Oltre le identità, per la convivenza

Un vento identitario soffia da Oriente a Occidente, da destra a sinistra. La laicità ci salverà? Ne abbiamo parlato con l’antropologo Francesco Remotti nel numero 2/2020 della rivista Nessun Dogma.

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Tra i decani dell’antropologia italiana, Francesco Remotti ha alle spalle una lunga carriera accademica e numerose ricerche etnologiche, in particolare tra le popolazioni dell’Africa. Per esplorare i complessi fenomeni che caratterizzano l’umano lo strutturalismo di Claude Lévi-Strauss ha rappresentato la base delle sue indagini, che l’hanno portato anche a contatto con l’etnia congolese dei BaNande. Ha insegnato antropologia culturale, ha diretto il Dipartimento di scienze antropologiche, archeologiche e storico-territoriali dell’Università di Torino e ha presieduto il Centro studi africani. Oltre alle pubblicazioni accademiche, il suo contributo intellettuale entra nel dibattito pubblico affrontando i temi scottanti e quanto mai attuali dell’identità, della convivenza, del concetto di famiglia, del relativismo culturale. Quando Ratzinger è al soglio pontificio, nel 2008 pubblica Contro natura. Una lettera al papa, dedicato alla questione delle unioni non “tradizionali”. Una parte rilevante della sua riflessione si concentra sulla critica radicale al concetto di identità, che si delinea tra Contro l’identità(1996) e L’ossessione identitaria(2010). Il suo ultimo libro è Somiglianze. Una via per la convivenza.

A dieci anni dalla pubblicazione de L’ossessione identitaria ma la sua riflessione parte da più lontano – sembra che i timori sulla degenerazione identitaria si siano avverati. Montano xenofobia, umori sovranisti e populisti, retorica delle “radici” e della purezza religiosa. Come si è evoluto il quadro in questi anni?

Direi che il quadro si è evoluto in peggio. Del resto, per quali motivi avrei potuto o dovuto pensare in un’evoluzione verso il meglio? Quali fattori di speranza sarebbero emersi per una visione un po’ meno cupa? Non so se esagero in una visione eccessivamente tetra, ma mi sembra di poter dire per un verso che l’identitarismo è una mentalità dalle radici profonde, per un altro verso è un modo di pensare molto attraente, in quanto taglia la realtà con separazioni dicotomiche (per esempio “noi” e gli “altri”) di indubbia efficacia, per un altro verso ancora assistiamo a un sempre più esteso impoverimento culturale. Aggiungo che, mentre un tempo mettevo in guardia circa i pericoli dell’identitarismo considerandolo nella sua struttura concettuale e negli scoppi di violenza a cui può dare luogo, oggi sottolineerei di più il carattere per così dire quotidiano e quasi ininterrotto delle manifestazioni di odio. Insomma, non è più soltanto questione di ideologia (l’identitarismo inteso come ideologia), è questione di comportamento diffuso: qualcosa di più oscuro, profondo, incontrollato, meno “discutibile”, se così posso dire. Perciò anche di più preoccupante.

Se le destre conservatrici fanno spesso dell’identità religiosa uno dei cavalli di battaglia, a sinistra il sostegno di istanze sociali delle minoranze rischia di favorire altre forme di identitarismo. Abbiamo qualche strumento per disinnescare questa corsa al riarmo identitario?

