Perché le donne sono più religiose degli uomini

Perché le donne sono più religiose degli uomini? Gli ultimi studi ci forniscono alcune risposte e ci indicano che il gap è superabile, ne parla Raffaele Carcano sul n. 2/2021 della rivista Nessun Dogma.
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Gli studiosi della religione discutono, talvolta accanitamente, pressoché su tutto – incluso lo stesso concetto di “religione”. Su una questione sono però sostanzialmente d’accordo: nonostante quasi tutte le religioni le discriminino, le donne sono mediamente più religiose degli uomini. È una constatazione supportata da una mole di dati così imponente che la discussione finisce per essere circoscritta alle cause che stanno alla base di questa differenza.

Qualche tempo fa il sociologo (e apologeta cristiano) Rodney Stark ha colpevolizzato il testosterone: che, notoriamente più alto tra gli uomini, li spingerebbe a un comportamento più «rischioso e impulsivo» quale… il non credere in dio. Ma non l’hanno seguito in molti, su questa impervia strada. Altri ricercatori hanno scandagliato la possibilità che l’x-factor sia da individuare nella mentalizzazione, ovvero nella nostra capacità di rappresentarci gli stati mentali degli altri. È una caratteristica che è fortemente sospettata di essere all’origine delle credenze religiose, perché si ritiene facile estenderla (arbitrariamente) fino a concepire stati d’animo perfino in realtà sprovviste di coscienza, o inesistenti. E poiché la mentalizzazione è largamente assente negli autistici Asperger (quasi tutti privi di credenze religiose) ed è invece presente in misura leggermente maggiore tra le donne, la circostanza potrebbe forse spiegare la minore religiosità degli uomini. Il problema, però, è che la differenza tra uomini e donne in materia religiosa non è identica ovunque, ma la sua ampiezza varia a seconda delle società in cui vivono (e, come vedremo presto, di quali religioni tradizionalmente vi predominano).

Non mancano, infatti, anche le possibili motivazioni di stampo culturale. La fede è considerata da tanti studiosi anche un meccanismo adattativo, e vi sono ricerche che mostrano che negare le discriminazioni di genere può portare a una maggiore sensazione personale di benessere. Su una linea simile si sono mossi Pippa Norris e Ronald Inglehart, che hanno considerato la più alta spiritualità delle donne come una sorta di reazione a una maggiore vulnerabilità, e quindi a una minore sicurezza esistenziale, che la religione contribuirebbe a mitigare.

Anche Marta Trzebiatowska e Steve Bruce, che nel 2012 hanno scritto il volume Why are Women more Religious than Men?, ritengono che alla base del diverso rapporto con la religione vi siano differenze sociali che si rinforzano una con l’altra, legate in particolare ai ruoli tradizionalmente ricoperti dalla donna (riproduzione ed educazione). L’emancipazione femminile e l’incremento dell’indipendenza economica potrebbe però gradualmente far scomparire il religious gender gap.

Sono tesi che hanno trovato larga (ma non assoluta) conferma attraverso una comparazione globale. Nel 2016 il Pew Research Center ha condotto sondaggi in 84 paesi rilevando che, su scala mondiale, l’83.4% delle donne apparterrebbe a un gruppo religioso, contro il 79,9% degli uomini. La più rilevante eccezione alla regola sarebbe rappresentata da Israele, l’unico paese dove gli uomini pregano significativamente più delle donne (un’evidenza confermata da un altro studio del 2018). In generale, ebrei ortodossi e musulmani dichiarano di frequentare più assiduamente i luoghi di culto rispetto alle proprie correligionarie, ma attenzione: la causa può forse essere ricondotta alla presenza di precetti religiosi che gravano più sui maschi che sulle femmine. Nei paesi a maggioranza cristiana la partecipazione al culto delle donne è invece significativamente più alta rispetto a quella degli uomini. Tuttavia si ridimensiona, e di molto, se il confronto viene ristretto a chi lavora.

