Vi proponiamo un articolo dal n.6/2020 del bimestrale dell’Uaar, Nessun Dogma – Agire laico per un mondo più umano. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Un passo avanti per i diritti riproduttivi delle donne italiane.
Aborto farmacologico: finalmente il Ministero della salute ha diramato le linee guida che uniformano l’Italia alla maggior parte dei paesi occidentali. Le Regioni ci avevano stressato con improvvisi arretramenti o applauditi avanzamenti, ora finalmente avremo un po’ di logica e uniformità. Niente di straordinario, a ben guardare, si tratta dell’adeguamento di modalità e tempistiche della somministrazione della Ru486 alle documentate evidenze scientifiche internazionali.
Dal 12 agosto 2020 in Italia è annullato l’obbligo di ricovero per l’interruzione volontaria di gravidanza farmacologicamente indotta ed è esteso l’uso del farmaco fino alla nona settimana. Non esattamente un’improvvisazione estemporanea del ministro Speranza, considerato che le linee guida sono state emanate sulla base di una raccomandazione formulata dall’Organizzazione mondiale della sanità, di un parere del Consiglio superiore di sanità e di una determina dell’Agenzia italiana del farmaco. Una delle poche impreviste conseguenze benefiche dell’emergenza sanitaria da Covid? Può darsi. Non è difficile immaginare quanto sia stata ulteriormente complicata la faticosa trafila per interrompere volontariamente una gravidanza da quando la pandemia ha fatto irruzione nella nostra vita. In alcuni casi l’aborto è stato considerato pratica sanitaria non essenziale e non prioritaria, in altri è stato rallentato dal rischio contagio negli ospedali. Evidentemente chi lavora nel campo si è reso conto che deospedalizzare l’aborto farmacologico avrebbe costituito un alleggerimento dell’affollamento dei nostri ospedali oltre che un tardivo e improrogabile adeguamento alle solide evidenze scientifiche emerse dal 2010 – data delle ultime linee guida sul tema – a oggi. Compiaciamoci di questo allineamento italiano ai paesi più avanzati, augurandoci soprattutto che le nuove norme favoriscano nel nostro paese il ricorso alla Ru486, colmando il divario con l’Europa. Due numeri: in Finlandia il 93% degli aborti è farmacologico, in Italia il 20%.
La norma amplia il ventaglio delle scelte che la donna che decide di abortire può operare di concerto con il medico. Un altro passo verso il diritto alla maternità libera e consapevole, diritto che le donne hanno conquistato in Italia da quarantadue anni, che viene esercitato con fatica e che non dobbiamo fare l’errore di considerare scontato.
Le forze conservatrici e retrive che mettono l’embrione davanti alla vita della donna, infatti, non si sono di certo arrese; hanno colto anche questa occasione per riprendere la squallida propaganda che si autodefinisce “ProLife”. Ecco il parere espresso dal presidente di Scienza e Vita e prorettore vicario dell’Università europea di Roma: «Si aggira il fatto che l’interruzione della gravidanza vada eseguita in condizioni di sicurezza per la donna, prevedendo la legge 194 il ricovero fino all’interruzione della gravidanza che nell’aborto chirurgico coincide con l’asportazione del feto (…) Consentire invece che la pillola Ru486 sia somministrata in ospedale e poi la donna possa uscirne ed espellere l’embrione-feto in privato e in totale solitudine, con rischi di gravi e fatali emorragie, è un modo per ridurre la portata della norma di garanzia per la donna». Si noti il riferimento specioso alla sicurezza e alla salute della donna, il passaggio minaccioso sulle gravi e fatali emorragie, ma soprattutto il paternalistico riferimento incidentale alla condizione di “totale solitudine” alla quale la donna andrebbe automaticamente incontro uscendo dalla struttura sanitaria.
Non si prende nemmeno in considerazione l’ipotesi che in quei giorni, in cui l’ospedalizzazione non è necessaria, la donna possa essere accolta e sostenuta da figure presenti nella sua cerchia affettiva o possa decidere, liberamente e consapevolmente, di vivere da sola l’esperienza. L’Avvenire commenta, buonista e flautato: «non c’è alcuna conquista di civiltà nel togliere tutele alle donne e fare dell’aborto un fatto privatissimo». E fin qui ci si camuffa con le apprensioni per la salute della donna indifesa e sostanzialmente sprovveduta. Marina Casini, presidente nazionale del Movimento per la vita, si rivolge a un altro target, di integralisti evidentemente, e al sito Vatican News dichiara: «Siamo di fronte a una provocazione che ha uno scopo ideologico: quello di rendere l’aborto un fatto tanto banale – basta in fondo bere un bicchiere d’acqua – da far dimenticare che c’è in gioco la distruzione di un essere umano nella fase prenatale della propria vita». L’essere umano reale, che si trova nel pieno della propria vita – la donna – è del tutto insignificante, un mero contenitore, se ne deduce! Sulla pagina web non manca un po’ di terrorismo per immagini per lettori distratti: un feto stilizzato galleggiante in un utero a forma di bocciolo di fiore!