Mi sembra di poter dire che il pensiero definito di sinistra non abbia mai o quasi mai fatto i conti con l’identitarismo. Il pensiero identitario – proprio perché è un’eredità che ci portiamo dietro da secoli, persino da millenni – è così incorporato nella nostra mentalità che non conosce differenze tra destra e sinistra, nel senso che può essere usato – ed è usato – tanto a destra quanto a sinistra. Con una differenza però: la destra lo usa meglio, trova meno impacci; l’identitarismo di destra è più chiaro, lineare, oserei dire più onesto intellettualmente. Pensiamo all’istigazione alla paura e all’odio verso l’altro: l’identitarismo offre una base chiara e solida a questo tipo di atteggiamento e di politica. La sinistra invece fa spesso dei pasticci, perché se da una parte non è capace di liberarsi dalla mentalità identitaria, dall’altra deve però salvare certi valori – come la solidarietà, l’apertura verso l’altro, la messa in discussione di certe differenze – che richiederebbero un altro tipo di impostazione, cioè un pensiero chiaramente non-identitario. Perduto il significato e la portata universalistica di concezioni come il marxismo, la sinistra si è acconciata ad adottare quello che il mercato delle idee offriva nella seconda metà del novecento: e il mercato offriva ciò che di più tradizionale avevamo a disposizione, cioè appunto l’identitarismo. Del resto, parlare e pensare “identitario” è anche un modo per farsi capire, per non rimanere esclusi dal discorso comune. La gente ti capisce meglio se parli identitario. Ma poi il prezzo si paga. E il prezzo – sul versante della sinistra – è un discorso più confuso, meno attraente, meno convincente di quello della destra.

L’Italia vive un periodo di transizione. Da una parte, il ripiegamento di stampo tradizionalista cattolico; dall’altra tendenze verso secolarizzazione e superamento di retaggi tradizionali. Mentre migranti e islam suscitano dibattiti e timori. Quali sfide ci attendono?

Intanto direi che si vive sempre in un periodo di transizione. Ma, a parte questa precisazione, se vogliamo uscire dalle secche in cui ci troviamo e se mi è consentito fare un discorso semplificato, sottolineerei i seguenti punti. Proprio in un periodo in cui assistiamo al risorgere di nazionalismi, sovranismi, populismi, proprio ora che la Brexit rischia di imporsi come un modello, come una via da seguire, si avverte il bisogno di un pensiero che, concentrandosi sull’Europa, prendendo come base e come riferimento esplicito l’Unione Europea, sappia far vedere la validità di una visione ampia, globale: una visione programmaticamente contro-corrente. In giro per il mondo (e anche da noi in Italia) mi pare che affiorino movimenti che esprimono l’esigenza di una visione non solo ampia e globale nel presente, ma una visione che sappia addentrarsi nel futuro e programmare un futuro vivibile non solo per “noi”, italiani o europei, ma per tutti. Mi rendo conto che nuotare contro corrente di questi tempi è estremamente difficile. Ma, per esempio, per quanto riguarda l’islam, perché non pensare a un rovesciamento di prospettiva? Perché non promuovere sistematicamente un recupero dei significati più profondi e fruibili della civiltà islamica: uno sforzo conoscitivo da non riservare soltanto alla ristretta cerchia degli specialisti, bensì un modo per proporre basi di confronto anche sul piano politico attuale. Sarà – anzi, senz’altro è – difficile, ma se si insiste sulla contrapposizione, spesso alimentata da pregiudizi e da ignoranza, che cosa rimane se non la diffidenza e lo scontro? Mentre, intanto, i problemi del mondo – il mondo di tutti – si fanno sempre più urgenti e impellenti. Intendo riferirmi ai problemi della Terra, ai problemi climatici ed ecologici, ai problemi che sempre più diventeranno determinanti per il fenomeno delle migrazioni e degli spostamenti di popolazioni. Anche qui, i discorsi della paura e dei respingimenti sono discorsi dalla visione estremamente corta, discorsi che non si rendono conto del fatto che siamo tutti nella stessa barca. E anche qui, sarebbe bello pensare che l’Unione Europea fosse in grado di sviluppare una politica a livello mondiale decisamente più forte e coraggiosa di quanto finora abbia promesso di fare. I discorsi identitari sono ciechi non solo nei confronti degli altri, che vengono da fuori; sono ciechi persino nei confronti degli altri che nascono nei “noi”, cioè i nostri figli. Quante volte dobbiamo sentirci chiedere quale futuro riserviamo ai nostri discendenti, quale Terra lasciamo loro da vivere?

