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La recente decisione del Consiglio comunale di Iseo (BS) di foraggiare le associazioni integraliste no-choice e garantire una cifra mensile per le donne che desistono dall’aborto è un segno dei tristi tempi del confessionalismo ostile ai diritti delle donne. Ma l’attacco all’autodeterminazione della donna arriva da lontano, come spiega bene la ginecologa Anna Pompili: nel clima di costante colpevolizzazione femminile intorno all’interruzione di gravidanza, anche l’emergenza coronavirus è stata usata come pretesto per limitare – se non negare – l’accesso all’aborto farmacologico.
L’emergenza sanitaria mette a rischio anche il diritto all’aborto. Che però è già sotto attacco da molto tempo, anche a causa dell’ostilità verso l’Ivg farmacologica.
Marzo 2020, l’Italia è zona rossa e gli ospedali, per ridurre i contagi, limitano gli accessi fermando tutto, tranne le urgenze; tali sono le interruzioni di gravidanza, come nota Renato Farina, che su Libero dà voce all’indignazione di coloro che vorrebbero le donne chiuse in casa comunque, non solo per il virus: «Tutto si è fermato, tranne gli aborti. Interruzioni di gravidanza considerati interventi indifferibili: il segno (triste) dei tempi».
Il virus ha imposto cambiamenti che pesano, oltre che a livello di organizzazione sanitaria, sul valore che ciascuno di noi dà al diritto di autodeterminazione: i centri Ivg continuano a lavorare, ma si bloccano o limitano gli aborti medici, per i quali le linee di indirizzo italiane impongono un ricovero di almeno tre giorni, troppi, in tempi di coronavirus. L’obbligo di ricovero fa dell’Italia un caso unico al mondo. Nel marzo 2016 l’Fda ha modificato le linee di indirizzo per l’Ivg farmacologica, cui si ispirano le nostre, raccomandando la procedura at home, più sicura ed economica. A marzo 2020 il Collège National des Gynécologues et Obstétriciens francese, per ridurre gli accessi in ospedale, raccomanda la procedura farmacologica a domicilio. Potremmo fare lo stesso in Italia, ammettendo il regime ambulatoriale ed eliminando l’imposizione antiscientifica del ricovero ordinario, come richiesto da numerose associazioni.
La limitazione indica invece come, nelle decisioni di politica sanitaria, pesino più i pregiudizi di natura confessionale che non i dati scientifici e la tutela della salute. Si preferisce sprecare risorse preziose e occupare inutilmente posti letto, nella convinzione che qualunque semplificazione porterebbe a un inevitabile aumento del ricorso all’aborto. Nulla di più falso, come confermano le relazioni ministeriali; è vero invece che il modo con cui le società affrontano il nodo dell’aborto rispecchia il modo in cui le stesse società riconoscono diritto di cittadinanza alle donne. Nel diritto all’aborto, le donne sono cittadine minori, considerate bisognose di tutela, incapaci di compiere scelte responsabili.
Ancora oggi, a oltre 40 anni dall’approvazione della legge 194, il dibattito sull’aborto è cristallizzato nello scontro sull’obiezione di coscienza e nella difesa della legge, di cui si ignora l’impostazione ideologica che fu contestata duramente da femministe e radicali. La retorica della “buona legge” ne oscura la natura di compromesso che, lasciando sullo sfondo libertà e autodeterminazione, fa iniziare la vita umana già prima della nascita. La premessa dell’art. 1: «Lo Stato […] tutela la vita umana dal suo inizio», negando alla nascita valore biologico e giuridico (l’art. 1 del codice civile recita: «la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita»), mette in contrapposizione due soggetti titolari di diritti; in tale contesto ideologico il diritto della donna prevale solo se la sua salute è a rischio. L’autodeterminazione è oscurata da una medicalizzazione che toglie valore alla scelta e a chi la compie. Accade così che in molti consultori nel percorso Ivg sia previsto comunque un colloquio psicologico, a sottolineare che se una donna vuole abortire deve per forza essere malata, se non nel fisico, certamente a livello psichico.
