L’ultimo condannato a morte

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Cheikh Mkhaitir, schiavitù e apostasia in Mauritania

Novantamila, secondo il Global Slavery Index (2018), è il numero delle persone che attualmente vivono in schiavitù in Mauritania. Trattandosi di un fenomeno particolarmente elusivo, è tuttavia difficile trovare stime coerenti sulla sua diffusione e, a seconda di come si calcoli, c’è chi pone quel numero a 43.000 (Amnesty International 2018) o addirittura a oltre mezzo milione, ossia il 18% dell’intera popolazione del Paese (SOS Esclaves).

Un esercito di persone senza identità, private dei fondamentali diritti civili, a cui è negata ogni autodeterminazione e che vengono scambiate, vendute, date in regalo ai matrimoni. Madri separate dai figli piccoli. E poi sfruttamento sessuale, torture, maltrattamenti… Storie dell’orrore che sporadicamente affiorano nei reportage internazionali, quando qualche testata si ricorda dell’esistenza della Mauritania.

Eppure, formalmente, la schiavitù è stata abolita a più riprese, in questo paese. Nel 1905, dall’amministrazione coloniale francese; nel 1948, con l’adozione da parte delle Nazioni Unite della Dichiarazione universale dei diritti umani; nel 1961, con la Costituzione della Mauritania, al momento dell’indipendenza; e finalmente – ultimo paese al mondo – con un provvedimento governativo del 1981, che però non conteneva alcuna indicazione su come applicare la legge e punire i trasgressori, portando alcuni esperti, come Kevin Bales, a osservare sardonicamente che «la schiavitù è stata abolita, ma nessuno si è preoccupato di farlo sapere agli schiavi».

Bisogna attendere il 2007 perché finalmente diventi un crimine, e pene fino a dieci anni di reclusione vengano stabilite per i moderni sfruttatori. Purtroppo, in barba alle leggi, il governo ha successivamente continuato a mantenere un atteggiamento ambiguo sulla questione, da una parte insistendo che in Mauritania non ci sono schiavi, e dall’altra perseguitando di fatto più gli attivisti abolizionisti che non gli schiavisti. Già, perché ad oggi sono soltanto due o tre i casi in cui qualcuno è stato condannato per schiavitù, in processi che, come denunciano militanti come Biram Ould Dah Abeid, sono da considerare più atti politici e propagandistici che non di genuina lotta allo sfruttamento.

Sono molteplici i fattori a cui è ascrivibile l’attuale situazione. Innanzitutto, la geografia: la vasta, desertica territorialità della Mauritania favorisce l’isolamento delle comunità e la scarsa presenza e rilevanza delle moderne istituzioni statali. In secondo luogo, la storia: è da quasi due millenni che i commercianti arabi e berberi catturano e sfruttano africani della regione sub-sahariana. Col tempo, questa prassi ha portato alla creazione di un sistema sociale basato sulla discriminazione etnico-razziale, che ha sia i tratti dell’apartheid (con tre principali gruppi etnici: arabo-berberi, africani sub-sahariani arabofoni, e afro-mauritani), sia del sistema delle caste (fra le caste più basse, ci sono gli (ex) schiavi Haratin e i Maalemin, fabbri/artigiani).

La povertà stessa e il correlato analfabetismo sono altri due elementi che concausano il perpetuarsi del fenomeno: molti schiavi non sanno di potersi affrancare e del resto non avrebbero i mezzi per sopravvivere senza un padrone, mentre gli schiavisti, che sono per lo più contadini incolti, ereditano un contesto culturale che non arrivano mai a mettere in discussione, e in cui l’endemica povertà rende necessario lo sfruttamento della manovalanza.

Dulcis in fundo, la religione. I testi sacri dell’islam, il Corano e gli Hadith, nella loro rielaborazione teologica e giuridica, trattano in modo dettagliato aspetti come lo status legale degli schiavi, i loro diritti e limitazioni, la loro spiritualità, l’affrancamento, il concubinaggio, eccetera. È solo a partire dal XIX secolo che il mondo musulmano, compiendo un salto paradigmatico, si è lasciato gradualmente alle spalle una pratica esplicitamente sancita dalla religione, adattando la teologia e la giurisprudenza in conseguenza alle circostanze storiche. Ma nei deserti della Mauritania il messaggio evidentemente non è arrivato, perché molti imam continuano imperterriti a predicare l’origine divina dell’istituzione della schiavitù, facendo credere alle persone che andranno in paradiso se accetteranno di restare sottomesse.

