Il rompicapo del voto che vale doppio (e non è il nostro)

Non è passato molto tempo, da quando Rodney Stark e Massimo Introvigne pubblicarono un libro intitolato Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente. Largamente e benevolmente recensito sulla stampa nazionale, la sua tesi di fondo era che la secolarizzazione era un fenomeno osservabile soltanto in Europa – e nemmeno tutta. Una sorta di eccezione a una regola universale, insomma: e comunque temporanea, perché il sacro stava tornando di moda. A sostegno della loro tesi gli autori portavano l’esempio degli Stati Uniti, rimasti imperturbabilmente e graniticamente cristiani. Un paese, citava Antonio Socci, dove, «nonostante l’immensa popolarità della scienza e l’alto livello di istruzione, la religione non mostra alcun segno di declino».

Epic fail.

Sfortunatamente per loro, non soltanto la secolarizzazione è andata ulteriormente avanti in Europa, ma anche negli Usa è progredita, e in modo addirittura sorprendente. Oggi, quasi uno statunitense su tre non entra mai in chiesa, e i “senza religione” sono diventati maggioranza relativa. I segni del declino religioso c’erano già, a guardar bene: quando si è accecati dalla fede, non c’è però alcuna possibilità di scorgerli.

Da un punto di vista politico vi sono notevoli differenze tra i tre grandi raggruppamenti religiosi in cui si suddividono gli statunitensi. Secondo un’inchiesta del Pew Research Center, i “senza religione” risultano indiscutibilmente i più pro-Biden: 71%, contro il 22% a favore di Trump: se lo sfidante è dato globalmente in vantaggio 52% contro il 42%, dunque, è soprattutto grazie a loro. I cattolici scelgono infatti il cattolico Biden in misura minore: il 51% contro il 44% (e i cattolici bianchi sono addirittura, con la percentuale pressoché inversa, a favore del magnate). I protestanti si dichiarano invece per il presidente uscente al 54%, contro il 41% per Biden: un rapporto che diventa uno schiacciante 78%-17% tra gli integralisti bianchi.

Se dunque è comprensibile perché Trump non faccia nulla per convincere l’elettorato non credente, suscita qualche perplessità il fatto che anche Joe Biden, mostrandosi un po’ irriconoscente, corteggi esclusivamente i credenti. Con le dovute differenze, è una situazione che conosciamo bene anche in Italia, dove i “senza religione” sono ormai un quarto della popolazione e hanno caratteristiche e opinioni simili a quelle dei loro omologhi d’oltreoceano. E quindi ci dovremmo porre la fatidica domanda: perché anche i politici liberali o progressisti snobbano atei e agnostici?

Lo sappiamo bene, la religione rappresenta una forza plurimillenaria infinitamente più potente della nostra. Un potere estremamente concreto, tra l’altro, come attesta una recente ricerca Onu: le comunità di fede possiedono l’8% delle terre abitabili del pianeta, il 5% delle sue foreste commerciali e il 10% delle istituzioni finanziarie. Chi ne fa parte ha inoltre un’attitudine estremamente più spiccata ad accogliere i suggerimenti delle gerarchie e a votare compattamente chi si schiera dalla loro parte. Ma non è tutto, purtroppo.

C’è da considerare anche il fatto che un sostegno tanto forte finisce paradossalmente per risultare controproducente. I politici liberali e progressisti sembrano infatti trarne queste conclusioni: «il voto dei non credenti a mio favore è pressoché garantito. Se mi mostro troppo baciapile posso perdere il voto di un elettore che, molto probabilmente, si rifugerà nell’astensione. Ma se conquisto il voto di un credente, il suo voto vale doppio, perché lo rubo al mio avversario».

A riprova, in campagna elettorale Biden non sta ignorando solo i non credenti, ma anche gli elettori dei grandi stati democratici come New York e California (dati già per vinti), per concentrarsi invece sui cosiddetti swing states, quelli in bilico, dove il voto vale per l’appunto doppio. Tuttavia, se sarà eletto, nel corso dei prossimi quattro anni Biden si recherà comunque spesso sia a New York, sia in California. Per contro, l’attenzione del Partito democratico nei confronti dei non credenti è storicamente scadente qualunque sia la stagione: nell’attuale congresso, un solo eletto (Jared Huffman) è dichiaratamente “senza religione”.