In proposito, un’altra inchiesta del 2016 ha constatato come, negli stati Usa, una maggior religiosità sia correlata a un aumento nella forbice del reddito. Il legame è stato poi confermato nel 2020 da una ricerca che ha legato l’ineguaglianza di genere all’affiliazione religiosa e da un’approfondita analisi che ha incrociato l’importanza attribuita alla fede alle disuguaglianze retributive, mostrando che più è religioso un paese, meno sono pagate le donne. In dettaglio, la differenza di paga è dell’8% più ampia nei cinque paesi più religiosi rispetto a quelli più secolarizzati, ed è tale che, al ritmo attuale, svanirà tra 109 anni nei primi, tra 28 nei secondi. Le ricercatrici hanno proposto tre possibili spiegazioni per tale fenomeno: più un paese è religioso, più relega le donne nell’ambito familiare; più un paese è religioso, più è difficile per le donne accedere a incarichi di responsabilità; e più un paese è religioso, più oggettivizza sessualmente le donne (perché più un paese è religioso, più è attirato da pornografia e stupri).

Si delinea pian piano un quadro complessivo che trova ulteriore conferma consultando il World Values Survey, l’imponente inchiesta mondiale in corso ormai da quattro decenni, il cui ultimo set di dati è stato raccolto tra il 2017 e il 2020 in 79 diversi paesi. Sul totale del campione, il 75,4% crede in dio, il 20,8% no, il 3% «non sa», lo 0,8% non risponde. I credenti sono maschi per il 71,8% e femmine per il 78,8%; i non credenti, rispettivamente, sono il 24,2% e il 17,6%. Gli stati in cui è stato riscontrato un elevato numero di no alla domanda sulla credenza in dio sono caratterizzati da un numero molto più simile di atei e atee; quelli che si collocano in mezzo hanno invece una chiara preponderanza maschile; quelli in cui l’ateismo è un fenomeno marginale vedono spesso una quasi sostanziale parità, conseguenza inevitabile del basso numero di increduli. Per rendere l’esempio più chiaro si riportano i risultati relativi a tre diverse nazioni (da cui, per semplificare ulteriormente il concetto, sono stati tolti i «non so» e le mancate risposte): nei Paesi Bassi, dove gli atei sono il 56%, il 53% di essi è maschio; in Italia, dove gli atei sono il 16%, il 69% è maschio; nelle Filippine, dove gli atei sono soltanto lo 0,33%, la parità è invece assoluta. Un confronto con l’indice di sviluppo umano dell’Onu (basato sulla speranza di vita, il reddito e il livello di istruzione) rende ancora più eclatante un’ulteriore correlazione: i Paesi Bassi sono all’ottavo posto della classifica, l’Italia al ventinovesimo, le Filippine al centosettesimo.

Ma non mancano le eccezioni. Tra i paesi coinvolti nell’inchiesta non c’è in questo caso Israele, ma ve ne sono comunque nove in cui le atee superano gli atei: due sono orientali e caratterizzati da un’alta percentuale di non credenti (Macao e Thailandia), mentre gli altri sette presentano un basso tasso di incredulità; cinque di essi sono a maggioranza musulmana, gli altri due vedono comunque una forte presenza islamica. Significativo che, di questi sette, gli unici in cui i “senzadio” superano il 2% sono Turchia e Indonesia, due realtà con una lunga tradizione di tolleranza (oggi purtroppo a rischio). Ma è degna di nota anche la performance generale dei paesi orientali; la percentuale di atee è infatti molto alta anche in Cina, Myanmar, Vietnam, Hong Kong, Giappone e Corea del Sud (meno a Taiwan).

Il loro sarà anche un ateismo di stampo “buddhista”, ma il dato ci fornisce lo stesso una preziosa indicazione: il religious gender gap sembra proprio essere un fenomeno marcatamente cristiano. Se i paesi “protestanti” stanno recuperando terreno, quelli di tradizione cattolica e ortodossa segnano invece il passo – e lo segnano spesso anche nell’Indice di sviluppo umano. Si conferma quindi che, di norma, l’ateismo si diffonde molto più velocemente laddove istruzione, benessere economico e libertà di espressione si sono a loro volta già diffusi nella popolazione, garantendo quella sicurezza esistenziale a cui fanno riferimento Norris e Inglehart. Se gli uomini si secolarizzano prima delle donne è perché possono accedere anticipatamente a questi presupposti.

