrorismo \islamico, forse si dovrebbe anche cercare di capire perché si decide di andare incontro a morte certa cercando di provocare il maggior danno possibile a esseri umani che nemmeno si conosce. In fondo, non esistesse tale carne da macello, non si avrebbero nemmeno gli attentati che quasi quotidianamente imperversano sui mezzi di informazione.

I motivi possono purtroppo essere molti. Per esempio, l’aspirazione alla fama: un nome per tutti, Andreas Lubitz. Un fenomeno nemmeno recente: nel 356 a.e.v. un certo Erostrato provocò deliberatamente un incendio che bruciò il tempio di Artemide a Efeso. Fu condannato a morte e le autorità cercarono di mantenere segreto il suo nome — inutilmente. Esiste poi il risentimento. Spesso mirato, alle volte è indirizzato indistintamente verso il mondo intero: è ciò che verosimilmente spinge a buttarsi sotto un treno della metropolitana nelle ore di punta. Né si possono sottacere lo spirito di emulazione e la malattia mentale.

C’è tuttavia un ulteriore elemento che non trova molto spazio nei commenti: il fatto che chiunque, o quasi, può diventare uno stragista. È quanto ha mostrato lo psicologo Philip Zimbardo. L’“effetto Lucifero” è il risultato dell’annichilimento dell’individualità prodotto dal far parte di un gruppo. In teoria può attivarsi in qualsiasi comunità, in pratica avviene soltanto in quelle chiuse. Una tipologia di gruppi umani si caratterizza però per portare all’estremo il senso di identità e appartenenza di chi ne fa parte. Come qualche anno prima di Zimbardo notò il fisico Steven Weinberg (in modo — va detto — a sua volta estremo), “con o senza la religione, ci sarebbero sempre buoni che farebbero il bene e cattivi che farebbero il male. Ma perché i buoni facciano del male, occorre la religione”. Il groupthink di tipo religioso è, piaccia o no, un approdo ideale per tutti coloro che aspirano all’immortalità, che si nutrono di risentimento, che hanno problemi mentali e che hanno ansie di emulazione.

Non è un caso se le religioni, più o meno tutte, demonizzano il suicidio, ma si guardano bene dal farlo quando può essere ammantato di una “positiva” aura spirituale. Si può spaziare dal biblico “muoia Sansone con tutti i filistei” ai martiri cristiani, dalla setta ismailita degli hashishin (all’origine della parola “assassino”) ai più moderni shahīd, più o meno credenti nelle 72 paradisiache vergini che spetterebbero loro. Senza dimenticare la discussa ascendenza zen dei kamikaze.

È per questo motivo che si resta perplessi quando il papa afferma che “il mondo è in guerra, ma non è una guerra di religione”. È discutibile che sia una guerra: “guerriglia” continua a sembrarmi un termine più appropriato. Forse Francesco ritiene che in questa fase sia più importante difendere il mercato della fede anziché il proprio marchio, perché un suo crollo avrebbe ricadute negative sull’intera offerta religiosa. O forse vuole soltanto e sinceramente stemperare un clima che si va facendo oggettivamente pesante. Ma come può negare la matrice religiosa dell’assassinio di un religioso avvenuto gridando il nome di un dio a opera di chi ha giurato fedeltà a un gruppo apertamente religioso? Come si può seriamente pensare che vi siano ragioni non religiose a spingere i terroristi a immolarsi e a uccidere? E quali mai sarebbero?

Il problema non sono tanto le decine di terroristi islamici che sinora sono entrate in azione in Europa. Il problema è rappresentato soprattutto dalle risposte deboli di istituzioni e mass media, basate sulla generalizzata convinzione che la religione sia una soluzione, anziché una causa. Si sono chiusi gli occhi di fronte ai milioni di fedeli scesi in piazza a Dacca per chiedere la morte dei blogger atei, e si continuano a chiudere gli occhi di fronte ai paesi che condannano a morte gli apostati e alle idee estremamente intolleranti che predominano tra i fedeli musulmani.

Si enfatizzano i 23mila islamici che sono andati in chiesa a pregare, ma non si dice che erano la metà di quelli che, nella sola Colonia, hanno inneggiato al liberticida Erdogan o di coloro che, nel nostro paese, pensano che l’Isis vuol diffondere “il vero islam”. Eppure, in cronaca, sono più frequenti le ragazze aggredite (quando va bene) perché vestono “all’occidentale” dei terroristi denunciati da qualche fedele.

Certo, qualcosa si può e si deve fare, per intercettare esaltati, malati mentali, rancorosi e modaioli prima che si radicalizzino e agiscano. Ma sbaglia chi, come Bernard-Henri Lévy, pensa che occorra far calare la damnatio memoriae sui jihadisti. Perché nel loro ambiente vengono esaltati, e tanto basta per creare nuovi potenziali assassini. Al contrario, bisogna cominciare a presentarli come autentici sfigati e bisogna far comprendere a tutti che la vita sotto lo Stato islamico fa dannatamente schifo, anche se somiglia moltissimo a quella in paesi nostri alleati (fino a quando?). Occorre evitare che i fanatici creino ambienti confortevoli e seducenti, come accade frequentemente persino nelle prigioni.

Ancora più importante, è necessario smettere di considerare la religione con un occhio pregiudizialmente di favore. I monoteismi universalisti pensano di detenere la verità e vogliono diffonderla in tutto il mondo. Degenerazioni ce ne sono state e ce ne sono ancora. La religione è la causa diretta o indiretta di tanti conflitti in corso. Il suo ruolo va necessariamente ripensato, se si vuole evitare che lo scontro di civiltà sia una profezia auto-avverantesi. Se.

Raffaele Carcano, coordinatore culturale Uaar

Articolo pubblicato sul blog di MicroMega il 6 agosto 2016.