Che cos’è la laicità?

Vi proponiamo un articolo dal n.2/2020  del bimestrale dell’Uaar, Nessun Dogma – Agire laico per un mondo più umano. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.


Esistono tante opinioni diverse. Ma forse è soltanto un problema di comunicazione.

Cominciamo con un dato di fatto nudo e crudo. Non esiste una definizione condivisa di laicità. Non esiste nemmeno tra i laici, e persino l’Uaar non ne ha mai adottata ufficialmente una. Ognuno di noi ne dà una propria versione, pensando che sia condivisa da tutti gli altri. Se l’autodeterminazione è un cardine della laicità, beh, si può dire che comincia dalla definizione stessa.

La parola ha un secolo e mezzo di vita. La sua origine è francese come il suo divulgatore: il protestante Ferdinand Buisson, futuro vincitore del premio Nobel per la pace, che la cominciò a utilizzare per indicare la separazione tra stato e chiesa (cattolica, nel contesto transalpino). Ma basta uscire dal recinto delle lingue neolatine perché la faccenda immediatamente si complichi: l’alternativa inglese secularism fu coniata già nel 1851 dall’attivista George Holyoake. Che, a differenza di Buisson, cercava invece un termine capace di superare non soltanto la morale religiosa, ma lo stesso ateismo.

Col tempo, tanto ‘laico’ quanto ‘secularist’ hanno finito per significare sia l’allontanamento delle istituzioni sia quello personale dalla religione, creando così una notevole confusione in chi legge o ascolta. Il filosofo Giovanni Fornero ha proposto di risolvere il problema definendo tali atteggiamenti, rispettivamente, «laicità debole» e «laicità forte», ma ben pochi hanno ritenuto tale approccio la strada migliore. La maggioranza dei cittadini, quando sente evocare la parola ‘laicità’, non va probabilmente oltre la vaga sensazione che ci sia in ballo qualcosa che dà fastidio ai religiosi. Se le cose stanno effettivamente così, tutto sommato potremmo anche accontentarci. Per ora.

La chiesa cattolica, che un certo peso nel nostro paese ce l’ha, dal dopoguerra ha iniziato a presentare la laicità in contrapposizione con il laicismo, che a suo dire non sarebbe altro che la degenerazione estremista, persino fondamentalista della «sana laicità». I vocabolari italiani non ascoltano la chiesa (almeno loro), e danno spesso ‘laicismo’ come semplice sinonimo di ‘laicità’. Quando forniscono la definizione, però, rimangono quasi sempre fermi all’accezione originaria francese, e quindi al concetto di separatismo tra stato e chiesa: un orizzonte ormai circoscritto, e non soltanto dall’uso in funzione di sinonimo (meno urtante) di non credenza. È inutile limitarsi alla chiesa, quando nel mondo occidentale si praticano migliaia di culti con le più disparate origini. E se è già poco comprensibile in occidente cosa sia la laicità, figuriamoci altrove. In Turchia hanno adottato ‘laiklik’, ma in hindi si usa ‘adharma’, che letteralmente si traduce «senza legge», mentre in arabo si predilige ‘ilmaniya’, che significa però «pensiero scientifico».

Lo stesso separatismo, poi, quanto è realmente laico? La Francia è separatista, ma finanzia le scuole religiose. Gli Usa sono separatisti, ma affermano in modo sonante la “loro” fede in dio sui dollari. Entrambi gli stati non riconoscono l’eutanasia, ma sfido chiunque a sostenere che l’eutanasia non è un’istanza laica. E quanto era laica l’Unione Sovietica, in cui la libertà di espressione era severamente repressa? Come definiamo il Bangladesh, la cui costituzione dichiara, contemporaneamente, che lo stato è laico ma ha una religione di stato, l’islam? E a quale parola possiamo ricorrere per descrivere i rapporti tra politica e religione nell’antica Roma, esistita millenni prima dell’invenzione del termine ‘laicità’, ma che sapeva benissimo distinguere tra sacro e profano?

Tuttavia, gli esseri umani non hanno di norma sottomano un vocabolario quando sentono parlare di laicità. Il problema non è dunque la definizione. Il problema, se pensiamo alla laicità come a un principio importante che deve essere fatto proprio da tutti, è che da tutti deve essere percepito chiaramente allo stesso modo. È una questione che va affrontata, se vogliamo efficacemente batterci per la laicità.

Benché ‘laicità’ sia parola di origine europea, e benché le storie della laicità la facciano generalmente nascere con il trattato di Vestfalia del 1648, che pose fine alle guerre di religione che imperversavano nel continente, il problema dei rapporti tra le autorità politiche e le autorità religiose è sempre esistito, in ogni tempo e in ogni luogo, per quanto in forme diverse. Pensiamo all’India, la cui costituzione menziona la laicità e le cui autorità l’hanno sempre interpretata come la ricerca della pacifica convivenza di religioni diverse, e quindi senza sostanziali soluzioni di continuità in una storia ormai trimillenaria (almeno finora, visto che al potere c’è adesso un integralista, il premier Narendra Modi). Non ci è di alcuna utilità presentare come occidentale una contesa che non lo è e che non lo è mai stata: la laicità è una questione universale. E questo messaggio deve arrivare allo stesso modo a tutti: credenti e non credenti, occidentali e non occidentali.

