Caso Supercoppa: i laici diritti delle donne nel pallone

E così la finale di Supercoppa italiana tra Juventus e Milan si svolgerà all’insegna della misoginia, nella città saudita di Gedda, ma nessuno se ne era reso conto fino a quando non è uscito il comunicato ufficiale della Lega Serie A con le istruzioni per l’acquisto dei biglietti dal quale si evince inequivocabilmente che i settori migliori dello stadio, quelli più vicini al campo di gioco, saranno riservati ai soli uomini. Le donne potranno assistere alla partita accedendo ai settori alti per le famiglie. Parrebbe perfino da sole, almeno a leggere quanto dichiarato ufficialmente dall’ambasciata saudita, il che ha fatto tirare un sospiro di sollievo a quanti avevano capito che invece sarebbe stato richiesto a ogni donna di essere accompagnata dal marito. Come se fosse quello l’unico aspetto problematico, risolto il quale tutto sarebbe a posto.

Di aspetti problematici ce ne sono invece diversi, anche più di quelli al centro delle dichiarazioni succedutesi nei giorni scorsi. Il primo sta nel fatto che, nel momento in cui è stata scelta la località, non sia stata tenuta in considerazione la legislazione vigente in Arabia Saudita. Eppure lo sanno anche i sassi che nel mondo islamico in generale le donne sono cittadini di secondo ordine, gli atei anche di terzo ordine secondo il Freedom Of Thought Report, e sanno anche che la particolare situazione dell’Arabia Saudita è perfino peggiore che altrove. Solo pochi mesi fa tutti plaudivano alla revoca del divieto di guida per le donne, mentre oggi si considera traguardo storico l’sms che informa la donna di essere stata abbandonata dal marito, tanto per fare due esempi. Non è possibile che nessuno della Lega Serie A si sia reso conto che giocare a Gedda avrebbe significato accettare una discriminazione di genere, quindi la questione è stata “semplicemente” ritenuta secondaria. Esattamente come le tifose.

Ma chi si volta dall’altra parte di fronte a palesi discriminazioni, a violazioni dei diritti altrui, non è poi tanto migliore di chi quei diritti li viola in prima persona. La stessa Lega Serie A per questioni di interesse fa carta straccia dei valori di lealtà che dovrebbero contraddistinguere lo sport e di fatto avalla le politiche misogine saudite, scegliendo il loro regno e non un qualsiasi altro Stato. Tant’è che la bontà della scelta è stata rivendicata dallo stesso presidente della Lega, Gaetano Micciché, il quale ha fatto notare che l’Italia ha stretti rapporti commerciali con l’Arabia Saudita e già questo giustificherebbe l’operazione. «Il calcio fa parte del sistema culturale ed economico italiano e non può avere logiche diverse da quelle del Paese a cui appartiene» ha detto Micciché, in aggiunta alla dichiarazione secondo cui «il caso Khashoggi ha posto la scelta dell’Arabia Saudita sotto i riflettori e doverosamente la Lega Serie A si è interrogata su cosa fosse giusto fare».

In altre parole, i diritti delle donne non hanno mai rappresentato un problema di opportunità, il caso Kashoggi invece sì per via dell’eco mediatica. Adesso però c’è un nuovo caso che riguarda l’Arabia Saudita e stavolta una donna: Rahaf Mohammed al-Qunun, una diciottenne in fuga dalla famiglia e dal regime wahabita, diretta verso l’Australia ma attualmente bloccata nell’aeroporto thailandese di Bangkok. Il suo passaporto è stato ritirato da un ufficiale saudita durante il transito, attualmente la ragazza è sotto la supervisione dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati con il timore che possano rispedirla a casa, dove la sua vita sarebbe in serio pericolo dal momento che avrebbe dichiarato di aver abbandonato l’islam. Questo potrebbe rimettere “sotto i riflettori” la scelta dell’Arabia Saudita? La Lega Serie A potrebbe rivedere la sua decisione? Non c’è che da augurarselo.

Il secondo degli aspetti problematici è il bilanciamento tra ciò che può essere tol­le­rato e i propri prin­cipi di rife­ri­mento, anche nella prospettiva di un ipotetico avvicinamento del fronte islamico, in questo caso, ai valori fatti propri degli Stati di diritto occidentali. Micciché ha parlato anche di questo: «Fino allo scorso anno le donne non potevano assistere ad alcun evento sportivo, da pochi mesi hanno accesso ad ampi settori dello stadio, che hanno iniziato a frequentare con entusiasmo, e noi stiamo lavorando per far sì che nelle prossime edizioni che giocheremo in quel Paese possano accedere in tutti i posti dello stadio». Probabilmente sarebbe stato meglio a questo punto attendere quel momento, con la consapevolezza che si sarebbe comunque giocato in una sorta di zona affrancata da tutto quello che succede normalmente al di fuori dello stadio, nelle strade di Gedda e di tutto il regno. Quello sarebbe stato un compromesso più accettabile che giocare adesso con solo una vaga possibilità che in futuro le cose possano migliorare, e con la sensazione che si stia cercando solo un enorme pretesto per giustificare il tutto.

