Vi proponiamo un articolo dal n.3/2020 del bimestrale dell’Uaar, Nessun Dogma – Agire laico per un mondo più umano. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Per molti secoli in Europa lo studio della medicina ha dovuto convivere con l’azione censoria e limitante della chiesa. Anche se la storiografia moderna tende a revisionare la classica idea del Medioevo come epoca “buia”, i documenti raccontano chiaramente il paradosso in cui si muoveva la cristianità fino a oltre l’Umanesimo e il Rinascimento: lo studio, la cultura e la ricerca erano prevalentemente appannaggio della chiesa, e la chiesa non poteva accettare che studio, cultura e ricerca andassero oltre i limiti posti dalle sacre scritture.
Nel caso particolare della medicina, c’era un problema ulteriore: il chierico esperto in cure e guarigioni poteva diventare molto ricco grazie al suo lavoro, e questo l’avrebbe inevitabilmente “distratto” dalla preghiera e dall’opera pia. Il quarto concilio ecumenico lateranense del 1215 mette nero su bianco la proibizione per i chierici di occuparsi di “chirurgia”: questo porterà, nei tempi successivi, al fiorire della professione medica slegata dalla ricerca, tramite i cosiddetti “barbieri-chirurghi”, mentre lo studio teorico fine a sé stesso verrà semplicemente definito “medicina”.
In questo contesto il “medico” è assimilabile a un filosofo e deve ingegnarsi parecchio per poter verificare scientificamente le sue teorie, anche se a partire dal 1300 sono sempre più numerose le università che consentono, al loro interno, la dissezione di cadaveri. Presto questa pratica comincia a interessare anche agli artisti, che nel Rinascimento diventano ossessionati dalla riproduzione quanto più fedele possibile della figura umana.
Leonardo è tra i più celebri sezionatori di cadaveri a scopo più estetico che medico, in un momento in cui l’operazione è ancora vista con grande sospetto. Non sorprende che vi sia qualche libertà in più nell’Europa riformata: il primo trattato moderno di anatomia si deve a un medico fiammingo, Andreas van Wesel, italianizzato in Andrea Vesalio, e viene pubblicato a Venezia (città cattolica ma da sempre poco propensa a seguire pedissequamente il papato) nel 1543. È proprio nell’Europa riformata che l’anatomia avanza con decisione nel secolo successivo, durante il quale diventa possibile addirittura celebrare un medico mostrandolo intento a dissezionare un cadavere: è quello che avviene nell’opera in oggetto, realizzata da Rembrandt nel 1632.
Il protagonista è il dottor Nicolaes Tulp, titolare della cattedra di anatomia dell’università di Amsterdam. È la locale gilda dei medici a commissionare il dipinto: attorno al cadavere si raccolgono dottori e studenti, i cui nomi compaiono su un libro tenuto in mano da uno degli astanti (le due figure a sinistra sono probabilmente aggiunte successive). Il protagonista sembra intento a mostrare i tendini del braccio sinistro: il cadavere è, come si usava, quello di un criminale condannato a morte, e ne conosciamo addirittura l’identità (è Het Kindt, impiccato nel gennaio di quell’anno). Il forte chiaroscuro, tipico del linguaggio seicentesco e cifra stilistica in particolare di Rembrandt, mette in evidenza i volti dei dottori, caratterizzati da espressioni tra l’attento, il sorpreso e il disgustato.
L’intento di un’opera come questa è chiaramente celebrativo, ed è proprio questo a renderla interessante: è passato relativamente poco tempo da quando Leonardo era costretto a sezionare cadaveri di nascosto, la chiesa ufficialmente vieta ancora la chirurgia, ma in molte parti d’Europa la scienza va avanti, e si fa fiera anche delle sue pratiche più oscure e “disturbanti”.
Mosè Viero
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