Il non riconoscimento del valore morale della scelta della donna si concretizza poi nell’art. 5: la richiesta di Ivg deve infatti essere validata da un medico, che rilascia il documento indispensabile per accedere alla procedura e invita la donna a soprassedere 7 giorni. Emerge qui prepotentemente la cultura dell’inferiorità delle donne, irrazionali e bisognose di aiuto, incapaci di decisioni responsabili. L’aborto è un diritto esigibile solo in relazione al diritto alla salute, un diritto “cattivo”, perché esercitato a spese della vita di un altro e basato su motivazioni irrazionali ed egoistiche, in contrasto col diritto dell’obiettore, “buono” perché basato sulla coscienza. I tentativi di bilanciamento di questi due diritti, contenuti nell’art. 9 della legge, rimangono a oggi lettera morta.
Dal 1978, anno in cui fu approvata la legge 194, la diagnostica prenatale ha fatto progressi enormi, e le immagini ecografiche alimentano le fantasie di coloro che pensano che embrione e feto siano bambini in miniatura, separati dal corpo della donna. Sono fantasie nutrite dalla mancanza di rigore scientifico nella comunicazione su questi temi, nonché da falsità mediche svendute come dati di fatto. Negli ultimi anni, in molte città italiane sono comparsi manifesti contro l’aborto, con immagini ecografiche di feti. Ann Furedi (The Moral Case for Abortion, Palgrave Macmillan, 2016, pp. 39-41) fa notare come queste immagini spostino il dibattito dall’astratto dei principi morali al reale di ciò che si vede: un feto come un bambino, vivo e separato dal corpo della donna. Ma se il feto è pensato come un individuo piccolo, l’aborto diventa un omicidio, seppure minore. È quello che pensano anche molti del fronte pro-choice, nonché molti ginecologi non obiettori i quali, per scansare l’accusa di essere assassini (più precisamente sicari, come li ha definiti papa Francesco) devono rivendicare il ruolo di coloro che applicano una legge che ha più che dimezzato il numero degli aborti. Una posizione eticamente debole, che porta con sé la domanda: se gli aborti fossero rimasti invariati, o se, addirittura, fossero aumentati, la legge sarebbe stata meno buona e le donne avrebbero meno diritto a interrompere le gravidanze non volute? Così come è debole ritenere l’aborto moralmente irrilevante sulla base della considerazione che embrione e feto, incapaci di pensieri razionali, non possono essere definiti umani se non per appartenenza alla specie. È la tesi di Giubilini e Minerva, che sostengono la moralità dell’“aborto post-nascita”: la vita è un continuum e le caratteristiche che la definiscono “umana” si acquisiscono con la comparsa del pensiero razionale, inesistente nel feto ma anche nel neonato. (Journal of Medical Ethics 2013; 39:261-263).
Tralasciando qui le considerazioni sull’inizio della vita umana, pure importanti, è innegabile che l’aborto abbia un grande peso nella vita della donna. Partendo da questa considerazione, Giuseppe Noia, presidente dell’Aigoc, chiede che il ministero della salute si faccia carico di fornire alle donne informazioni sulle gravi conseguenze dell’aborto volontario in una lettera a Qs nella quale, ripetendo le falsità che i Centri di aiuto alla vita raccontano per dissuadere le donne che vogliono abortire; alle bugie “pro-vita” rispondono sullo stesso periodico Pompili e Parachini, riportando la discussione sul piano dell’evidenza scientifica.
Se è innegabile che l’aborto ha un grande peso sulla vita della donna, esso non è in ogni caso un’esperienza dolorosa, né ha come inevitabile conseguenza la fandonia propagandistica della “sindrome post-aborto”, ma certamente per nessuna donna è moralmente irrilevante.