Infine, l’aspetto politico e le dichiarazioni sul caso da parte di vari leader. Lo sdegno è stato pressoché unanime, il che dovrebbe essere un dato positivo se non fosse che a farne le spese è la coerenza. Netto il commento di Matteo Salvini, che annuncia l’intenzione di non voler guardare la partita e si chiede dove siano finite le femministe. Sullo stesso tono anche gli altri politici di destra, tra cui Giorgia Meloni che chiede: «Abbiamo venduto secoli di civiltà europea e di battaglie per i diritti delle donne ai soldi dei sauditi?». Non tengono conto, Salvini e Meloni, che i sauditi fanno esattamente quello che loro rivendicano di continuo: sostenere la propria cultura religiosa, le proprie radici. Per fortuna loro e nostra, il mondo occidentale di oggi è così come lo vediamo proprio grazie a chi ha lottato per ridimensionare le pretese del potere religioso. Quindi non grazie alla religione, ma nonostante la religione e la cultura tradizionalista. Se questa vicenda potrà finalmente far loro capire che i valori religiosi non sono spesso compatibili con quelli secolari, sarà tutto di guadagnato.

Da parte sinistra, Laura Boldrini è tra i primi a rispondere mettendo in guardia dal «barattare i diritti delle donne», seguita dall’ex ministro dello Sport Luca Lotti che ha invece dichiarato: «Chi ama il calcio rifiuta tutte le barriere culturali». Eppure Boldrini e altre donne di sinistra non si sono create problemi a indossare il velo, che ricordiamo è un simbolo di sottomissione, nelle loro visite alla moschea di Roma e in Iran. In quel caso non si trattava di barattare i diritti e la dignità delle donne? Si dirà che era solo una questione di rispetto, in particolare nel caso della visita di Boldrini che era a un luogo di culto, ma se il rispetto viene sempre tributato e mai richiesto, allora oggettivamente c’è un problema. Michelle Obama è riuscita ad andare nell’unico altro Paese che richiede il velo obbligatorio, guarda caso l’Arabia Saudita, senza indossarlo.

Di “ipocrisia dilagante” e di “polemica ridicola” parla invece il sottosegretario agli Esteri in quota cinquestelle Manlio Di Stefano in un post pubblicato sul blog del movimento. Di Stefano punta il dito contro chi, secondo il suo punto di vista, si starebbe accorgendo solo adesso della compressione delle libertà nei Paesi dove vige la sharia, nonché in tutte le società non laiche. Su questo punto non si può non essere d’accordo, sul fatto che ciò renda ridicola la polemica molto meno. È vero, come dice Di Stefano, che la Lega Serie A è un’associazione privata senza alcun mandato politico, ma questo non vuol dire che non si possano discutere le sue scelte, a maggior ragione quando queste scelte hanno inevitabilmente riflessi sull’opinione pubblica e sulle tifose italiane che vorrebbero andare a vedere la partita. A meno che non si voglia affermare il principio che le tifose valgono meno dei tifosi e che la Lega Serie A può infischiarsene di esse, subordinando le loro concrete possibilità di sostenere la propria squadra a un contratto di 21 milioni per complessive tre edizioni della manifestazione (ne seguiranno quindi altre due).

Non bisogna dimenticare che la partita dovrebbe anche essere trasmessa dalla Rai, che non è un’associazione privata come la Lega Serie A ma una concessionaria pubblica sottoposta alla vigilanza di un’apposita commissione bicamerale. Commissione il cui presidente, Alberto Barachini, ha invitato l’azienda a porre attenzione sui contenuti trasmessi, che dovrebbero sempre riflettere i principi costituzionali e i diritti umani. Sarebbe anche ora. Magari a partire proprio da un ridimensionamento del dilagante clericalismo, come fatto notare più volte dall’Uaar, anche alla stessa Vigilanza quando il presidente era Roberto Fico.

Massimo Maiurana

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9 commenti

Manlio Padovan

Mi pare che non sia il primo caso di comportamento criminale e cialtrone da parte dei signori, si fa per dire, del pallone. Sarebbe ora che si dimostrasse loro aperto e profondo disprezzo a cominciare dal prendere a calci nel sedere i caporioni delle società calcistiche, quelli delle federazioni e il giornalume che li serve.

Diocleziano

*… l’ex ministro dello Sport Luca Lotti che ha invece dichiarato: «Chi ama il calcio rifiuta tutte le barriere culturali»…*

Forse il Lotti non è mai stato allo stadio, o non guarda nemmeno la televisione.
Chissà se quello che pochi giorni fa ha schiacciato con l’auto un tifoso, uccidendolo, si definirebbe un amante del calcio?

micoenrico

Caro Maiurana, con questa storia che se parli male della destra, poi devi parlar male anche della sinistra, ci siamo ritrovati con uno dei governi più a destra d’Europa, che ha tra i suoi obiettivi (non dichiarati) quello di abbattere i diritti civili conquistati in decenni di lotte e restaurare tutte le discriminazione che UAAR persegue da statuto.

bardh

ma se sono obiettivi non dichiarati come fai a conoscerli, ma dato che li conosci ci faresti un elenco di questi diritti civili che la destra ha intenzione di abbattere e come riuscirà a farlo, con voto parlamentare o vie extra parlamentare!?