Inoltre, se questo ragionamento fosse vero per atei e agnostici, dovrebbe essere vero anche per chi si colloca sul fronte opposto. E invece, sia Trump, sia il duo Meloni-Salvini coccolano amorevolmente i fondamentalisti cristiani, appoggiando apertamente le loro posizioni antilaiche.

Certo, qualcosa abbiamo da imparare anche da loro. Ma c’è dell’altro che probabilmente non vogliamo (giustamente) imparare: avere una doppia morale. Per restare a casa nostra, basti ricordare l’opusdeista Paola Binetti, che al suono del suo cilicio fece ballare più volte il governo Prodi, o il super-ciellino Gabriele Toccafondi, che sostiene il governo Conte – ottenendo in cambio centinaia di milioni per le scuole private cattoliche. I loro interessi vengono quasi sempre prima del loro stesso integralismo.

«Parigi val bene una messa», disse Enrico IV. Quattro secoli dopo, trovare alternative politiche al clericalismo rimane difficile. Come ci ammonisce un noto problema sociologico, essere integerrimi porta spesso a farsi fregare dagli ipocriti sleali. La soluzione, pare di capire guardando ad altri paesi europei, si potrà avere soltanto sul lungo periodo, con ulteriori e robuste iniezioni di secolarizzazione e di laicità. E, quindi, di impegno. Altrimenti ci fregheranno nuovamente, molto tempo prima di arrivarci.

 Raffaele Carcano

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4 commenti

Diocleziano

«…E quindi ci dovremmo porre la fatidica domanda: perché anche i politici liberali o progressisti snobbano atei e agnostici?…»

Penso che sia perché un politico non si spreca a inseguire chi già vota per lui; diversamente dai credenti, i quali sono avvezzi alle manipolazioni e quindi più sensibili ai richiami irrazionali, dovendo conciliare politica e religione. Questo tipo di ‘irrazionalismo’ è espresso benissimo da Salvini e dalla Meloni.

G. B.

E se quelli che tradizionalmente hanno finora votato per loro si stufassero e restassero a casa? Sembra che nelle più recenti consultazioni elettorali in vari paesi occidentali ad astenersi siano stati in maggior misura i progressisti delusi, che hanno in questo modo favorito indirettamente i conservatori, verso i quali tuttavia non avevano nessuna simpatia.

Michael Gaismayr

«il voto dei non credenti a mio favore è pressoché garantito. Se mi mostro troppo baciapile posso perdere il voto di un elettore che, molto probabilmente, si rifugerà nell’astensione. Ma se conquisto il voto di un credente, il suo voto vale doppio, perché lo rubo al mio avversario».
Se ensiamo di applicare lo schema di cui sopra all’Italia, sulle circostanze “pressoché garantito” e “molto probabilmente” ho delle riserve.
Primo: “pressoché garantito” è un’ipotesi su qualcuno che si conosce poco, soprattutto perché non si fa sentire.
Secondo: “si rifugerà nell’astensione” è una pessima fine, del tutto perdente, e quasi peggio che votare per i conservatori, a chi può piacere?
Il problema vero è che non esiste un partito o movimento dei non-affiliati che si faccia sentire ad alto volume, e che metta in gioco i propri voti in maniera utile.

RobertoV

Penso che la differenza stia nel fatto che le religioni, soprattutto le più potenti, seguono logiche di gruppo e di lobby e sono più facilmente condizionabili, organizzate ed aggressive, mentre i non credenti sono frammentati ed individualisti (basta vedere quanti pochi affiliati hanno le varie associazioni di non credenti rispetto a quelle cristiane). Inoltre le nostre società danno ancora troppi vantaggi alle religioni e ne conservano molte strutture ereditate da un passato liberticida, mentre i non credenti sono poco combattivi e rassegnati a tale situazione e ne subiscono l’egemonia culturale e propagandistica, accontentandosi di ricavarsi spazi individuali.
Penso, inoltre, che un ateo difficilmente voterebbe per un politico ateo perchè ateo, a prescindere dal resto, mentre per molti credenti il fatto che il politico sia credente (o finga di esserlo) può essere criterio di scelta.

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