A questo punto restano però da comprendere le cause delle residue differenze. Se, per spiegare compiutamente la relativa parità “ex-musulmana”, occorrerà attendere che la secolarizzazione prenda piede anche in quel mondo, quella orientale, e in misura minore quella protestante, necessitano di qualche studio in più, e la discussione è quindi apertissima. Banalmente, potrebbe essere dovuta a una maggior tendenza a dare risposte false nei sondaggi da parte degli uomini, che tendono a «spararle più grosse» a seconda del contesto. Un fenomeno ben noto ai sondaggisti è peraltro quello della desiderabilità sociale, in cui l’intervistato risponde nella maniera che ritiene sia più gradita dall’intervistatore.

Uno studio olandese ha già cercato di comprendere perché nel paese persiste tra gli increduli una tenue predominanza maschile, e le risultanze sembrano sostenere la tesi che sia dovuta ai tratti di personalità più diffusi tra le donne (che, ricordiamolo, risultano anche essere leggermente più superstiziose degli uomini). Una riprova indiretta potrebbe essere fornita dalla recente notizia che, in Svezia, le pastore luterane hanno superato numericamente i pastori, nonostante sino a sessant’anni fa non potessero nemmeno essere ordinate, e nonostante ancora oggi guadagnino e contino meno dei loro colleghi. Quanto all’ebraismo e all’islam, i dati suggeriscono che non sia la fede a spingere alla pratica religiosa, ma che, al contrario, sia la pratica religiosa a far aumentare la fede. In società o ambienti che premono in quella direzione, e in cui è quasi impossibile ascoltare opinioni alternative, la pratica può rafforzare le proprie convinzioni anziché rigettarle.

La diffusa sensazione che l’Uaar abbia una prevalenza di attivisti maschi è dunque corretta, ma lo è anche la constatazione che accade lo stesso in (quasi) tutto il mondo occidentale, perché è la stessa base associativa, anzi, la stessa platea di potenziali associati a essere composta così. Lentamente la situazione si sta però riallineando, per di più all’interno di una tendenza all’ulteriore crescita numerica delle persone non credenti e di un declino generalizzato della religione. Pare proprio che, affinché il processo si completi, sia necessario dare alle donne la possibilità di una vita indipendente e un’adeguata protezione sociale.

A riprova, soltanto qualche mese fa abbiamo avuto la prima attestazione di un “sorpasso” da parte delle donne in un paese a maggioranza cristiana. La si trova in un corposo studio Usa sulla generazione Z, che comprende i giovani tra i 13 e i 25 anni. Il 38% si dichiara non religioso, ed è il frutto di una media tra un 40% di femmine e di un 36% di maschi. Lo Springtide Research Institute, che ha condotto la ricerca, non azzarda interpretazioni perentorie, ma avanza l’ipotesi che potrebbe essere una conseguenza della forte spinta degli ultimi anni in favore dell’uguaglianza di genere, che trova a sua volta riscontro negli altri dati raccolti.

In conclusione, sembra dunque plausibile sostenere che, se è vero che l’ateismo è più un frutto che un seme dello sviluppo umano, è altrettanto vero che le religioni somigliano talvolta a un agente infestante. L’affermazione dei diritti delle donne non passa attraverso le comunità di fede. Per fortuna, qualcosa sta però realmente cambiando.

