Una velata verità sul patriarcato islamico: quella di Saman e le altre

Hina Saleem, ventenne pakistana cresciuta in Italia, viene uccisa nel 2006 dai parenti: era fidanzata con un italiano non musulmano, ma la famiglia voleva obbligarla a sposare un connazionale (ovviamente di religione islamica). Sana Cheema, venticinquenne di origine pakistana che rifiutava le nozze combinate dalla famiglia, trova la morte nel 2018 in Pakistan. Lì era stata condotta dai parenti, aveva subito violenze, le era stato sottratto il passaporto per non farla tornare in Italia. Oggi ci si interroga sgomenti su Saman Abbas, altra diciottenne di origine pakistana, attualmente scomparsa e secondo gli inquirenti probabilmente uccisa dai suoi stessi familiari.

Con il passare dei giorni, anche se Saman non si trova, pian piano si chiariscono dettagli e particolari di quanto successo. La sua famiglia (secondo le testimonianze) musulmana osservante considerava problematico, lesivo del proprio onore familista, il comportamento della ragazza che, ad esempio, non sempre rispettava il digiuno del Ramadan. Il suo fidanzato, connazionale, è stato più volte minacciato di sterminio della sua famiglia rimasta in Pakistan perché non era lo sposo già scelto per Saman. Trovato rifugio in una dimora protetta proprio per sfuggire al matrimonio combinato e fissato (un disonore per la nostra famiglia, protesterà la madre con gli assistenti sociali) pare sia stata convinta con l’inganno dalla stessa madre a tornare dove padre e zio le avevano già, letteralmente purtroppo, scavato la fossa. Lo stesso fratello dichiara candidamente: «Nella nostra cultura, va bene quando una ragazza scappa di casa, ma quando smette di essere musulmana lei viene uccisa» e «nel nostro Corano c’è scritto che se una smette di essere musulmana, deve essere sepolta viva» e lapidata. «In Pakistan viene fatto», conclude, «tutti i parenti mi raccontano queste cose».

Di Saman in Italia purtroppo ce ne sono tante, troppe. Nascoste spesso ai nostri occhi, che altrettanto spesso si rifiutano di vedere.  Ciclicamente ci scandalizziamo per il singolo episodio da prima pagina, uno di quei pochi dei quali veniamo a conoscenza, ma dimentichiamo in fretta e ci giriamo da un’altra parte. Tantissime ragazze “spariscono” dai paesi occidentali: dapprima non tornano a scuola, poi vengono obbligate dai genitori  al rimpatrio forzato e si ritrovano con nozze combinate, trapiantate in un contesto di regressione sociale e integralismo. Sempre se restano vive.

E proprio in questi giorni emerge pure Amira, ventiquattrenne pakistana che ha denunciato le violenze subite da lei e dalle sorelle in famiglia, anche qui perché erano considerate “cattive musulmane”, traviate dagli studi e dalla frequentazione di occidentali. Quando il fratello le ha fatto un occhio nero la minaccia è stata esplicita: «Farai la fine di Sana Cheema». Anche lei, che viveva a Concesio, bassa Valtrompia (nel bresciano, non in una provincia del Pakistan), ha raccontato: «Nella nostra cultura le punizioni corporali sono la norma. Noi ragazze veniamo educate alla sopportazione per non scappare dal marito una volta sposate». E anche lei riferisce di una zia, in Pakistan, vessata e picchiata perché non sposata e morta in maniera sospetta. A proposito di giustizia pakistana – e di interventi diplomatici che paiono nascondere la polvere sotto il tappeto – giova ricordare che i coinvolti nella morte di Sana sono stati tutti assolti. L’ennesimo velo pietoso su un’altra morte di una ragazza che voleva emanciparsi dall’oppressione integralista: evidentemente anche lei è stata colta da “malore”. Somiglia tristemente alla versione pakistana del “traffico” palermitano.

