Matrimoni precoci, una piaga da debellare

Le dimensioni del fenomeno continuano a essere enormi, ma ben poco si fa per contrastarlo. Ne parla Federica Renzoni sul n. 3/2021 della rivista Nessun Dogma.
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In un momento storico in cui gli sforzi collettivi sono tutti concentrati sull’eliminare un virus, c’è un’altra piaga che rischia di inasprirsi, quella dei matrimoni precoci. Secondo una stima dell’Unfpa, l’agenzia delle Nazioni Unite per la salute sessuale e riproduttiva, a causa dell’emergenza Covid nel mondo se ne rischiano tredici milioni in più rispetto alle previsioni.

I numeri sono a dir poco preoccupanti: come riportato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Unhchr) ogni anno almeno dodici milioni di bambine e ragazze vengono date in matrimonio ancora minorenni, ossia ventitré bambine e ragazze ogni minuto. Il matrimonio precoce, ossia l’unione ufficiale o informale contratta prima dei diciotto anni, viene definita dall’Unicef senza mezzi termini «una grave violazione dei diritti umani».

Benché sia riconosciuta la possibilità teorica di qualche eccezione, come di adolescenti che dimostrino una volontaria, matura e seria attitudine al matrimonio, il rischio che un minore non abbia le conoscenze e la maturità necessarie a rendere la sua scelta libera e consapevole è talmente alto, da spingere le principali associazioni umanitarie e gli organismi che si occupano di diritti umani a considerare i matrimoni prima dei diciotto anni una situazione critica da evitare.

Negli ultimi anni il trend aveva mostrato un calo incoraggiante, ma il fenomeno non poteva che peggiorare tragicamente durante una pandemia di tale portata, destinata per sua natura ad aggravare carenze e problematiche preesistenti, in ogni senso possibile.

Tra le zone con il più alto tasso di matrimoni precoci troviamo l’Africa sub sahariana, il sudest asiatico, il sud America e l’est Europa, tuttavia nessun paese può dirsi completamente estraneo alla questione, che sia economicamente sviluppato o meno. Povertà, scarso accesso all’educazione e corruzione sono elementi determinanti, ma non soddisfacenti in termini di causalità; non quando la stessa pratica avviene in culture, aree geografiche ed economie diverse. Con un tale labirinto davanti a noi, come trovare e sconfiggere il mostro, allora? Un mostro con così tante teste per giunta? Seguendo il classico filo che un’Arianna spaventosamente reale ci porge e che conduce dritto al cuore del labirinto e del mostro: la declinazione a norma sociale dell’archetipo religioso-patriarcale. Una soluzione mitologica a un problema mitologico.

In questo luogo-non luogo, religioni e superstizione prosperano opponendo tradizioni anacronistiche e convenzioni sociali ottuse a scienza ed educazione, governando la vita delle persone più dei governi e delle norme legislative reali. A pagarne le conseguenze sono, come sempre, le categorie più vulnerabili, principalmente donne e bambine. Sebbene il matrimonio minorile riguardi anche una percentuale di sposi bambini maschi, infatti, per estensione e numero viene ormai annoverato negli annali delle violenze di genere assieme ad altre barbarie quali le mutilazioni genitali e la preferenza selettiva del figlio maschio, le cosiddette harmful practices.

Una femmina che abbia raggiunto la maturità sessuale e non sia ancora sposata è, in questo tipo di società, sia un rischio sia uno spreco in termini dell’unico valore attribuitole, quello di moglie e madre. Più giovane è la ragazza, più anni di “servizio” e di fertilità può offrire, più è alto il prezzo che la famiglia può richiedere. Al contrario, quando invece è costume fornirla di una dote, questa aumenterà all’aumentare dell’età. Una donna sposata mette al sicuro la sua famiglia da possibili comportamenti “disonorevoli” che la “rovinerebbero” quali rapporti sessuali e gravidanza fuori dal matrimonio, non importa che siano frutto di violenze o meno.