RobertoV

Il fatto dimostra due cose: i soldi fanno girare il mondo e l’ipocrisia del preoccuparsi solo delle cose visibili.
Il calcio, sport tra l’altro maschilista e chiacchierato (basti pensare al suo ex direttore Tavecchio difeso strenuamente fino all’ultimo), ha elevata visibilità mediatica e, quindi, ci si scandalizza di restrizioni per le donne per andare allo stadio, mentre non di tutto il resto.
La risposta della federazione svela l’ipocrisia: siamo in linea col comportamento estero dell’Italia. Infatti basta vedere la promozione dei vari governi, anche l’ultimo, per investire e sviluppare il commercio con l’Arabia Saudita e paesi similari, scambio che è dell’ordine di 3-4 miliardi di euro all’anno, ma che si spera in crescita. Dopotutto il calcio è un’attività economica.
Quindi si può tranquillamente fare affari con paesi del genere, purchè non siano visibili le palesi violazioni dei diritti umani ed i compromessi a cui dobbiamo ricorrere (sono anche finanziatori del terrorismo internazionale). D’altronde il cliente o il proprietario ha sempre ragione. Perchè anche le aziende italiane che operano con tali paesi si trovano a discriminare le donne assumendone di meno o limitando la loro carriera perché non possono essere inviate in quei paesi, o devono farlo adattandosi alle loro regole. E se delle nostre aziende vengono acquistate da degli arabi, cosa ormai frequente, si troveranno con restrizioni della loro libertà.
La supercoppa in questione, proprio tra le stesse squadre, nel 2016 fu giocata in Qatar, ormai diverse manifestazioni sono state fatte in certi paesi e nel 2022 vi saranno i mondiali di calcio in Qatar. Sarà molto differente la situazione? E se per la partita in questione, magari troveranno una soluzione di compromesso o “grande apertura” per delle privilegiate, cosa succederà dopo per le donne? Tutto come prima?
Pensare poi che l’Arabia Saudita dovrebbe essere nell’occhio del ciclone per il recente caso Kashoggi, ma neanche questo ha smosso qualcuno per fare pressioni sull’Arabia Saudita. Pecunia non olet e “prima di tutto, i soldi”. I diritti sono un bene di lusso.

RobertoV

Un anno fa la campionessa di scacchi ha dato un esempio: ha rinunciato a titolo e soldi.
“Per non giocare secondo le regole altrui, non indossare un velo, non essere scortata in giro e non sentirmi una sottospecie umana». Con queste motivazioni, in un lungo post pubblicato su Facebook, Anna Muzychuk, 27 anni, e campionessa mondiale di scacchi, ha rinunciato a partecipare in Arabia Saudita al campionato “King Salman” perché, ha ribadito, «non voglio giocare in un Paese dove la donna non è considerata pari agli uomini». La sua decisione le costerà il titolo mondiale che detiene per due discipline di scacchi veloci (rapid e blitz) vinto esattamente un anno fa. Inoltre, rifiutandosi di partecipare al Rapid and Blitz Chess Campionship di Riad, mette una pietra sopra al sogno di vincere un montepremi milionario.”

mafalda

Grande donna, ma sono pochi quelli che seguono gli scacchi. Pensa il contributo alla civiltà che potrebbe dare il calcio se i buzzurri che lo dirigono facessero come Anna.

bardh

non è affiato facile trovare l’equilibro in questa discussione, bel articolo, complimenti.

una precisazione; l’unico paese dove nessuna donna è andata senza coprire la testa è l’iran, invece ci sono diverse donne, oltre Michelle Obama, che hanno visitato l’Arabia saudita senza coprire la testa: Melania Trump, Angela Merkel, Ursula von der Leyen, Theresa May, Mimi Kodheli.

Nel 2010, durante prima visita di Obama in Arabia Saudita, sia Michelle Obama che Hillary Clinton avevano indossato il velo e prima di loro lo aveva fatto Laura Bush, sempre nel 2010 Michelle Obama lo indosso pure in Indonesia.

Gérard

Secondo le leggi dell’ Arabia Saudita, nessuna donna capo di stato è costretta a coprirsi la testa e di indossare l’ abaya nera . Questo vale anche per i regnanti e i loro parenti piu vicini . Questo non vale se vanno a visitare una moschea ( Peccato che non si puo pubblicare fotos su questo blog perchè quella della regina d’ Inghilterra visitando una moschea in Arabia Saudita è una chicca…! ) .

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