In Contro natura metteva in discussione la fallacia naturalistica della dottrina cattolica – incarnata allora da Benedetto XVI – nei confronti della pluralità delle forme di famiglia. Neanche Francesco sembra però essersi discostato molto da quell’approccio, poiché in questi anni contribuisce ad agitare lo spauracchio del “gender”. Cosa scriverebbe oggi in una ipotetica “lettera” al nuovo papa?

In Contro natura mi ero soffermato non soltanto sulle diverse forme di famiglia che gli antropologi, per loro professione, studiano nelle diverse parti del mondo. Mi ero anche soffermato su quel tipo stranissimo di famiglia che è la stessa chiesa (è il pensiero cristiano a proporre questa interpretazione). Sinceramente, sono rimasto un po’ deluso che quegli spunti e quelle analisi non abbiano dato luogo a un dibattito, a partire dal seguente paradosso: la Chiesa parla tanto di famiglia “naturale”, ed essa si presenta in diversi momenti come una famiglia; ma se c’è una famiglia tanto poco naturale è appunto la chiesa. Se dovessi riscrivere quella “lettera al papa”, forse riprenderei quelle considerazioni, e analizzerei di più i significati storici, culturali, sociali e simbolici (oltre che teologici) del celibato dei preti per un verso e della marginalizzazione delle donne all’interno della chiesa per un altro verso: senza dimenticare del resto i temi della sessualità, che sono emersi così vistosamente in questi anni. Sotto il profilo antropologico, siamo in effetti di fronte a una costruzione veramente curiosa e strana, una costruzione però che, nonostante la sua stranezza, vanta una persistenza storica impressionante. Ma qui rischio di muovermi su un terreno così affollato di specialisti da fare paura.

La valorizzazione di un approccio laico può essere (e in che modo) uno degli antidoti per arginare questa deriva identitaria che investe il mondo da oriente a occidente?

Ovviamente, bisognerebbe capire cosa intendiamo per laico. Se per laico intendiamo non soltanto – come si fa oggi – una persona o un comportamento aconfessionale, che quasi sfiora l’ateismo, ma anche il significato originario (il popolo in quanto contrapposto al clero), e quindi un livello o uno strato inferiore, oserei dire che sì un approccio “laico” può contribuire ad arginare la deriva identitaria. Il laicismo, in questo senso, come visione dal basso e tipicamente bassa, potrebbe fare vedere, al contrario, come l’identità, nelle sue origini, sia qualcosa che ha a che fare con il divino. Gira e rigira, l’identità indica sempre qualcosa di permanente, qualcosa che si sottrae al tempo, qualcosa che “rimane” al di sopra del flusso, del divenire, delle variazioni. Nel pensiero antico l’identità veniva attribuita a qualcosa di divino. Chissà, forse le identità a cui si fa appello ai nostri giorni sono brandelli ormai scuciti di un lontano pensiero non solo ontologico, ma anche teologico: le nostre sono identità democraticamente distribuite, distribuite e regalate a tutti. Dico “democraticamente” in maniera provocatoria. Ciò che dovrebbe essere democraticamente distribuito e acquisito o conquistato non sono le identità (le finzioni, le illusioni di identità): molto banalmente, e più terra terra, sono i mezzi conoscitivi e pratici per vivere un po’ meglio in questo mondo.

Le sue analisi volte a destrutturare il concetto di identità hanno creato ampio dibattito nell’ambiente accademico e non solo. Come si può fare antropologia senza “sacralizzare” le culture?