Raffaele Carcano

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18 commenti

dissection

“L’affermazione dei diritti delle donne non passa attraverso le comunità di fede”. Mah, chissà come mai, non saprei proprio spiegare perché, ma è una cosa che mi sembrava di aver capito già da un pezzo… e comunque alla faccia di chi dice che la fede è consolatoria e inclusiva ( sì, ho sentito persino questo, tra le migliaia di altre cazzate buttate lì come spiegazione o addirittura “scusante” della fede, e se c’è bisogno di scusanti, è tutto dire). Articolo comunque ben fatto, i cui dati confermano in certo qual modo ciò che mi sono sempre figurato come causa, o cause, di questo particolare divario.

mafalda

Finalmente un articolo che parla di questo argomento. Le risposte al problema possono essere svariate ma sicuramente il motivo per cui le donne sono così religiose è prevalentemente culturale. Nei Paesi dove la figura femminile è vista come mamma accudente o come domestica le religioni vanno alla grande, e finché la politica tollererà manifestazioni arretrate e soprusi (dal non poter abortire liberamente alla costrizione del velo, a veri e propri delitti) giustificandole perché “cultura”, non si andrà da nessuna parte.

Diocleziano

Sarebbe da chiarire il perché della devozione femminile – prendiamo a modello il mondo cattolico – in una società profondamente contaminata dalla religione: ma è una religione a conduzione totalmente maschile! E allora? Allora parliamo di controllo della mente, non di ‘credo’ o di ‘spiritualità’. Nessuno crederebbe spontaneamente nelle cazzate della religione cattolica, certamente non dopo duemila anni di sedimentazione della mitologia greca.

mafalda

È assolutamente controllo della mente, imparato a scuola, a dottrina e soprattutto a casa, perpetrato dalle donne stesse! È il desiderio ancestrale di sicurezza, da cercare nel gruppo e nelle tradizioni religiose. E poi ci sono le donne “Meloni”, le più infime, che hanno soldi, potere e credono di avere fede o spacciano di averla, pessimi esempi per le ragazze.

RobertoV

Al di la della questione di come si valuta la religiosità di una persona direi che ci sono due fattori: il primo legato ad un conformismo, cioè una donna non religiosa in una società religiosa e bigotta ha molto più da perdere come considerazione ed immagine se non fa il suo dovere e si ribella, cioè di fatto è meno libera nelle sue scelte, il secondo è legato ad un’illusione di riscatto fornito dalla religione. Basterebbe pensare a come in passato gli emarginati e meno istruiti contadini o schiavi fossero più religiosi perchè la religione li illudeva di essere dalla loro parte, evitando che si ribellassero allo sfruttamento. Con l’istruzione e l’emancipazione femminile questo gioco non funziona più.

iguanarosa

RoberrtoV, mi sembra una delle spiegazioni più plausibili.
Noto anche maggior attaccamento dei religiosi, veri o finti, alle tradizioni e al conformismo, di cui fa parte la religione.
Gli uomini cercano di apparire più trasgressivi da giovani o almeno ci provano. Poi diventano più quieti. Molte donne ci arrivano con la maturità.

RobertoV

Come si misura la religiosità?
Mi sembra che sia un dato piuttosto aleatorio e rilevarlo dalla frequentazione ai luoghi di culto o da quanto preghi una persona sia opinabile.
Perchè fotografa se mai un conformismo sociale ed è indubbio che una donna ha più da perdere, come si vede anche in altri ambiti, dal non conformarsi, ad avere comportamenti non convenzionali, sia per il giudizio degli altri che di quello interiorizzato dall’ambito culturale in cui è cresciuta.
In campo mussulmano invece una donna ha una minore libertà di movimento e, quindi, è più difficile per lei frequentare un luogo di culto o partecipare a preghiere collettive perchè relegata nell’ambito domestico ed anche lì con limitazioni nella sua partecipazione alla vita sociale. Gli uomini hanno più precetti religiosi da rispettare perchè sono quelli nelle condizioni di poterlo fare per come è costruita la società.

G. B.

Per quanto riguarda in particolare i paesi occidentali va rimarcato che fino a pochi decenni fa le donne erano mediamente meno istruite degli uomini: questo vale almeno fino agli attuali over 60. Poi le cose hanno cominciato a cambiare e fra le generazioni più giovani il rapporto si è invertito, e infatti il divario fra religiosità maschile e femminile è diminuito. Sull’argomento si può vedere il libro di Franco Garelli, “La fuga delle quarantenni”.

