Tante buone ragioni per agire (bene)

Vale la pena impegnarsi in un’associazione come l’Uaar. Perché significa impegnarsi per cambiare in meglio il mondo. Lo spiega Raffaele Carcano, già segretario Uaar dal 2007 al 2016, in questo articolo del numero 1/2020 della rivista Nessun Dogma, di cui ora è il direttore.

Per leggere tutti i numeri della rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.


Partiti politici. Ideologie economiche. Sindacati. Chiese. Istituzioni sovranazionali. La stessa democrazia. Ovunque volgiamo lo sguardo, possiamo cogliere segnali inequivocabili di crisi — al punto che sono sempre più numerosi i moralisti che ci campano sopra. E noi, come ce la passiamo? Ha ancora senso iscriversi a un’associazione di atei e agnostici? E diventarne attivisti?

Se la crisi dell’impegno sta diventando una faccenda seria in tante realtà così importanti, noi, frequentemente accusati di occuparci di questioni marginali (se non peggio), dovremmo addirittura restarne travolti. E da parecchio tempo. Georges Minois, autore due decenni fa della più autorevole Storia dell’ateismo mai pubblicata, riteneva che dovessimo addirittura essere sull’orlo dell’estinzione. Per troppo successo. A suo parere, «più ci sono atei, meno i gruppi di atei hanno giustificazione. Quando un’idea diventa un’evidenza condivisa da un gran numero di persone non c’è più interesse a difenderla associandosi. Chi immaginerebbe, per esempio, gruppi di oppositori alla pratica del salasso?».

Il suo ragionamento contiene almeno due pecche. La prima, banale, è che di pratiche mediche non efficaci ne esistono ancora oggi, e che i gruppi che le criticano sono più che mai necessari. La seconda, è che il suo ragionamento può essere valido soltanto per le associazioni atee antireligiose. Che in effetti sono praticamente scomparse: anzi, erano pressoché sparite già quando Minois scriveva il suo libro. Il numero degli associati alle organizzazioni ateo-umaniste, oggi, è invece ben maggiore rispetto al 1998. Che sia un tema centrale lo dimostra tuttavia anche la domanda che il famoso giornalista Timothy Garton Ash, nel suo recente libro Libertà di parola, ha posto a chi, come lui e come quasi tutti noi, si dichiara sia ateo, sia laico: «Esiste un problema di priorità: è più importante per te personalmente contestare il contenuto della fede oppure promuovere condizioni in cui tutti i credenti (e i non credenti) possano competere liberamente e pacificamente?».

È una domanda che ogni tanto dovremmo effettivamente porci. Anche se la risposta è pressoché scontata. Quasi tutte le associazioni ateo-umaniste non incentivano il proselitismo. E non soltanto perché non funziona (in fondo, il disincanto si sta diffondendo in maniera spontanea). Convincere le persone a far proprie le idee del loro interlocutore, quando sono agli antipodi, richiede capacità fuori dal normale, come mostrano gli studi di Leon Festinger sulla dissonanza cognitiva o quelli sul bias di conferma. L’essere umano, di fronte a pensieri — e dati di fatto! — che contraddicono le sue opinioni, tende a riformularli, a forzarli, a “razionalizzarli” pur di farli rientrare comunque nella sua cornice ideologica, che resta dunque inalterata (si legga anche l’intervista a Silvia Bencivelli qualche pagina più in là). Ovviamente, tra di noi non manca chi ricava piacere personale dall’interessarsi alle questioni interne delle comunità di fede, addirittura più di quanto lo faccia il credente medio. I sondaggi che dimostrano che gli atei, in materia religiosa, sono più informati degli stessi fedeli non dovrebbero però costituire una medaglia da appuntarsi al petto: allo stesso tempo dimostrano che hanno anche parecchio tempo a disposizione.

Tuttavia, se la secolarizzazione avanza autonomamente, è soltanto perché oggi sussistono le condizioni che le consentono di avanzare autonomamente: libertà di espressione, sicurezza esistenziale, istruzione diffusa e (relativo) benessere. Sono condizioni che nessuno può considerare garantite per sempre. Banalmente, c’è da lavorare, e molto, anche soltanto per continuare a garantirle. E non finisce ovviamente qui. Se vivessimo in un mondo migliore, se il mondo girasse alla perfezione, se tutti i governi facessero il loro dovere, non ci sarebbe bisogno dell’Uaar — e non ci sarebbe nemmeno bisogno di qualunque altra organizzazione non governativa. Ma è ben difficile che ci arriveremo mai. E nel frattempo?