Diventa ozioso quindi fare distinzioni tra il presunto dettato “puro” dell’islam contrapposto a incrostazioni e degenerazioni tribali o familiste che con la religione non c’entrerebbero nulla. La superfetazione del particolarismo, l’ipostatizzazione della diversità come ha scritto qualcuno, sono solo palliativi da salotto utili a nascondere dietro al dito questioni scomode che richiederebbero prese di posizione ancora più scomode. La religione musulmana, per la sua pervasività e per il suo carattere prescrittivo, si lega fortemente ai dettami dell’onore, del rispetto dell’autorità e della famiglia e li ha integrati nel suo impianto. Non seguire certi principi può giustificare una condanna a morte, eseguita dallo stato confessionalista con tutti i crismi del diritto locale o dalla teppa islamista che pretende di farsi “giustizia” da sé. Succede, e spesso lo denunciamo, in diversi paesi (islamici) dove l’ateismo in quanto tale è passibile di pena capitale. Come d’altronde fa qualsiasi religione non addolcita da illuminismo e secolarizzazione. Come avveniva tra i nostri lidi fino a qualche secolo o decennio fa. E noi italiani lo sappiamo bene, dal matrimonio riparatore allo stupro reato contro la morale. O dal delitto d’onore o di mafia alla connivenza secolare col retaggio cattolico. Per questo il conformismo comunitario, anche nelle forme più brutali, trova tuttora un’ampia giustificazione in vaste zone del mondo. Certo, sarà anche possibile trovare qualche frasetta attribuita a Maometto che è dolce con le donne, o di qualche oscuro pensatore musulmano ignoto ai più. Ma, viene da chiedersi, se il profeta e i suoi epigoni erano così femministi, come mai la condizione delle donne nei paesi musulmani è mediamente così al di sotto degli standard dei diritti umani, tutt’oggi? Sarà un complotto demo-pluto-occidental-capitalista-colonialista contro il “vero” islam?

Purtroppo come dicevamo è scomodo avanzare una schietta riflessione laica. Perché i temi roventi dell’islam e dell’integrazione dei musulmani generano opposte fazioni. Da una parte la sinistra è in imbarazzo perché la critica alle derive religiose di una categoria che subisce discriminazione e razzismo farebbe il gioco delle destre. Ci ritroviamo con una (quasi) scena muta da parte di quelle stesse femministe che sono leste a schiacciare la più piccola cimice del patriarcato e del maschilismo targata “occidente” ma sembrano non notare l’elefante islamico nella stanza. Si pensi alla questione del velo, addirittura rivendicato da troppa sinistra nostrana come esercizio di libertà religiosa e non come evidente sottomissione di una sola metà del cielo. Come se fosse davvero possibile parlare di libertà quando condanne, prigione o anche “semplici” linciaggi in troppi paesi accolgono le donne che quel velo decidono di toglierselo. Dal canto suo la destra, con la retorica dell’identità cristiana e la promozione dell’integralismo autoctono, approfitta di questi episodi per montare campagne ostili verso i migranti e in generale verso i non italici non caucasici tutti, che tracimano spesso e volentieri nella xenofobia. Mentre non trova nulla da ridire sull’elefante del confessionalismo cattolico, anzi lo alimenta strumentalmente in nome di valori e ortodossie che ama però nel privato trasgredire volentieri. È però necessario uscire da questo gioco delle parti (peraltro non direttamente coinvolte) e iniziare ad ascoltare le voci di queste donne che lottano per la propria libertà. Che è anche la nostra. Da laici, e quindi in teoria più emancipati dagli infingimenti religiosi e da lacciuoli ideologici o identitari, bisogna anche avere il coraggio di applicare lo stesso metro che non esitiamo a usare per le invadenze clericali di preti e affini alle assurdità delle religioni più vicine.