Mixtec

Se le femmine umane sono più religiose dei maschi umani questi ultimi, quando sono religiosi (senso lato, includente le ideologie totalizzanti)sono più pericolosi: possono praticare sacrifici umani, lapidazioni (di adultere o di blasfemi), decapitazioni pubbliche, roghi (specie se sono piromani da carenza di serotonina). Ovviamente la carenza di serotonina o l’ipertono dopaminergico possono essere presenti in maschi e femmine, ma i loro effetti variano anche in dipendenza di contesti ormonali o, in genere, del funzionamento dei vari sistemi corporei.
Bisogna anche tener conto di come il cervello umano si è formato durante l’evoluzione: adesso se ne occupano gli studi cognitivi ed evoluzionistici.

Maurizio

Secondo il cristianesimo e secondo l’Islam (e secondo chissà quante altre fedi) la donna è un essere inferiore, relegata alla conduzione di casa e prole, condannata a nascondersi in varia misura, impedita agli accessi nelle cariche ecclesiali.
Allora perché mai una donna dovrebbe aderire così devotamente ad un sistema che la discrimina?
Masochismo.

Mixtec

Si può cominciare a rispondere studiando come si è formato, durante l’evoluzione dei Vertebrati, il cervello dei Primati e dell’Homo sapiens in particolare. A questo proposito cito, come al solito, “Theism as a Product of the Human Triune Brain”, i cui due primi capitoli sono dedicati all’evoluzione ed al funzionamento del cervello umano. Nei capitoli seguenti sono analizzati alcuni comportamenti di dominanza e sottomissione, fra cui quelli religiosi.
Il libro è gratuitamente scaricabile dal sito:
unipa.academia .edu/MErnandes
oppure da:
researchgate.net/profile/Michele-Ernandes-2/research

pendesini alessandro

Nel 2000, un nuovo studio su circa 7 milioni di studenti non ha riscontrato alcuna differenza di livello cognitivo (o astrazione mentale) tra uomini e donne. Questa cancellazione delle (a volte pretese) differenze intellettuali suggerisce che non erano collegate a differenze biologiche, o predisposizioni genetiche, ma al fatto che le ragazze sceglievano (o scelgono), sovente, materie scientifiche meno dei ragazzi ! Quelle che non rispettavano la « regola » erano piuttosto mal viste o criticate… Ed è proprio per questo che le donne sono predisposte (salvo eccezioni sempre più rare) ad essere più vulnerabili (credulone, un po’ più « bigotte ») rispetto agli uomini, anche se questa caratteristica tende praticamente a scomparire nei paesi olisticamente sviluppati !
Va inoltre notato che il modo in cui pensiamo a noi stessi può influenzare fortemente il nostro modo di essere e ciò che diventiamo. L’immagine del sé si perpetua automaticamente, e che la stessa predisposizione genetica può avere conseguenze psicologiche divergenti a seconda del contesto culturale in cui evolve l’individuo.

Mixtec

“Uno studio olandese ha già cercato di comprendere perché nel paese persiste tra gli increduli una tenue predominanza maschile, e le risultanze sembrano sostenere la tesi che sia dovuta ai tratti di personalità più diffusi tra le donne (che, ricordiamolo, risultano anche essere leggermente più superstiziose degli uomini).”

Uno studio su come funzionino i Sistemi Limbico e Rettiliano (o dei Gangli della Base, termine forse preferito da Vallortigara) può metterci sulla buona strada. All’origine del pensiero magico c’è una buona attività del Nucleo Caudato, una riduzione dell’attività inibitrice del Sistema Limbico, e il Sistema Neocorticale si arrende e magari cerca di accampare qualche scusa (“non è vero ma ci credo”, oppure “io non ci credo (nell’efficacia del ferro di cavallo), ma mi hanno assicurato che funziona anche se non ci si crede”).
C’è poi la questione della religione come frutto del Sistema dell’Attaccamento, problema che interessa molto lo psicologo evoluzionista e cognitivo Kirkpatrick (“Attachment, evolution, and the psychology of religion,” 2005), che aborre l’idea che la religione posse essere un adattamento (come vorrebbero i suoi amici/rivali Sosis, Wilson (D. S., quello della “Cattedrale di Darwin”), Bulbulia ed allievi.