Nel frattempo, se consideriamo fondamentali i diritti conseguiti dall’illuminismo in poi, se riteniamo importante progredire ancora, è indispensabile il contributo di tutti, piccolo o grande che sia. La laicità è un requisito imprescindibile per il mondo ideale che ognuno di noi si è costruito nella propria mente. Ed è difficile dissentire da Garton Ash: in un mondo ideale, tutti i credenti e tutti i non credenti competono liberamente e pacificamente, e tutti si impegnano a mantenere le condizioni affinché questa competizione libera e pacifica continui senza ostacoli.

Ciò che però Garton Ash non considera è che i credenti sono poco laici o, per essere più precisi, sono poco disposti a impegnarsi per la laicità. Come se non bastasse, anche l’impegno di atei e agnostici non è assolutamente universale. Siamo abituati a pensarla a modo nostro ed enfatizziamo la nostra suprema libertà di scelta — senz’altro buone pratiche che, peraltro, sono ampiamente promosse anche dalle associazioni di cui probabilmente fate parte e dalla rivista stessa che avete fra le mani. Non è tuttavia esattamente facile, con tali presupposti, raggiungere una massa critica adeguata.

Nell’ottocento le élite anticlericali e massoniche dichiararono una guerra politico-culturale alle confessioni religiose, ma è sotto gli occhi di tutti quanto uno scenario del genere sia superato da almeno un secolo. Nel novecento la stessa guerra è stata combattuta a rimorchio di ideologie politiche che hanno imposto l’ateismo di stato, e l’esito si è rivelato non solo più negativo, ma persino tragico. Oggi le associazioni dei non credenti rifiutano qualsiasi ricorso al braccio armato della legge o della polizia. Amano argomentare, e argomentare positivamente. Ma si trovano comunque davanti non solo il problema di come trasmettere al mondo questo approccio “positivo”, ma anche l’esigenza di evitare altri due rischi consistenti. Il primo è di sembrare a loro volta una chiesa: senza divinità e precetti, d’accordo, ma comunque con affermazioni apodittiche, incomprensibili al di fuori della loro nicchia. Il pianeta non ha bisogno di un nuovo clan e di nuovi capitribù che calano la propria verità dall’alto. Su quello stesso pianeta vive ormai circa un miliardo di increduli, e 999 su 1000 di loro non sono iscritti ad alcun gruppo organizzato di increduli. I quali hanno dunque una necessità diametralmente opposta: trovare una strategia che proceda anche dal basso verso l’alto.

Il secondo rischio è antitetico al precedente: diventare follower del trend della new age, celebrandone il think positive. Non è sposando acriticamente i temi di maggior successo del momento (come per esempio l’ecologia) che si contribuisce a un mondo migliore. Chi li apprezza troverà sempre organizzazioni più adatte in cui coltivarli; chi nutre dubbi sull’opportunità di uscire dal seminato si farà passare la voglia di impegnarsi anche sui temi che più ci stanno a cuore.

Vi sono infatti già tante buonissime ragioni per impegnarsi in un’associazione di non credenti. Innanzitutto, lottare per i loro diritti. Sembra poco, ma è tantissimo: ancora oggi, in nessun angolo del globo è mai stata ottenuta la piena parità giuridica. E ancora più lontana è la piena dignità culturale del loro pensiero: che non ha nulla da invidiare alle morali religiose, anzi, ma continua a soffrire di un esteso discredito che è difficile abbattere e che trasuda da quasi tutti i mezzi di informazione. Dulcis in fundo, l’azione per avere istituzioni laiche. Perché costituisce la migliore garanzia per ottenere i due obiettivi appena citati — e molti altri ancora!

Se questi obiettivi sono condivisi, la strada più promettente per farli diventare realtà è quindi quella di condurre iniziative per i diritti di atei e agnostici (perché nessun altro le porta avanti) e di stare al fianco di chi è impegnato in campagne laiche specifiche (diritti gay, donne, fine vita, scienza, eccetera). Sugli altri temi “di moda” possiamo sempre trovare la maniera di presentare il nostro punto di vista, laico e razionale. Purché sia evidente che è il nostro. La chiarezza e la semplicità sono sempre premianti.

Sappiamo che, sia nel mondo ateo, sia nel mondo laico, gli attivisti hanno le caratteristiche più disparate. Ma anche questo aspetto può trasformarsi in un elemento trainante, se promosso con oculatezza. Se persone agli antipodi su tante questioni agiscono insieme su una questione specifica, forse quella questione è meritevole della massima considerazione. L’unione fa la forza, e «uniti nella diversità» potrebbe essere un’impostazione efficace per proporci. Soprattutto se si enfatizzano le ragioni dell’unità anziché quelle della diversità.