La vicenda di Mohamed Cheikh Ould Mkhaitir si trova al crocevia di questa complessa rete di circostanze. Cheikh infatti non è soltanto un appassionato attivista anti-schiavitù, non è soltanto un Maalemin istruito che si batte contro la discriminazione su base etnica: è anche un ateo, che condivide online la sua critica sociale fondandola ed estendendola alla critica dell’islam. Nel gennaio del 2014 ha 28 anni e fa il commercialista a Nouadhibou, seconda città della Mauritania, quando pubblica un articolo dal titolo Religione, religiosità e i Maalemin, in cui mette in correlazione una serie di aneddoti relativi alla vita del profeta Maometto dimostrando come a seconda dello status sociale e dell’appartenenza a una determinata tribù, Maometto adottasse due pesi e due misure nel perdonare o condannare le persone per i loro peccati. Cheikh fa un’astuta e delicata operazione di montaggio, e senza trarre esplicite conclusioni sull’opportunismo e la disonestà del profeta, lo mette potenzialmente in cattiva luce, promuovendo la tesi che la religione (più precisamente la religiosità sfruttata oggi dai politici) abbia una pesante responsabilità nel giustificare e rafforzare il tribalismo alla base delle gravi discriminazioni di cui soffrono le caste più umili.

È, presumibilmente, la prima volta che un attivista si spinge ad argomentare in questi termini e il governo, nella sua accanita lotta contro il dissenso, decide di rispolverare un articolo del codice penale inapplicato dal 1960, il 306, per colpire l’autore in modo esemplare accusandolo di blasfemia (offesa al profeta Maometto) e ateismo (apostasia). La sharia infatti influenza pesantemente il diritto mauritano, essendo il paese costituzionalmente islamico. Appena saputo di essere ricercato, Mohamed Cheikh si reca spontaneamente alla questura per spiegare il senso del suo articolo. Viene immediatamente portato in custodia cautelare in carcere, dove rimane per tutto l’anno, fino al processo, che si celebra il 24 dicembre 2014.

Nel frattempo, fuori si scatena l’inferno. Il caso viene ampiamente mediatizzato e folle anche di migliaia di persone, aizzate da fondamentalisti, si aggregano nelle strade e davanti al tribunale per gridare la loro rabbia e condanna contro il blogger. Lo vogliono morto. In una occasione il presidente stesso si unisce a una di queste manifestazioni, legittimando la sete di sangue della massa.

Il processo, istantaneo, è una farsa. Due giudici fra i più oscurantisti sono nominati direttamente dal ministero della giustizia, gli avvocati difensori sono soggetti a forti pressioni, al punto da dover dichiarare di essere stati costretti a seguire il caso, le spiegazioni fornite sulla natura non offensiva dell’articolo vengono completamente ignorate, come viene ignorata l’abiura di Mohamed Cheikh, che a più riprese rinnega di essere ateo e si pente pubblicamente per ciò che ha scritto. L’articolo 306 dispone infatti che in caso di pentimento, l’imputato vada graziato. Alla fine, arriva una sentenza sorprendente: Mohamed Cheikh viene condannato a morte, ma per nessuna delle due imputazioni ascrittegli e dibattute in aula, bensì per il reato di “ipocrisia”, o falso pentimento.

Per circa tre anni la vita del blogger resta sospesa, in carcere. Con la motivazione ufficiale di proteggerlo dagli altri prigionieri, viene spostato in isolamento, in una piccola cella stantia dove non entra la luce del sole e può dormire soltanto su un tappeto. Perde la moglie, con l’annullamento d’ufficio del suo matrimonio, e presto gli viene impedito di vedere il resto della famiglia. Soffre di malnutrizione e contrae una forma di malaria. Tutto questo si somma allo stress psicologico della minaccia di una imminente fucilazione.

Il processo d’appello, nel 2016, non va meglio del primo grado, ma buone notizie arrivano un anno dopo, nel novembre 2017, quando la corte suprema ammette la validità del pentimento e commuta la pena capitale in due anni di carcere. Sembra la fine di un incubo, dal momento che la sentenza è già stata ampiamente scontata. Ma, racconta Cheikh, «il giorno in cui avrei dovuto essere liberato, arrivato al cancello del penitenziario, sono stato preso e accompagnato in una località segreta, senza alcun preavviso o spiegazione». La sua detenzione, a quel punto completamente illegale, viene giustificata dal presidente Mohamed Ould Abdel Aziz come una misura necessaria sia per proteggere il detenuto sia per evitare sanguinose sommosse nel paese. «La popolazione va prima preparata all’idea della sua scarcerazione», nelle parole di Abdel Aziz. Inizia un braccio di ferro tra il governo, le Ong e gli altri paesi del mondo. Per fortuna, la Mauritania è particolarmente sensibile all’opinione pubblica internazionale e alle conseguenze economiche delle sue politiche interne. Per esempio, dal primo gennaio 2019, gli USA hanno interrotto un trattato commerciale con il paese proprio a causa del persistere delle pratiche schiaviste, e nel luglio dello stesso anno il vicepresidente americano Mike Pence è intervenuto direttamente per sollecitare la scarcerazione di Mohamed Cheikh.

