Zaheer Hassan Mahmoud è un giovane, di 25 anni, fuggito dal Pakistan e arrivato dopo mille traversie in Francia. Il 25 settembre prende una mannaia, si reca nei dintorni della vecchia sede della rivista Charlie Hebdo e ferisce gravemente alcune persone ignare che lavorano nello stabile e stanno fumando vicino alla targa dedicata alle vittime della strage islamista del 2015. Arrestato, confessa che «era in collera» per le vignette su Maometto pubblicate da Charlie Hebdo e ripubblicate in queste settimane per il processo all’attentato. Voleva vendicarsi, credendo che i redattori lavorassero ancora lì. Ma intanto erano stati costretti a cambiare sede, sono sotto scorta e tuttora ricevono minacce di morte. Succede nel 2020, a Parigi. Una storia che racconta un odio profondo veicolato dall’integralismo religioso. Alimentato dalle leggi contro la “blasfemia”, che in tante parti del mondo educano interi popoli all’intolleranza contro il pensiero laico e legittimano il loro desiderio di lavare con il sangue certe offese. Una cappa sociale e culturale di connivenza, che sdogana con naturalezza la violenza verso i “blasfemi”. Il padre di Mahmoud, dal Pakistan, ci ha tenuto a dichiararsi «fiero» per il «coraggioso atto» del figlio «dal cuor di leone» e «molto felice» per l’attacco. Un «bel lavoro».
Charlie Hebdo è uno dei nervi scoperti. Il settimanale satirico francese ha avuto infatti l’ardire nel 2006 di ripubblicare le caricature dedicate alla religione islamica apparse per la prima volta il 30 settembre 2005 sul giornale danese Jyllands-Posten. Un caso internazionale che ha scatenato gli integralisti islamici a livello globale, fino a fomentare attentati, aggressioni e un clima pesantissimo contro chiunque critichi la religione (soprattutto islamica). Per questo il 30 settembre viene ricordato, prima dall’organizzazione laica statunitense Center for Inquiry poi in maniera generalizzata dal movimento laico umanista, come l’International Blasphemy Rights Day. Un’occasione che non è di certo dedicata al “rutto libero”, alla bestemmia gratuita, come vorrebbe qualche buontempone. Ma per portare alla luce dell’opinione pubblica, anche in maniera provocatoria, la necessità di rivendicare la libertà di espressione anche nei confronti dei dogmi religiosi. E per denunciare le numerose e gravi discriminazioni, in tutto il mondo, contro chi viene accusato di “blasfemia”. In certi paesi significa anche solo dirsi non appartenente alla religione dominante, fare apostasia, professarsi atei o venire accusati per ripicca di aver “offeso” la dottrina. Invece di stemperare i conflitti e le violenze accade che il confessionalismo e la tutela privilegiata delle religioni da possibili insulti non facciano altro che legittimare prevaricazioni e aggressioni da chi pretende di ergersi a rappresentante dell’onorabilità della divinità.
Humanists International, organizzazione ombrello laico umanista di cui fa parte anche l’Uaar, ha lanciato da anni la campagna “End Blasphemy Laws”, per chiedere l’abolizione universale di certi reati. Ogni anno viene pubblicato, sempre da Humanists International, il Freedom of Thought Report, per puntare i riflettori sui casi più plateali di discriminazione e denunciare la situazione dei paesi oppressivi. Una situazione così drammatica che persino il relatore speciale dell’Onu sulla libertà di religione e convinzione Ahmed Shaheed ha denunciato l’uso globale delle leggi anti-blasfemia per colpire le minoranze, ricordando a fondamentalisti e stati confessionali che la libertà di religione «protegge gli individui, non le religioni».
Come viene approfondito anche sulla nostra rivista Nessun Dogma, sono ancora 69 i paesi (tra cui il nostro) in cui vilipendere la religione costituisce un reato. Attualmente, in 8 paesi (tutti musulmani) si rischia la condanna a morte per blasfemia. L’Uaar ha tra i propri obiettivi l’abolizione delle leggi che tutelano il “sentimento” religioso. Il progetto editoriale dell’associazione, Nessun Dogma, ha dato risalto a storie di persone che hanno subito sulla propria pelle l’oppressione religiosa. Come Masih Alinejad, giornalista iraniana che lotta contro l’imposizione del velo islamico da parte del regime degli ayatollah, di cui è appena uscita l’autobiografia Il vento fra i capelli. La mia lotta per la libertà nel moderno Iran. E Waleed Al-Husseini, giovane ateo palestinese incarcerato per “blasfemia” a causa di contenuti laici pubblicati da lui su internet e costretto a riparare in Francia, di cui è stato pubblicato Blasfemo! Le prigioni di Allah.
Molti nel frattempo sono morti. Non solo i redattori di Charlie Hebdo, ma anche ad esempio i blogger “atei” del Bangladesh e l’intellettuale Avijit Roy. Molti vengono arrestati, torturati o sono costretti a scappare dal proprio paese. Non dimentichiamo, di recente, Mubarak Bala: il rappresentante di una associazione umanista nigeriana che è ormai in carcere da mesi – senza che si abbiano notizie sulle sue condizioni e senza processo – per un post sui social ritenuto offensivo verso l’islam. Il nostro pensiero va oggi a lui e a tanti attivisti e attiviste che combattono per la libertà di espressione. E che rischiano la vita e la libertà per aver nominato dio (invano).
Valentino Salvatore