In diverse occasioni mi sono battuto per contrastare una pericolosa tendenza di alcuni miei colleghi antropologi, i quali se per un verso utilizzavano (e utilizzano) a piene mani l’identità, per l’altro verso avevano preso di mira il concetto di cultura, considerato come un ferro vecchio, da buttare via non soltanto perché scientificamente vetusto, ma perché infido, ideologicamente compromesso, qualcosa cioè che rischiava di essere avvicinato a razza, sostituito a razza: culturalismo al posto di razzismo. Ho cercato di fare notare loro che ciò avviene quando le culture sono appunto concepite come identità. Ho cercato di fare vedere che il problema non è in “cultura”, ma in “identità”. Non ho esitazione ad affermare che le culture ci sono in questo mondo, mentre le identità sono soltanto rappresentazioni illusorie. Si assiste alla sacralizzazione delle culture quando appunto vengono investite dall’aura dell’identità. Senza l’identità, le culture appaiono per quelle che sono. Le definirei “aree di condivisione” – condivisione di strumenti, idee, simboli, in generale di comportamenti appresi, trasmessi non geneticamente, ma socialmente –, aree inoltre dai confini incerti, porosi, aree di condivisione non soltanto di “noi”, ma anche di “altri”, visti i fenomeni di scambio e di travaso tra le diverse aree. Niente di sacro dal punto di vista dell’antropologo. Poi però può succedere che i “noi” che si formano in quelle aree di condivisione provvedano a “sacralizzare” – tanto o poco – i propri simboli, le proprie istituzioni, anche con il concetto di identità. L’antropologo si può dunque ritrovare tra i piedi l’identità, non perché egli attribuisce identità ai “noi” che studia, ma perché – e questo può succedere storicamente (noi ne siamo la dimostrazione) – alcuni “noi” decidono di auto-attribuirsi forme di identità.

In quali termini è possibile porre le basi per la convivenza civile in un “noi” e cosa significa valorizzare le “somiglianze” di cui parla nel suo ultimo libro?

Il mio ultimo libro (Somiglianze. Una via per la convivenza) è un libro senza dubbio ambizioso: ambisce a fare vedere come l’identità sia una finzione, una rappresentazione illusoria (l’abbiamo già detto), ma soprattutto ambisce a fare vedere come ci sia una rappresentazione un po’ meno illusoria, una rappresentazione più congrua, che è quella delle somiglianze. È un libro lungo e impegnativo, perché ho dovuto – anche qui nuotando contro-corrente – risalire indietro e fare vedere come il pensiero identitario abbia oscurato l’intrico delle somiglianze e delle differenze in cui normalmente viviamo. Ho voluto fare emergere la forza e la resilienza delle somiglianze e delle differenze. Ho voluto dimostrare come, se per un verso le identità tagliano le somiglianze (per esempio, tra noi e gli altri), per l’altro verso queste somiglianze rispuntano, facendo capire che per quanto noi cacciamo gli altri nell’alterità più lontana, e persino li cacciamo nel nulla (eccidi, genocidi ecc.), le somiglianze continuano a rispuntare da qualche altra parte. E beninteso, non si tratta soltanto delle somiglianze tra noi e gli altri (altri umani): si tratta anche delle somiglianze tra noi e la natura. La tesi di fondo del mio libro è che la convivenza è impossibile in un regime di identità: la convivenza è resa possibile soltanto dal riconoscimento e dal trattamento delle somiglianze. Si convive tra i simili. Partendo di qui, il problema è di imparare un’arte del convivere, di inventare e mettere in pratica tecniche di convivenza. Sempre che vogliamo vivere in questo mondo, garantendo stili di vita accettabili: non solo per “noi”, qui, in questa parte di mondo e in questo momento storico, ma anche per altri, anche per quelli che dovrebbero venire dopo di noi. Purtroppo, l’identità, eliminando le somiglianze, ha contribuito molto ad accorciare la nostra vista e ad annullare il nostro senso di responsabilità verso le forme di vita al di là di un ristretto e misero “noi”.