È così che finalmente, al termine di luglio 2019, in perfetta coincidenza con la fine della presidenza di Mohamed Ould Abdel Aziz, e dopo un’apparizione televisiva in cui Cheikh chiede perdono alla nazione, il blogger viene segretamente trasportato in Senegal, e da lì imbarcato su un volo per Parigi.

Oggi risiede a Bordeaux. Si presenta come una persona colta, distinta, eloquente. Ha imparato il francese negli ultimi anni di detenzione, ed è più interessato a usarlo per parlare di ingiustizie e schiavitù che non della sua disavventura, che narra quasi con distacco, come se non fosse realmente accaduta a lui. Esprime ripetutamente la sua riconoscenza per chi dall’estero lo ha supportato e salvato, da Amnesty a Humanists International. È un ottimista. Profondamente convinto del potere trasformativo della conoscenza, sfrutta al massimo la notorietà che il suo caso gli ha dato per educare, soprattutto i giovani, alla laicità, al pluralismo e all’uguaglianza nel paese che ha lasciato. «La Mauritania è già cambiata, dopo di me» conclude, con senso di fiducia, una lunga e istruttiva chiacchierata, condensata nei contenuti di questo articolo. «Il mio caso ha generato grande dibattito e consapevolezza, sia nella società che a livello governativo. Sono stato il primo dopo decenni a subire una condanna a morte per blasfemia. Sono convinto di essere stato anche l’ultimo».

Cheikh Mkhaitir

Paolo Ferrarini


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4 commenti

laverdure

Quanto sopra,vale a dire l’indifferenza dell’occidente verso questi fenomeni,e’ semplicemente una delle tante conseguenze del principio di considerare fenomeni come i razzismo,la schiavitu’,l’intolleranza,perfino il genocidio,come deprecabili solo se praticati da bianchi.
Per la maggioranza della gente di qui l’idea che tra le popolazioni nere ci possano essere odii razziali e tribali,vecchi di secoli,che non hanno niente da invidiare a quelli tra bianchi e neri,e’ una cosa incomprensibile.
Basti ricordare la guerra civile in Burundi anni fa,tra le etnie Tutsi e Utu,che prese le sembianze di un vero genocidio.
Lo sfruttamento schiavistico verso individui perfino della propria stessa etnia diventa privo di interesse allo stesso modo.
E la cosa paradossale e’ che il “politicamente corretto ” in Occidente sta sempre piu’ prendendo toni ancora piu’ estremi dell’integralismo islamico piu’ ortodosso :
in USA per esempio pronunciare in pubblico il vocabolo “nigger” rischia gravi conseguenze anche se a farlo e’ un nero riferendosi a se stesso,come nell’episodio
citato poco tempo fa.

laverdure

Nel caso della Mauritania poi,vale la pena di notare che la popolazione e’ al 30% araba,30% nera e 40% mista.
Gli arabi praticavano lo schiavismo da secoli quando i bianchi cominciarono a sfruttarlo su vasta scala per le loro colonie.
E i negrieri bianchi si servivano da mercanti di schiavi arabi.
Per cui su questo argomento gli arabi hanno ben poco da criticare l’occidente.

Diocleziano

Si deve sottolineare che la Mauritania è un paese dove la costituzione sancisce che è una repubblica islamica e decreta che l’Islam è la religione dei cittadini dello Stato e il presidente deve essere musulmano. Alla faccia dei superiori valori etici che dà la religione!

RobertoV

Certi problemi se li pongono nazioni democratiche e civili. Le nazioni che hai citato non sono mai state democratiche. In quei paesi razzismo e schiavitù sono una delle tante violazioni dei diritti civili ed umani e dei tanti problemi che hanno.
Con questa logica non dovremmo criticare i nostri paesi su antisemitismo, diritti delle donne, del lavoro, razzismo, ecc. perchè altri fanno di peggio?
Nell’articolo mi sembra che si critichi solo la Mauritania, non l’occidente. Ed a chi dovrebbero rivolgersi le persone perseguitate se all’interno la situazione è così disastrosa? Neanche noi italiani ci saremmo liberati da una dittatura senza un aiuto esterno.

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