Non basta, ovviamente. In tanti si definiscono laici anche senza esserlo: Ratzinger, per esempio. Bergoglio si è addirittura dichiarato anticlericale. Facendosi beffe dei tanti che non solo si dichiarano laici, ma che compiono tanti sforzi per raggiungere obbiettivi indubbiamente laici. Questa confusione intenzionale non esisterebbe proprio, se il concetto di laicità fosse percepito da tutti allo stesso modo. Una buona base di partenza esiste, però: le buone ragioni che uniscono i laici, e che li spingono ad agire in associazioni che sono l’espressione democratica delle loro istanze. Un elenco lungo e condiviso: nessuna ingerenza religiosa nelle istituzioni, nessun privilegio (economico e non) a loro favore, libertà di espressione, sostegno alla scienza, “nuovi” diritti quali aborto, eutanasia e nozze gay, e via di questo passo.

Come sintetizzare tutto questo in poche ed efficaci parole? La mia modesta proposta è di concentrarsi su tre direzioni: la libertà (delle istituzioni, delle religioni, delle persone), l’uguaglianza (pari diritti per tutti a prescindere dal genere, dall’orientamento sessuale e dall’appartenenza, religiosa o no) e la realtà (l’aderenza ai dati di fatto, il rifiuto di credenze indimostrate e di argomentazioni fallaci). È un tentativo per risolvere il paradosso di una laicità sempre meno conosciuta, ma sempre più apprezzata quando si va a verificarne i contenuti. Perché libertà, uguaglianza e realtà sono ritenuti valori positivi da gran parte dell’umanità. Anche dai credenti.

Che spesso hanno invece qualche difficoltà a definirsi «laici». Difficoltà che gli creiamo noi, o perlomeno molti di noi: tutti coloro che, anziché definirsi atei, agnostici o genericamente non credenti, preferiscono definirsi «laici» per affermare che non credono in dio. I credenti possono condividere le istanze laiche, ma non vogliono essere scambiati per atei – con il rischio, in alcuni paesi, di finire davanti a un plotone d’esecuzione. Se vogliamo che ogni essere umano capisca che un mondo laico è un mondo migliore, facciamolo sentire a suo agio anche se è credente. Anche perché non possiamo pensare di far approvare leggi laiche senza che una buona parte di chi si dichiara credente si collochi dalla nostra stessa parte.

Spesso non agiamo soffermandoci su questo aspetto. Per esempio: quante volte diciamo che la religione deve essere un fatto privato? È giusto e corretto dirlo, ma dirlo in questo modo è anche parziale e controproducente, perché ai credenti diamo l’impressione che li vogliamo confinare nelle catacombe. La laicità può invece rappresentare per ogni credente la miglior garanzia di essere libero di praticare pubblicamente la sua fede. Perché non ci limitiamo a dire che non vogliamo che la religione sia anche un fatto istituzionale?

Certo, la laicità costituisce una vera e propria sfida per le gerarchie religiose: pretende che rinuncino ai loro privilegi e che combattano senza il sostegno statale, facendo valere soltanto le loro argomentazioni. Ma, a ben guardare, è una sfida anche per gli atei, soprattutto quelli più estremisti: è la miglior tutela per la sopravvivenza delle religioni.

La buona notizia è che una parte crescente della popolazione mondiale, in Italia addirittura maggioritaria, pensa che sia meglio evitare intromissioni dell’autorità religiosa nell’attività di governo. Mi sembra un’ottima base di partenza per un impegno laico che non sia elitario, ma di massa. Recuperando così il suo antico significato: laikòs, in greco, indicava chi faceva parte del popolo – anche se poi è stato utilizzato dai sacerdoti cristiani per disprezzare chi non apparteneva ai loro ranghi. Con una laicità di popolo le istanze laiche conteranno di più e potranno più facilmente diventare realtà. E magari troveranno anche più attivisti.

Perché il movimento laico sembra una eloquente dimostrazione del paradosso di Olson, che si ha quando le persone, nonostante abbiano interesse ad agire insieme, non lo fanno, perché non vogliono sprecare tempo ed energie e confidano di non patire le conseguenze dell’inazione. Quante volte abbiamo sentito dire «tanto ci penserà qualcun altro»? Il risultato, come scrive Gerald Bronner nel libro La democrazia dei creduloni, è che tali situazioni «sono sempre favorevoli ai gruppi, anche assolutamente minoritari, che sono motivati a imporre il loro punto di vista».

La laicità pura non si è mai realizzata da nessuna parte. Forse è un obbiettivo lontano. O forse è proprio irraggiungibile, perché non è un testo sacro, i tempi cambiano e le convinzioni evolvono. Ma cercare di ottenerla rappresenta comunque un impegno nobile, perché è uno strumento decisivo per rendere il mondo migliore. Tranne i privilegiati, chiunque ha da guadagnarne. Dobbiamo trovare la maniera migliore per farglielo capire.

Raffaele Carcano


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