La redazione


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15 commenti

laverdure

Le cause dell’ondata di “identitarismo”,xenofobia,nazionalismo sono molteplici,ma
ammettiamolo,non ultima e’ il dilagare in questi anni di una pretesa di “ugualitarismo”,integrazione,accoglienza condotti in maniera irresponsabile.
Il Manzoni scrisse :”Convinta la gente che un tale non merita di essere squartato,non occorre spendere altre parole per convincerla che meriti di essere
portato in trionfo”.
Disgraziatamente il “politicamente corretto” non riesce a convincere TUTTA la gente che il tale meriti tali privilegi,che quindi si trasformano in sguaiati favoritismi
agli occhi di molti,che proprio per questo finiranno per accarezzare l’idea (che prima non avevano)che meriti davvero di essere squartato.
Per fare un solo esempio : quando sui media appaiono foto di “immigrati” che comprendono matrone ingioiellate con le unghie laccate e il cagnolino al guinzaglio, e fusti con fisico da aerobica e immancabile smartphone e occhiali rayban,e gli stessi media riportano che ormai 7 milioni di “autoctoni” sfiorano il limite di poverta a causa (tra le altre) del covid,e che 3 milioni debbono ormai rinunciare alle cure mediche,
quale credete sia la reazione di questo “popolo di santi ” ?
Per molti ormai il vero torto dell’omino coi baffetti e del nostro Benny da Predappio era di essere,con le loro leggi razziale,troppo in anticipo sui tempi e di averle applicate alle persone sbagliate.(Nel caso degli zingari invece,di aver fatto le cose a mezzo !).
Piaccia o no ,la natura umana funziona cosi.

laverdure

Dimenticavo :Francesco bacone,filosofo e scienziato ddel ‘500-‘600,pioniere della scienza moderna,diceva :”Alla natura si comanda solo ubbidendole”.
Lui si riferiva alla natura fisica : se si vuole che una casa stia in piedi,che un aereo voli,che un motore eroghi potenza,vanno progettati rispettando le leggi della statica,aerodinamica e termodinamica.
Qualunque pretesa di violarle minimamente finira in un sonoro fallimento.
Le leggi della natura umana sono piu’ complicate da definire,ma altrettanto inviolabili.
Tante ideologie passate e recenti hanno avuto la pretesa di violarle creando l'”uomo nuovo”,insensibile al desiderio della proprieta privata,insensibile alla
libido sessuale ecc.
Hanno ottenuto solo guasti solenni.
Il problema del razzismo,della convivenza ecc va affrontato tenendo conto di tutto questo rinunciando a utopie irrealizzabili e accettando inevitabili limiti.
E anche cosi il problema e’ estremamente difficile,inutile negarlo,ma e’ sempre meglio che partire perdenti come cercando il moto perpetuo o la pietra filosofale.