Quindi bisogna riconoscere che anche l’islam può essere un problema. Anzi, che un certo islam integralista è un problema. È chiaro che islam vuol dire tutto e niente: è un fenomeno ampio e variegato, srotolato in secoli di storia. Occorre distinguere tra correnti, comunità e persone che cercano integrazione e apertura ai principi moderni e illuministi e quelle che non lo fanno, che pretendono di costruire delle enclave dove predomina la sharia anche in occidente. È un po’ come la questione del velo. Non a caso spesso si legano, dato che nel pacchetto familista appioppato a queste ragazze non manca. La religione islamica di per sé formalmente non impone di indossarlo, ma molte correnti mainstream lo promuovono per questioni ideologiche e politiche – spesso strumentalizzando il concetto tollerante di libertà. E da laici, non possiamo nasconderci cosa significhi, e come sia spesso uno dei fronti su cui si scontrano le ragazze con le proprie famiglie: la donna che lo indossa è una donna virtuosa, timorata, veramente credente. Quella che non lo mette è considerata meno osservante, fino ad essere bollata come poco di buono se non una sgualdrina, succube delle sirene occidentali. Non a caso Mona Eltahawy, attivista femminista musulmana di origine egiziana, racconta di come ha deciso di non mettere più il velo. Era sulla metro, al Cairo, a 25 anni. Lei aveva l’hijab e una donna voleva convincerla a indossare il niqab (versione più estrema, lascia scoperti solo gli occhi) con queste parole: «Preferisci mangiare un caramella che è incartata o una già scartata?». E l’altra era già quasi tutta “incartata”. Ma le donne non sono caramelle che attendono di essere scartate da un marito.

Un capitolo triste sarebbe da aprire a parte proprio sul ruolo attivo che le donne svolgono per perpetuare questa oppressione integralista, per generazioni. Vittime quanto complici, talvolta carnefici. Chi ha letto Il racconto dell’ancella, romanzo distopico di Margaret Atwood che parla di una teocrazia cristiana negli Usa ma non a caso è ispirato anche all’Iran della Rivoluzione, può immaginarlo. O chi legge le tante testimonianze delle donne che si sono emancipate dall’islam integralista. Basti citare, tra le innumerevoli, Masih Alinejad: attivista iraniana contro l’obbligo del velo, di cui Nessun Dogma ha pubblicato la biografia.

Cosa si muove nel mondo musulmano nostrano, dopo l’ennesimo caso – quello di Saman? Illuminante è la testimonianza recente su Il Fatto Quotidiano di Dounia Ettaib, attivista musulmana per i diritti delle donne arabe e cittadina italiana di origine marocchina, che ebbe il coraggio di denunciare l’omertà delle comunità musulmane più integraliste nei confronti del caso Hina Saleem. Aggredita per questo da connazionali, messa sotto scorta, Ettaib ammette che dopo 14 anni dalla scomparsa di Hina nulla è stato fatto in concreto. Anzi la situazione a suo dire peggiora per le giovani, che si trovano in bilico tra due realtà, quella occidentale di scuola e società e quella delle comunità chiuse di origine che impongono di conformarsi al bigottismo musulmano. C’è tanto lavoro da fare proprio tra le famiglie, per favorire una concreta integrazione e un dialogo proficuo che preveda diritti ma anche doveri. Non solo insegnando la lingua ma anche introducendo ai concetti base del nostro stato di diritto e della società occidentale, diritti, uguaglianza e laicità compresi. Un ripassino non farebbe male anche a tanti cattolici autoctoni, in verità. Altro punto su cui Ettaib mostra il suo scetticismo è la roboante fatwa promessa dall’Unione delle comunità islamiche d’Italia contro i matrimoni combinati e l’infibulazione, paradossalmente sostenendo però che non c’entrerebbero nulla con l’islam.