Spesso da parte dei genitori c’è un genuino, sebbene male indirizzato, desiderio di fare i migliori interessi delle proprie figlie “sistemandole”; ancora più spesso c’è una precisa volontà di mantenere il controllo sulle loro vite, impedendo loro di allontanarsi dalla propria comunità. Ciò che non manca mai invece, è una figura che convalidi l’ordine sociale tradizionale, quando addirittura non pretenda di incarnarlo, elevando la tradizione a morale e usando la morale come arma soprannaturale di ricatto. La critica diventa blasfemia, sacrilegio; e opporsi alla tradizione non significa dunque opporsi solo al proprio padre, ma anche al “padre” della comunità, al “padre” dell’umanità e in sostanza a tutto ciò che è buono e giusto, a ciò che separa l’ordine dal caos. Quand’anche un individuo riuscisse a sviluppare un fortuito sprazzo di pensiero critico, la dannazione eterna, la punizione divina, la maledizione, sono spauracchi sufficienti per scoraggiarlo a palesarlo; e se non lo sono, persecuzione, condanna, tortura e omicidio di solito risolvono il problema in maniera decisamente non metaforica. In tali condizioni, come sanno bene gli operatori del campo, la collaborazione o almeno la non-ostilità dei vari capi religiosi diventa cruciale, tanto che le principali agenzie umanitarie sviluppano veri e propri manuali su come approcciarli per ottenerla, mostrando spesso e volentieri un’indulgenza verso la religione altrimenti inspiegabile.

Coloro che, nel tentativo di difendere i diritti umani, incorrono nelle loro ire vengono invece presentati al pubblico come degenerati e servitori del demonio; vivono in uno stato di costante minaccia e spesso sono trascinati in tribunale a rischio della prigione e di severe pene corporali. Può raccontarlo Sisters in Islam, un’organizzazione umanitaria nata in Malesia che promuove in particolare i diritti delle donne musulmane e che non ha avuto paura di mettere nero su bianco le responsabilità della religione nella questione dei matrimoni infantili nel paese. Denunciata più volte per la sua attività e le sue opinioni, nel 2014 ha subito una fatwa da un tribunale religioso. E mentre leggi anti-blasfemia e derivati, negli stati laici come nelle teocrazie, continuano a mortificare l’intelletto umano e la libertà di espressione, in questa zona grigia di auto-dichiarata intoccabilità le religioni forniscono protezione e asilo agli orrori compiuti in loro nome grazie alla connivenza della politica.

Proprio nella suddetta Malesia, ad esempio, la legge civile stabilisce a diciotto anni l’età minima per sposarsi, sedici con il consenso di un’autorità; eppure, grazie allo strapotere concesso alla legge religiosa, matrimoni con spose di età ben inferiore continuano ad avvenire regolarmente.

E così accade che se il matrimonio con una minorenne è vietato dalla legge, le famiglie si rivolgono alla religione per suggellare l’unione in modo che sia ritenuta accettabile dalla società, registrando poi il matrimonio legalmente quando la sposa ha raggiunto la maggiore età. E un pedofilo che abusa della sua moglie-bambina, nella religione può cercare e trovare una giustificazione morale alle sue azioni.

Per quanto sia fondamentale l’impegno dei governi per abolire e promulgare leggi, il vero banco di prova di ogni battaglia per i diritti umani è il cambiamento delle norme sociali, cambiamento tenuto spesso in scacco dalla resistenza diretta e indiretta dell’integralismo religioso.

Da parte loro opporsi al cambiamento, ostacolando ad esempio l’istruzione delle donne, o l’educazione sessuale, l’uso di contraccettivi e l’aborto, significa opporsi alla trasformazione di creature ignare e ignoranti in esseri consapevoli e indipendenti, molto meno propensi a farsi spaventare da giochetti di prestigio e storie dell’orrore. E viceversa. Una bambina analfabeta, data in sposa a un uomo e resa madre prima che abbia avuto il tempo di affacciarsi alla vita, è una donna senza molte altre possibilità che creare nuove generazioni di pecore da dare in pasto ai lupi. E i lupi si sa, non sono mica scemi.

Ancora oggi nel 2021, grazie alla rappresentazione religiosa della donna quale essere inferiore e subordinato all’uomo e altre baggianate simili, come la glorificazione della verginità femminile e l’opposta e conseguente demonizzazione di una sessualità libera e consapevole, la disparità di genere prospera, anche qui, nell’ipersviluppato occidente.

Negli Stati Uniti d’America, su cinquanta stati solo una manciata ha una legge che vieta il matrimonio ai minori di 18 anni, mentre negli altri è possibile sposarsi, con il consenso dei genitori e/o il consenso di un giudice, addirittura a partire dai dodici anni, come nel caso del Massachusetts. Secondo Fraidy Reiss, direttore esecutivo di Unchained At Last, la prima associazione che si occupa di matrimoni forzati in Usa, le motivazioni principali per i matrimoni in giovane età, oltre all’ottenimento della green card, sono le gravidanze indesiderate e il tentativo di “convertire” un membro della comunità Lgbt+ all’eterosessualità.

Negli anni, la risonanza mediatica delle terribili storie di alcune sopravvissute a un matrimonio precoce ha portato la politica americana a doversi confrontare con il problema, non senza difficoltà e opposizioni.