RobertoV

“Per fare un solo esempio : quando sui media appaiono foto di “immigrati” che comprendono matrone ingioiellate con le unghie laccate e il cagnolino al guinzaglio, e fusti con fisico da aerobica e immancabile smartphone e occhiali rayban,..”
Hai invertito il principio di causa – effetto. Sono dei razzisti che si inventano le notizie o utilizzano casi singoli per screditare certi gruppi. La matrona ingioiellata con cagnolino era una sola e la sua immagine è stata utilizzata da dei razzisti in modo disonesto per fare credere che questo fosse lo standard.
Per quanto riguarda la bufala dei palestrati è un falso continuamente ripetuto e che piace ripetere. Io faccio sport agonistico da 40 anni e vivo vicino ad uno di questi centri di accoglienza e francamente di palestrati non ne vedo. Quello che vedo è gente giovane e col fisico asciutto, cosa normale per gente che viene da paesi poveri, perchè il problema del sovrappeso è dei paesi ricchi. E gente più abituata a muoversi di noi proprio perchè viene da paesi poveri: per esempio una delle giustificazioni dei successi degli africani nella corsa è data dal fatto che sin da piccoli sono costretti a farsi 10/15 km al giorno a piedi per andare a scuola o sono più abituati a fare lavori manuali. Inoltre solo a dei ricchi può venire in mente che la muscolatura si possa costruire solo in palestra e non col movimento e lavorando. Inoltre dalle biopsie muscolari è accertato che certe etnie di neri hanno una predisposizione a mettere su muscoli che noi bianchi ci sogniamo: non a caso Bolt è nero. Inoltre aggiungerei anche un fattore di selezione naturale come successo con gli schiavi: solo i più forti superano gli ostacoli o si avventurano in lunghi viaggi. Oltre al fatto che la maggior parte delle persone non distingue un immigrato da un nero italiano adottato, figlio di matrimoni misti, da stranieri europei e non di colore qui per lavoro o studio, non distingue tra africani e sud americani e asiatici di colore, turisti di colore. Basta vedere quello successo col testimonial della adidas scambiato per un immigrato quando era uno dei migliori giocatori di basket americano che guadagnava 40 milioni di dollari all’anno.
Riguardo ai 7 milioni di poveri in Italia ci credi veramente? Con tutto il sommerso e lavoro nero che c’è in Italia? Stranamente per il reddito di cittadinanza lo chiese solo poco più di un milione. Inoltre la soglia di povertà in Italia è di quasi 800 euro al mese, mentre in Africa è di quasi 800 euro all’anno e per una percentuale significativa della popolazione!

laverdure

Caro Roberto,per quanto riguarda gli immigrati dal fisico da “aerobica”,e l’aria di chi
non ha mai saltato un pasto in vita sua,non si e’ mai ammazzato di lavoro e non sembra proprio “portare negli occhi gli orrori della guerra”(bel cliche di moda vero ?)mi capita di incontrarne in continuazione in qualsiasi orario nelle strade e piazze della mia citta.
Per cui temo che su questo punto qualsiasi discussione diventa oziosa.
Beninteso hai il diritto di credere cio’ che vuoi.
Quanto ai sette milioni,da anni tutti i nostri media non fanno che citarli,e visto l’andazzo del covid la cosa mi sembra del tutto verosimile.
Anche qui ho visto coi miei occhi un sacco di attivita commerciali aperte da decenni chiudere a ritmi accelerati negli ultimi tempi.
Sull’attendibilita dei media giustamente nemmeno io metterei la mano sul fuoco,pero’ a quel punto non vedo perche’ dovrei prestare maggiore fede alle voci
di miserie del terzo mondo,ti pare ?
Un pensierino :
il noto sociologo Luca Ricolfi,autore tra l’altro de “La societa signorile di massa”,nel suo saggio “Illusioni italiche”,ricorda che il sociologo di sinistra Marzio Barbagli,per
il quale mostra lui stesso la massima stima,in una intervista a Francesco Alberti,pubblicata sul Corriere della sera,confesso onestamente che per anni si era rifiutato di credere che il tasso di criminalita degli immigrati fosse sensibilmente piu’ alto di quello italiano,pur avendo sotto gli occhi dati inconfutabili a dimostrarlo.
Direi che per uno scienziato ricercatore (che tale dovrebbe essere un sociologo)non e’ un difetto da poco,vero?
Diciamo pure un vero tradimento della scienza a vantaggio di una ideologia.
E temo che il numero di quelli che ,a differenza di lui,continuano tranquillamente su questa strada non sia piccolo.
Beninteso ognuno puo’ pensarla come vuole.

