Sempre più persone abbandonano la religione in cui sono cresciute. Un processo spesso difficile, a causa della forte influenza familiare e sociale. La strada per l’emancipazione può essere tortuosa. In diversi casi le conseguenze psicologiche rischiano di essere pesanti e si rischia l’isolamento.
Negli anni scorsi anche sul nostro blog abbiamo toccato il tema, soffermandoci sulle difficoltà che affrontano i giovani increduli e sulle esperienze che iniziava a offrire il mondo anglosassone per superarle. Con la secolarizzazione, la questione non fa altro che ampliarsi. Un articolo su The New Republic affronta il tema dei cosiddetti “exvangelicals”: negli Usa si parla ormai di un vero e proprio disturbo post-traumatico da stress che colpisce non poche persone che lasciano le chiese fondamentaliste evangeliche.
Il disturbo post-traumatico da stress (o PTSD: post-traumatic stress disorder) è scatenato da un evento particolarmente doloroso e ha conseguenze durature sullo stato psicologico. Viene infatti alterata la risposta dell’amigdala alla paura e quella dei neurotrasmettitori sulla memoria. La qualità della vita risulta compromessa, fino ad arrivare ad ansia, disturbi emotivi, depressione, attacchi di panico. Esempi tipici sono i reduci di guerra o i sopravvissuti a un abuso sessuale.
Lasciarsi alle spalle la religione provenendo da un contesto fondamentalista dove la religione è tutto può lasciare ferite nella psiche. Credere nell’inferno o nel rapimento della Chiesa, nella cultura della “purezza” che impone la verginità prima del matrimonio o nel complementarismo che stabilisce rigidi ruoli tra uomini e donne, ha degli strascichi su quanto serenamente si vivono la colpa e la sessualità. Anche la polarizzazione politica, che ha legato gran parte degli evangelici bianchi a posizioni trumpiane e alt-right. Nella cultura evangelica la tendenza a svalutare la psicologia e a insistere sulla dicotomia tra “anima” e corpo non incentiva di certo a cercare supporto psicologico, lasciando senza strumenti tante persone. Per certe categorie come le donne o le persone lgbt il problema si fa più acuto.
Negli anni gli psicologi si stanno interessando sempre di più all’abbandono traumatico della religione. Già nel 1993 Marlene Winell, psicologa ex cristiana fondamentalista, ha scritto il manuale di auto-aiuto Leaving the Fold. E ha coniato l’espressione “religious trauma syndrome”, come “condizione sperimentata da persone che stanno lottando per lasciare una religione dogmatica, autoritaria”. L’organizzazione Recovering From Religion, per fornire una rete di supporto ai non credenti, nasce nel 2009. Lo psicologo Darrell Ray che l’ha fondata lancia poi nel 2021 il Secular Therapy Project: una risorsa per trovare un terapista che abbia un approccio laico. Nel 2019 gli psicologi Laura Anderson e Brian Peck hanno fondato il Religious Trauma Institute e sostengono inoltre Reclamation Collective, gruppo di supporto per le persone uscite da esperienze religiose negative.
Un rischio è declinare queste esperienze in senso pregiudizialmente antireligioso: perché è importante essere seguiti da un professionista esperto in traumi psicologici, a prescindere dalla sua fede personale, in maniera seria e senza improvvisazione. Ma anche senza dover subire proselitismo, più o meno velato, o pratiche che non fanno sentire a proprio agio. Quindi è comprensibile che persone uscite in maniera traumatica da una religione preferiscano chi è sulla stessa lunghezza d’onda. Nel complesso, si tratta di esperimenti promettenti per far crescere la consapevolezza sull’importanza della salute psicologica di chi abbandona esperienze religiose pervasive. Perché, di converso, un altro rischio è quello di promuovere la religione come panacea per superare un disturbo post-traumatico. Ma, in una società sempre più laica, è invece cruciale creare una rete di supporto per persone che vogliono “disintossicarsi” dalla religione.
Valentino Salvatore