dissection

Sistema “Rettiliano”? Ma sul serio? Esiste veramente tale struttura nell’encefalo?

pendesini alessandro

Nel corso dell’evoluzione, il cervello si è perfezionato, senza fondere completamente gli elementi vecchi e nuovi. Si sono sovrapposti, mantenendo parzialmente la loro autonomia. Sul divano dello psicoanalista giace non solo un uomo, ma con lui una scimmia, un topo e un coccodrillo. Il funzionamento di questi tre cervelli è in realtà coordinato attraverso molte connessioni, quindi sarebbe troppo facile immaginarli indipendenti. Tuttavia, il loro ruolo nel comportamento rimane in parte quello che era nei nostri antichissimi antenati, mammiferi primitivi e persino rettili. Detto questo, la parte più primitiva del nostro encefalo è il cervello rettiliano (tronco cerebrale), cosi chiamato per la similitudine col cervello dei rettili che corrisponde a quanto necessario per funzioni biologiche vitali, automatici e invariabili, istinti, difesa del territorio, resistenza al cambiamento, ecc…che si manifestano anche nella vita sociale.

dissection

Pazzesco. Quindi il nostro cervello si è evoluto “aggiungendo pezzi”, per così dire? E per quanto primitivo, il cervello rettiliano, deriverà comunque da quello dei pesci, immagino?

Mixtec

Ad integrazione di quanto detto da Alessandro Pendesini, riporto qualche dato bibliografico. Il neurofisiologo statunitense Paul D. MacLean studiò l’evoluzione del cervello nel corso della seconda metà del XX secolo e, per quanto riguarda il cervello dei Primati, vi individuò tre componenti principali che chiamò “Complesso Rettile” (R-complex), Cervello Paleomammifero (Palaeo-mammalian brain o Limbic System) e Cervello Neomammifero, corrispondente alla maggior parte della Corteccia cerebrale. I suoi studi principali furono pubblicati tra il 1973 ed il 1990.
In Italia chi ne divulgò per primo le teorie fu il neuropsicofarmacologo Luigi Valzelli, del Mari Negri di Milano, collaboratore di Silvio Garattini, che è ancora in vita, mentre il primo è morto piuttosto giovane negli anni ’80. Pubblicò nel 1976 “L’uomo e il rettile”, reperibile adesso in vintage. Nel libro c’è qualche refuso: uno di essi è (a pag. 87) “Gaio Aurelio Valerio Domiziano”, che sicuramente dispiacerà al nostro Imperatore Diocleziano.
Nel 1979 comparve in Italia “I draghi dell’Eden,” di Carl Sagan, che descrisse il modello del cervello “trino” in particolare nelle pagg. 58-82.
Nel 1984 , introdotto da Luciano Gallino, Einaudi pubblicò “Evoluzione del cervello e comportamento umano”, raccolta di saggi di MacLean.
Nel 1990 MacLean pubblicò “The Triune Brain in Evolution”, di più di 670 pagine, e ricevette diverse critiche, cui Cory e Gardner risposero nel 2002 con “The Evolutionary Neuroethology of Paul D. MacLean.”
La polemica è continuata anche recentemente, secondo uno schema collaudato: il critico prima espone una versione falsificata del modello di MacLean, e poi si diverte a mostrarne la falsità.
Tra gli espositori del pensiero di MacLean c’è Franco Fabbro, autore di “Neuro psicologia dell’Esperienza Religiosa” (2010); ci sarebbe anche Cozolino (“Neuroscienze per i clinici,” 2021, p.224)

Mixtec

“E per quanto primitivo, il cervello rettiliano, deriverà comunque da quello dei pesci, immagino?”
Certamente, il cervello dei Vertebrati, dai Pesci ai Mammiferi ed agli Uccelli, è sempre composto dalle stesse parti: cambiano le dimensioni reciproche fra di esse.

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