Una delle preoccupazioni principali espresse dalla politica si riferiva proprio alle gravidanze fuori dal matrimonio, come riassume alla perfezione l’intervento del rappresentante repubblicano Tim Dukes: «Capisco che i tempi cambiano, ma ci sono circostanze attenuanti in molti di questi matrimoni. Se un’adolescente rimane incinta, diremo che non può sposarsi e che il suo bambino non può essere cresciuto in una casa amorevole o avere lo stesso cognome dei suoi genitori? Non mi sembra giusto».

In un paese dove l’educazione sessuale, la contraccezione e l’aborto sono ancora diritti per cui lottare, ciò che a molti sembra giusto invece è che una teenager “ripari” alla propria gravidanza indesiderata con il matrimonio, come se questo potesse risolvere il problema invece che aggravarlo. Eppure le statistiche parlano chiaro: la maggior parte delle spose minorenni dopo il matrimonio va incontro all’abbandono degli studi e a gravidanze precoci, fattori che non solo limitano drasticamente le loro possibilità di raggiungere l’indipendenza economica ma che mettono a repentaglio la vita e la salute di genitrici e nascituri. Il corpo di una bambina o di un’adolescente rischia di non essere pronto per sostenere una gravidanza, tanto che nei paesi in via di sviluppo le principali cause di morte per le ragazze sotto i diciannove anni sono il parto e le complicazioni del parto, mentre le percentuali di morti infantili aumentano proporzionalmente al diminuire dell’età della madre. Aumentano anche le possibilità di sviluppare patologie e disturbi fisici e mentali, nonché di essere vittime di violenza domestica. Senza contare che il 70-80% dei matrimoni in cui uno dei due partner è un teenager, finisce, prevedibilmente, in un divorzio. È importante specificare “uno dei due partner” perché, come riporta Unchained At Last, la maggior parte dei matrimoni precoci avviene tra uomini adulti e ragazze minorenni. Stando alla retorica conservatrice, tuttavia, nulla di tutto questo è davvero grave finché si riesce ad affibbiare al nascituro il cognome paterno: sia mai che un’innocente creatura debba venir macchiata dal cognome di una madre nubile! Gli Usa si sa, sono un paese di saldi principi e solide priorità.

E a proposito di solide priorità, in Italia non esistono studi o statistiche ufficiali sull’argomento, tranne un’indagine svolta dall’Associazione 21 luglio, nel contesto delle baraccopoli romane. Sebbene circoscritto, lo studio riporta numeri allarmanti: una ragazza su due si sposa tra i sedici e i diciassette anni, una su cinque tra i tredici e i quindici. D’altra parte gli italiani farebbero bene a non dimenticare casi come quello di Ilde Terracciano, che nel 1971 fu venduta dalla madre a un boss della camorra e costretta a sposarlo dopo essere rimasta incinta a soli 12 anni. Il matrimonio ebbe luogo in chiesa e Ilde dovette attendere cinquant’anni prima di vederlo ufficialmente sciolto dalla Sacra Rota. Storie come questa non erano così strane fino agli anni ottanta: un’inchiesta di Tv7 del 1965 dal titolo Ispica (Ragusa) – Le spose bambine racconta, attraverso una serie di interviste, la realtà quotidiana di matrimoni tra ragazzini di quindici, quattordici, perfino dodici anni. Interpellato al riguardo, il parroco del paese spiega molto ragionevolmente come mai matrimoni così precoci siano sconsigliati, ma non spiega come mai lui e tanti altri preti continuassero a celebrarli.

Anche a livello europeo le informazioni sono piuttosto scarse, probabilmente perché la percezione generale è che, nella maggior parte dei casi, i matrimoni precoci riguardino cittadini con un background legato all’immigrazione e dunque che sia un problema degli “altri”.

Una sottovalutazione imperdonabile, perché ogni ragazza nata e/o cresciuta in un paese, integrata nel sistema scolastico obbligatorio, che viene sottratta a un percorso in grado di renderla economicamente indipendente, non è solo un fallimento della società a livello morale, ma rappresenta una perdita materiale in termini di capitale umano: la World Bank stima che tra il 2017 e il 2030, in dodici paesi con un alto tasso di matrimoni infantili, la perdita in termini di capitale umano ammonterà a sessantotto milioni di dollari, ossia molto più di quanto hanno ricevuto e riceveranno in aiuti umanitari.

Soprattutto in un momento di crisi come questo, continuare a supportare ogni sforzo per abolire questa piaga è fondamentale, fosse anche solo per non accorgersi, una volta in salvo, di aver lasciato il futuro indietro.

Federica Renzoni

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