Una società in cui la legge è veramente uguale per tutti, in cui non si privilegia o discrimina nessuno in base alla casacca religiosa (o atea) che indossa, in cui le decisioni politiche sono prese razionalmente, è una società che piacerebbe a larga parte dell’umanità. Perché sarebbe la migliore società per chiunque, in quanto ognuno vedrebbe realmente rispettata la propria identità, la propria dignità, e si sentirebbe a casa sua. Non ci facciamo caso, ma i laici si fanno carico di un lavoro a beneficio di tutti.

Durante la prima assemblea dell’Uaar il fondatore, Martino Rizzotti, segnalando i tentativi in corso di creare «un fronte religioso su scala planetaria», invitò i soci a collocarsi in prima linea sul «fronte opposto, quello delle concezioni razionali, moderne ed autenticamente democratiche». Un fronte che oggi è predominante, anche se non ce ne rendiamo conto: se avete mai scorso uno di quegli elenchi che vengono periodicamente compilati sui personaggi internazionali più influenti e autorevoli, raramente troverete zelanti fedeli. Che non sia un fenomeno ristretto alle élite lo dimostrano la crescita numerica dei non credenti, la liberalizzazione degli stili di vita e il progresso (per quanto non sempre lineare) dei diritti laici. Tanto da pensare che oggi stiamo solamente incarnando la futura normalità. Anzi, l’unica normalità possibile nell’unico mondo possibile che sia di gran lunga migliore dell’attuale.

Le nostre idee hanno un seguito di massa. La necessità di una certa distanza tra leader religiosi e istituzioni pubbliche è già ora condivisa dalla maggioranza degli umani, così come il rifiuto di autorità invadenti, nelle amministrazioni pubbliche e nella vita privata. Libertà, eguaglianza, ragione sono valori che accomunano gran parte dell’umanità, tanto che nemmeno gli alfieri più estremisti del pensiero unico, della prevaricazione e dell’irrazionalità hanno il coraggio di battersi esplicitamente nel loro nome. La popolazione mondiale è sempre più giovane (anche se non in occidente), e i giovani sono sempre più secolarizzati (anche se soprattutto occidente). Con le dovute cautele, possiamo dunque pensare che il futuro potrà realmente essere roseo.

Se le nostre idee sono già di massa, è però forse venuto il tempo di rinunciare a fare ragionamenti di nicchia e di cominciare invece a rivolgerci all’intera umanità, parlando un linguaggio comprensibile da chiunque. È necessario agire, ma le premesse per agire bene non mancano. Perché stiamo dalla parte giusta della storia? Forse. E forse stiamo anche dalla parte migliore dell’era attuale. Insieme, possiamo tutti renderla ancora migliore.

Raffaele Carcano

2 commenti

Diocleziano

«…Nell’ottocento le élite anticlericali e massoniche dichiararono una guerra politico-culturale alle confessioni religiose, ma è sotto gli occhi di tutti quanto uno scenario del genere sia superato da almeno un secolo…»

Non so se sia superato, ma certamente quella guerra non fu portata a compimento.

RobertoV

Nell’ottocento il potere del papa e della chiesa erano estremamente evidenti, apertamente pubblici e dettavano ancora le condizioni ai vari stati: c’era ancora lo stato pontificio che operava come qualsiasi stato nazionale, partecipando direttamente a guerre, e c’erano ancora i principati vescovili e gli stessi vescovi sedevano nei parlamenti nazionali facendo politica palese e diretta. In più se non si osservavano le regole della chiesa ed i propri obblighi religiosi si perdevano i diritti civili e si era danneggiati economicamente se non peggio (basti pensare a cosa poteva succedere ancora 60 anni fa coi coniugi di Prato). La chiesa faceva ancora parte dell’aristocrazia, apertamente ricca e, quindi, essere anticlericali significava combattere un potere oppressivo palese.
Da allora la chiesa ha perso il potere palese, ma ha conservato enormi privilegi storici di quell’epoca ed il suo potere politico ed economico è più sfumato, ha perso ufficialmente il ruolo di religione di stato, ma non nella pratica. Non è una associazione filosofica come vorrebbero far credere o benefattrice, ma una potente lobby, una multinazionale e, quindi, direi che lo scenario è cambiato, ma non è superato e ci sono tante buone ragioni per essere ancora anticlericali perchè il potere dei clericali è ancora molto elevato, ma soprattutto la sua pretesa di imporsi agli altri. L’idea del confronto libero ed alla pari non li sfiora minimamente, al massimo lo si può ottenere con qualche fedele “adulto”.
La sola argomentazione non basta, ci vogliono ancora vere e proprie battaglie legali e politiche sia per abolire i loro privilegi che per porre freno alle loro pretese egemoniche.

Commenti chiusi.