RobertoV

Esistono anche le paranoie, le fissazioni in cui uno vede ciò che vuole vedere e si inventa la sua realtà. Sei riuscito anche a vedere degli eritrei o etiopi palestrati o grassi? Riesci anche a vedere se uno ha saltato un pasto? Ma se sono così “scansafatiche”, come pensi si siano costruiti il fisico da “palestrati”. Anche fare sport comporta fatica. Sei invidioso?
Se vai agli albori dello sport moderno potrai vedere come atleti poveri riuscivano a primeggiare grazie al fatto che per lavoro si erano costruiti fisici adatti e probabilmente loro qualche pasto lo saltavano. Forse pensi che se uno non è denutrito allora ha mangiato bene?
Ti consiglio di farti un giro sui campi di atletica e vedrai quante persone di colore ci sono ormai e quante primeggiano, mentre se vai a vedere sport per ricchi di neri ne troverai veramente pochi.
Ti consiglio anche di fare un giro nei cantieri o ai mercati regolari e guardare quante persone di colore “scansafatiche” vi lavorano. Alzarsi alle 3 o 4 di notte è proprio il lavoro adatto per uno che non ha voglia di lavorare….
Riguardo ai tassi di criminalità che hai tirato in ballo anche se non c’entrano con quanto discusso nessuno nega che abbiano maggiori tassi, ma c’è una differenza notevole tra le nazionalità e soprattutto c’è una bella differenza tra riconoscere che hanno tassi maggiori e pensare che siano tutti o in maggioranza dei criminali. Se guardi agli USA i neri hanno 1 persona su 35 in carcere, i latinos 1 su 80 ed i bianchi 1 su 250. Pensi che queste differenze si possano giustificare solo con “è la loro cultura”?

laverdure

Caro Roberto,io oso credere che nel sud italia gli individui che meritano a pieno titolo la qualifica di “mafioso”,”camorrista” o membro della n’drangheta
siano una ridotta minoranza,ma questo non impedisce che queste belle istituzioni vi spadroneggino da generazioni con conseguenze deleterie
per lo sviluppo di intere regioni.
Per inciso,gli stessi membri delle comunita di immigrati installati da tempo nei paesi occidentali hanno manifestato piu’ volte la loro contrarieta all’immigrazione incontrollata,cosa che ha suscitato ovviamente lo sdegno scandalizzato di Boldrini e soci.
La verita e’ che sanno benissimo che la criminalita “importata” li prendera
a bersaglio per primi,dato che la loro posizione incerta li rende piu’ vulnerabili.
Una volta saldamente attestata ovviamente diventera un flagello per tutti.
Per chi non l’avesse capito : e’ lo stesso schema seguito dalla mafia a seguito dell’emigrazione in USA e altrove.
Ma ovviamente molti “progressisti” sono convinti che ghanesi,nigeriani ecc
siano troppo indolenti e ottusi per poter imitare la mafia.
Come del resto ancor oggi sono convinti che gli attentati dell’11 settembre
fossero al di sopra delle capacita delle menti rozze degli arabi.

Mixtec

Laverdure, dovresti essere lieto di incontrare uomini neri muscolosi ed aitanti, e belle nere ingioiellate con cagnolini al guinzaglio: daranno nuovo vigore a un popolo di palliducci col culo basso. In altre parole: viva il rinvigorimento della razza italiana!

RobertoV

In certi sport, come l’atletica leggera, se non ci fossero persone di colore saremmo ormai messi veramente male.

mafalda

Più che dei muscoli bisogna interessarsi alla religione retrograda che portano in occidente, visto che già qua ne abbiamo di culti sempre più assurdi.

laverdure

No caro Roberto,non vedo proprio come importare “fusti stranieri” possa
risolvere il problema che la gente qui ha poca voglia di fare sport oppure
segua diete non adatte a mantenere una buona salute fisica.
Non e’ certo con vittorie ai campionati internazionali di calcio,ottenute con
“mercenari” stranieri pagati cifre esorbitanti, che possiamo risolver i problemi del paese.

