Quel femminismo arroccato nel suo genere

Quando si pensa alle organizzazioni che si battono per questa o quella categoria sociale, che rivendicano il riconoscimento di diritti negati da una cultura arcaica, si è istintivamente portati a ritenere che le persone che ne fanno parte siano pronte anche a sostenere altre rivendicazioni con basi simili, ma che non fanno parte del proprio ambito di competenza. Magari non in maniera attiva né tantomeno dalle prime file, basta il semplice sostegno esterno, anche solo sotto forma di commenti più o meno ufficiali. Si pensa, in altre parole, che vi siano ampie aree di intersezione in cui i diritti dell’uno traggono forza dai diritti degli altri e viceversa, in una spirale virtuosa che non può che portare vantaggi per tutti.

È una concezione aperta dell’associazionismo. L’Uaar ne è un esempio; basta dare un’occhiata ai documenti ufficiali in cui definisce la sua missione, cioè il manifesto d’intenti, gli obbiettivi e le dichiarazioni, per rendersi conto che parliamo sì di un ente che si rivolge principalmente ai non credenti, ma che prende anche atto di vivere in un mondo in cui a essere emarginate, vituperate, discriminate e perfino perseguite sono tante persone a diverso titolo e su diversi livelli, le cui cause possono essere meritevoli di essere sostenute in qualche modo. È un po’ l’essenza dell’umanismo laico. Non è un caso quindi vedere l’Uaar battersi al fianco delle donne o delle persone Lgbt; semmai è una precisa volontà.

Esiste però anche una concezione chiusa dell’attivismo, orientata non solo a non occuparsi minimamente di questioni che esulano dal proprio core business, ma addirittura a rifiutare l’idea che i diritti altrui abbiano pari dignità. Specialmente se sono un minimo correlate con le proprie, quasi fosse percepita come forma di concorrenza. La grande varietà del mondo Lgbt ha fatto suo malgrado da cartina al tornasole per queste posizioni di contrasto e a spiccare, in senso negativo, sono state in particolare le realtà femministe. La prima forse Arcilesbica, che pur essendo organica a quello stesso mondo ha espresso posizioni contrarie al riconoscimento di diritti alle persone transgender e transessuali, al punto che altre associazioni della galassia Arci hanno promosso una raccolta di firme per chiedere la sua espulsione. In seguito commenti simili a quelli di Arcilesbica sono arrivati anche dal movimento “Se non ora quando”.

Il ragionamento seguito è talmente semplice da risultare quasi infantile: se non nasci con una vagina e un utero non puoi dirti femmina e non puoi quindi agganciarti al carro delle rivendicazioni femministe. Il concetto di identità di genere per loro non esiste; una persona nata uomo che si sente una donna è e rimane un uomo, o al limite sta in una sorta di limbo nel quale è condannata a rimanere emarginata. Ma a ben vedere quella è la definizione di sesso biologico, che nessuno ovviamente nega ma che non può rappresentare di per sé né privilegio né ostacolo. L’identità di genere è un’altra cosa, e se proprio vogliamo essere precisi non è nemmeno strettamente limitata al binarismo maschio-femmina.

Partire dall’assunto che a definire i nostri diritti siano le caratteristiche del corpo in cui siamo nati è rozzo, brutale e soprattutto sbagliato. Le più grandi atrocità sono state compiute proprio sulla base di principi simili, che manco a dirlo affondavano le radici soprattutto in tradizioni culturali tramandate attraverso precetti religiosi. Partendo da ragionamenti simili sono state sterminate e sopraffatte popolazioni solo perché tecnologicamente e scientificamente non progredite, quindi inferiori. Lo stesso movimento femminista è nato per riscattare le donne da un’egemonia maschile e maschilista fondata su un’inferiorità del genere femminile in gran parte costruita, perché se è vero che dal punto di vista della prestanza fisica la differenza biologica è innegabile, per il resto le donne venivano private dell’opportunità di competere culturalmente secondo un circolo vizioso che impediva loro l’accesso agli studi: sei inferiore per natura, quindi non puoi avere le stesse opportunità e rimani inferiore.

Quello che oggi viene sostenuto da questa sorta di veterofemminismo escludente non è molto diverso. Paradossalmente può essere considerata una legittimazione a posteriori delle posizioni di quello stesso avversario che prima si combatteva, nel senso che le ragioni del mondo patriarcale di allora sono simili a quelle che adesso vengono portate avanti da chi lo combatteva. E non solo da loro, poiché la tentazione di stigmatizzare il diverso solo in quanto tale è tipica anche di altri ambienti che forse Arcilesbica e Snoq non vorrebbero vedere a esse associati.

Perché alla fin fine il nocciolo è quello: sentenzio che la tua diversità ti pone in una posizione inferiore rispetto a me che sono omogeneo con la maggioranza della società in cui vivo. Così dagli allo straniero, dagli al non cristiano, dagli al frocio, adesso dagli al/alla trans. Quando invece la diversità, lo ripetiamo da sempre, dovrebbe essere considerata ricchezza. Ben venga la società variopinta, alla larga quella omologatrice dove tutti devono poter essere classificati secondo dati esatti e collocati nella loro casellina. Ben venga il riconoscimento della diversità altrui, alla larga qualunque tentativo di usare quella diversità quale pretesto per legittimare forme di emarginazione diretta o indiretta.

Massimo Maiurana

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3 commenti

Utentx di internetx

Grazie per l’articolo!

È un bene che l’UAAR ne parli e spero che farà una scelta di campo sul DDL omotransfobia. Anche (quel che resta di) Se Non Ora Quando e (la dirigenza di) Arcilesbica si sono schierate per restringere la casistica dei delitti d’odio all'”identità sessuale” e non alla più ampia “identità di genere”.
Come sia possibile che movimenti marginali e che hanno fatto il loro tempo siano elevati a dignità di cronaca mentre la posizione di Non Una Di Meno – un movimento di massa rispetto ai numeri che si smuovono in questo secolo – non emerge sulla stampa generalista?

Un P.S. che è più una buccia di banana: “dal punto di vista della prestanza fisica la differenza biologica è innegabile”. A me sembra aprire all’universalizzazione di condizioni particolari, che sono comunque frutto di una selezione sociale lunga secoli. Eppure è bastato poco al patriarcato contemporaneo a modellare il ruolo della donna come superumana che deve star dietro a lavoro, casa e prole senza staccarsi mai un momento. La finta “scelta” fra famiglia e professione in realtà è percorribile solo da una nicchia di donne; tutte le altre devono barcamenarsi e guai a inciampare. Provocazione: in termini di “prestanza fisica” potrebbe quindi il genere egemone provare lo stesso? Non attendo risposta.
Smettiamola di fare a gara e capiamo come ciascuna persona sia differentemente socializzata secondo ruoli di genere in una società dove la “prestanza fisica” è fra gli ultimi dei criteri nella costruzione di questi ruoli.

Diocleziano

Mah, in una società che pare ripiegata su sé stessa per contemplare, più che
l’ombelico del mondo, la tartarughina addominale faticosamente addestrata,
direi che il problema sia il raggiungimento di una rinnovata “prestanza neuronale”:
senza velleità. Normale, utile.

Francesco S.

Il difetto del veterofemminismo è che si è sempre concentrato troppo sul genere femminile ingnorardo che il sessismo riguarda tutti i generi e le persone che non si identificano col genere assegnato.

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