Atteggiamenti e prese di posizione pericolosi in quanto parte dell’incessante e subdolo attacco globalizzato alle conquiste di libertà delle donne.
Torniamo a noi, con le interessanti considerazioni della dottoressa Alessandra Kustermann, primaria del Policlinico di Milano, direttrice del Pronto soccorso ostetrico-ginecologico, fondatrice del centro antiviolenza Soccorso violenza sessuale e domestica. In un’intervista rilasciata a Giada Giorgi sul sito di Open la dottoressa Kustermann fuga ogni dubbio sull’aborto farmacologico: «La scelta ritenuta ideologicamente colpevole ha sempre “meritato” un metodo ritenuto più duro rispetto a quello che prevede l’assunzione di un farmaco, ovvero quello chirurgico. Ritenuto, tra l’altro, clinicamente il più sicuro, ma non è così: tutta la letteratura scientifica ha sempre dimostrato che intervenire con uno strumento chirurgico aumenta la possibilità di infezioni, di lacerazioni dell’utero, di complicanze, compreso il rischio di sterilità». E aggiunge «Sono d’accordo sui grandi miglioramenti che queste linee guida simboleggiano anche dal punto di vista culturale, ma la rivoluzione vera non è questa. Una svolta pratica e altrettanto utile consisterebbe nel riuscire a fornire un metodo contraccettivo efficace che tuteli la salute delle donne che lo assumono. Rendere le donne libere dalle gravidanze indesiderate: è questa la vera rivoluzione. E non ci siamo ancora arrivati».
Parole, queste ultime, che offrono un’altra prospettiva alla lotta per i diritti di autodeterminazione, evidenziando la valenza politica delle scelte di finanziamento della ricerca scientifica, meritevoli di ampie analisi e più attenti monitoraggi, rivelatori delle strategie di governi e poteri forti.
Anna Bucci
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“Il paternalistico riferimento incidentale alla condizione di ‘totale solitudine’ alla quale la donna andrebbe automaticamente incontro uscendo dalla struttura sanitaria.”
“Non lasciamoli soli” è ormai diventato un mantra per dire: ficchiamo il più possibile il naso negli affari degli altri, esercitiamo ogni forma di pressione per limitare la loro libertà.
Si pensi anche ai malati terminali, che non devono essere “lasciati soli”, cioè liberi di mettere fine alle proprie sofferenze; non lasciamo soli i gay, cioè impediamogli di vivere liberamente la loro sessualità, etc.; penso che ognuno potrebbe aggiungere altri esempi.
L’espressione potrebbe interessare anche agli studiosi di linguistica nell’ambito di un aggiornamento degli studi sulla semantica dell’eufemismo.
Infatti le frasi sono autoreferenziali, cioè rivolte al loro gregge, il quale dovrebbe occuparsi di non lasciare che alcuno prenda decisioni indipendenti.
Non sono gli interessati a dire “Non lasciatemi solo”, che, nel caso lo facessero, non troverebbero certamente l’aiuto sperato tra quei fondamentalisti.
Semantica dell’eufemismo = tuttologia, ovvero, quello che loro chiamano “magistero della chiesa”: parlare di tutto, specialmente se non ha nessun rapporto con la realtà.
@ Diocleziano
Semantica dell’eufemismo è il sottotitolo di un bellissimo libro degli anni ’60 del Novecento: Nora Galli De’Paratesi, Le brutte parole. Anche se il titolo potrebbe far pensare cose strane, si tratta di un’opera serissima, nella quale l’autrice spiega come il linguaggio tenda a sostituire in continuazione con degli eufemismi i termini che rinviano a cose sgradevoli (morte, malattie gravi, escrementi, ritardo mentale) o ritenute tabù, come il sesso. Non mi risulta sia stato ripubblicato, io purtroppo l’ho perso, forse si trova in alcune biblioteche.
Cordiamente.