RobertoV

Mafalda
Anni fa l’Italia naturalizzò parecchi giocatori oriundi americani e canadesi nell’Hockey su ghiaccio e passò da squadra di serie C a serie A con 20 giocatori su 22 della nazionale naturalizzati e che spesso non sapevano una parola di italiano. Anche nel rugby si fa così. L’Olanda fece qualcosa di analogo nel basket. La Turchia è diventata forte nell’atletica naturalizzando corridori keniani, cosa fatta anche dal Qatar.
Anni fa ci siamo esaltati per le vittorie di Fiona May che ha prima gareggiato per la Gran Bretagna e poi per l’Italia dopo il matrimonio, adesso c’è la giovane figlia, poi per le ex cubane Martinez nel triplo e Grenot nei 400, per Howe, adesso ci sono Crippa che ha migliorato i record italiani sui 5000 e 10000 m ed è un etiope adottato, le donne della staffetta 4 x 400, la Kaddari di padre marocchino sui 200 m, la Hooper, Jacobs e così via. La maggior parte sono o adottivi o figli di matrimoni misti, altri per matrimonio o altre ragioni. E si sentono italiani. Questa è ormai la normalità, un paese non è più limitato e gli scambi sono frequenti. Perchè possiamo esaltarci per degli sciatori dell’Alto Adige che faticano a parlare l’italiano e che magari non si sentono neanche tanto italiani, mentre se hanno un colore diverso o provengono da altri paesi non storici, anche se magari di ex colonie dell’Italia, l’atteggiamento cambia?

laverdure

Mi ricorda quando,si legge,negli anni di guerra per “rinvigorire” il pane data la scarsita di farina si aggiungeva della segatura.

Mixtec

Caro laverdure, i “rinvigoritori” di allora erano quanto di più stupido e flaccido sia mai comparso in Italia. Gente stupida che con le leggi razziali estromise dalla vita civile la parte più colta della popolazione, gente stupida che pensava che le guerre si vincessero con le baionette o passando attraverso cerchi di fuoco, gente inetta e flaccida che le buscò per terra e per mare. L’alleato non era molto più intelligente: non ci si sceglie come alleati chi è evidentemente una palla al piede, né si apre un secondo fronte di guerra alle proprie spalle senza aver prima vinto sul primo fronte. D’altra parte questo genio strategico era solo un caporale; ma nemmeno i suoi generali, laureati in accademie militari, erano molto più intelligenti, dato che obbedivano ad un simile caporale. Il “rinvigorimento” attuale è molto meglio e fatto da gente molto più intelligente rispetto a quella citata all’inizio.

laverdure

“L’alleato non era molto più intelligente:…..”
E ancora meno intelligenti,almeno inizialmente,furono i nemici : basti pensare all'”omino con l’ombrello” (Neville Chamberlain) e alla sua politica di “pace ad ogni costo”,che si lascio manipolare da Hitler a lungo (vedi Monaco).
E ai francesi,che schieravano gli stessi generali della guerra precedente,ormai sclerotici e legati a strategie obsolete,tanto che la sconfitta della Francia fu evidente gia dopo pochi giorni dall’inizio del blitz.(persino l’Italia resistette per tre anni !).
A Dunkerque gli inglesi poterono evitare di perdere buona parte del loro esercito solo grazie alla decisione di Hitler di lasciarglielo evacuare,senza dubbio perche’ contava ancora su un armistizio.
E fu il suo primo grave errore,perche dopo una simile disfatta forse nemmeno Churchill sarebbe riuscito a convincere il governo a proseguire sulla linea della fermezza.
Come vedi la stupidita e’ patrimonio di tutti.

laverdure

Dimenticavo l’altro illustre comprimario :
negli anni precedenti Stalin aveva fornito quantita enormi di materie prime
indispensabili per l’industria bellica tedesca (patti Ribbentrop Molotov),e fu preso completamente alla sprovvista dall'”operazione Barbarossa”,tanto da cadere in uno stato depressivo per settimane,che lo spinse,si dice,a far portare una preziosa antica icona in “processione” su un aereo sopra Mosca
a scopo scaramantico.
Neanche lui si era del tutto liberato da certi condizionamenti.

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