Con la gravidanza si stabilisce una relazione simbiotica, in cui donna ed embrione non sono separati e contrapposti e dalla quale non è possibile prescindere, come sottolinea Caterina Botti (Dai nostri corpi sotto attacco. Aborto e politica, a cura di Ilaria Boiano e Caterina Botti. Ediesse, 2019): la questione morale riguardo all’aborto non può essere affrontata se non partendo da essa, riconoscendola e dando valore al sentire profondo della donna all’interno di essa. In quest’ottica, la donna è la sola ad avere la competenza morale per compiere la scelta. Il riconoscimento di questa competenza, che dovrebbe essere alla base delle legislazioni sull’aborto, riempie di significati nuovi i concetti di ‘autodeterminazione’ e ‘libertà’, legando quest’ultima a un’idea di responsabilità che non è più quella astratta della legge («procreazione cosciente e responsabile»).
Ma riconoscere alle donne competenza, libertà e responsabilità destabilizza, inquieta, fa paura.
L’ostilità all’Ivg farmacologica sta tutta qui, nella paura di lasciare l’aborto alla donna, che è soggetto attivo, decide, fa. Il medico rimane sullo sfondo, privato del suo potere. E l’obiezione di coscienza, che in alcune aree del nostro paese costituisce un vero ostacolo all’accesso all’aborto, viene minimizzata dalla semplicità della procedura.
È per questo motivo che, a differenza degli altri paesi dove è praticato almeno fino a nove settimane, in Italia l’aborto medico è ammesso solo fino a sette settimane di gravidanza. È per questo che le donne che lo richiedono vengono sequestrate in ospedale per tre giorni e che, a dieci anni dalla sua introduzione, l’Italia è il paese con le più basse percentuali di applicazione (17,8% del totale nel 2017, a fronte, ad esempio, del 70% di Francia e Portogallo e di più del 90% della Finlandia e della Svezia). È per questo motivo che tra le femministe si sta affermando un giudizio positivo sull’aborto clandestino con i farmaci, che viene visto da molte come la riappropriazione di un potere decisionale sganciato dal controllo dello stato.
Gli aborti clandestini oggi si fanno col misoprostolo, un farmaco poco costoso e altamente efficace, lo stesso che viene utilizzato nella Ivg farmacologica dopo la somministrazione del mifepristone, o RU486; da solo è comunque in grado di indurre l’aborto, anche se con efficacia minore rispetto al regime combinato con la RU486. La sicurezza della procedura con il misoprostolo, che oggi è il mezzo più diffuso per l’aborto clandestino, ne ha cambiato il volto, rendendo anacronistiche e inadeguate non solo le lamentazioni sui pericoli per la salute, ma anche le stime che utilizzano come indicatore l’incremento di ricoveri a seguito di complicazioni (Elaborazione Istat, Verso i 40 anni dalla legge sull’aborto, 2017).
È possibile che gli aborti clandestini stiano aumentando; lungi dall’essere un atto di libertà, questa è purtroppo la risposta estrema alle difficoltà di accesso in molte aree del nostro paese, una sconfitta per la sanità pubblica. Difficile quantificarli, anche se nella sua ultima relazione al parlamento il ministro della salute riporta una stabilità del fenomeno dal 2005, con 12.000-15.000 casi/anno. Ma la stabilità dei numeri assoluti non è la stabilità del fenomeno: nel 2005 si contavano 132.790 aborti legali, nel 2017 (anno cui fa riferimento l’ultima relazione) 80.733. La cosa non preoccupa il nostro governo, per il quale a marzo 2020 l’aborto non è più un problema, tanto che la relazione al parlamento che doveva essere presentata nel 2019 non è ancora stata pubblicata, mentre il ministro di grazia e giustizia non relaziona al parlamento da ben due anni. A marzo 2020 l’Italia è zona rossa, ed è già tanto che i Centri Ivg continuino a lavorare, perché, oggi, le priorità sono altre, i diritti sono questioni per tempi di vacche grasse, ed esigerne il rispetto suona come una bestemmia. È il segno (triste) dei tempi che stiamo vivendo.
Anna Pompili
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