Una fatwa può aiutare? A parte la difficoltà nello stabilire quanto sia legittima per le comunità musulmane, variegate, divise spesso per etnie e nazionalità e senza un’autorità “papale”, è proprio la fatwa a dimostrare quanto certe pratiche violente siano giustificate o tollerate in senso religioso da innumerevoli imam. Altrimenti non ci sarebbe bisogno di una spinta religiosa uguale e contraria verso dei principi basilari del diritto umano. Da laici, per quanto ci riguarda una fatwa si riduce a un simbolico palliativo. Quella che serve davvero è trasparenza e collaborazione con le autorità pubbliche, la denuncia di situazioni problematiche e di violenze. E anche gridare meno all’islamofobia, in maniera vittimistica, per affibbiare a chi critica certe storture la patente di razzista. Ma le religioni, si sa, sono molto gelose nel mantenere il proprio potere sui fedeli. Come avviene d’altronde con l’eterna “riforma” della Chiesa per contrastare la pedofilia. Annunci su annunci e ritocchi cosmetici al Codice di diritto canonico.

Basterebbe molto meno: coinvolgere la giustizia “terrena” e non pretendere di gestire certi fatti scomodi con quella “divina”. Cioè scoprire il velo che nasconde questa verità. E la sofferenza di tante persone. Non bisogna alimentare la pretesa di dare diritti in base all’appartenenza a comunità, ma garantirli agli individui in modo che possano esercitare la propria libertà e le esigenze di emancipazione. Come dice molto chiaramente il misconosciuto articolo 2 della nostra Costituzione: i diritti inviolabili vanno riconosciuti e garantiti al singolo cittadino e al singolo nelle formazioni sociali. Non sono queste a dare diritti all’individuo, ma al contrario è l’individuo che li esercita e che va garantito nel poterlo fare al loro interno. Solo così molti musulmani avranno chances per uscire dall’isolamento comunitarista e stemperare la diffidenza degli “infedeli”. Ecco, magari aiuterebbe iniziare a non discriminarli e a non ucciderli nei paesi islamici, e denunciare con forza quando ciò avviene. E non uccidere o discriminare le ragazze che hanno la colpa di voler uscire dalla cappa delle famiglie, anche in quelli occidentali.

Valentino Salvatore e Adele Orioli

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10 commenti

mafalda

Carissimi Valentino e Adele, questo articolo me lo stampo perché è perfetto sotto tutti i punti di vista.

Gérard

” Altro punto su cui Ettaib mostra il suo scetticismo è la roboante fatwa promessa dall’Unione delle comunità islamiche d’Italia contro i matrimoni combinati e l’infibulazione, paradossalmente sostenendo però che non c’entrerebbero nulla con l’islam ”
Questo mi fa tornare in mente la scomunica del Papa Francesco contro la Mafia e gli corrotti e i suoi risultati .

G. B.

Le religioni sono una forma arcaica del pensiero umano ed è abbastanza ovvio che coesistano con usanze e tradizioni obsolete, anche se non espressamente previste dalle religioni stesse. Così, ad esempio, la Chiesa cattolica ha fatto ben poco per opporsi al delitto d’onore o al matrimonio riparatore. Lo stesso credo si possa dire per l’Islam nei confronti dell’infibulazione o dei matrimoni combinati.
Fra gli interventi urgenti io metterei la protezione, effettivamente assicurata e ben reclamizzata, delle donne e delle ragazze che vogliono sottrarsi al clima soffocante delle loro famiglie. Chissà, magari qualche maschietto, privato della f***, potrebbe cominciare a rivedere certe posizioni.

mafalda

La protezione non basta, delitti come quello della povera coraggiosa Saman dovrebbero scuotere le coscienze e aggiornare i cervelli, dovrebbero esserci manifestazioni promosse dall’alto e proposte di legge (ma si fanno solo per i gay) per poter perseguire e punire molto severamente chi si macchia di queste infamie. E tutto dovrebbe iniziare da quando qualsiasi immigrato entra nella C. E. : giuramento e rispetto della costituzione e dei diritti dell’uomo, pena l’espulsione.

RobertoV

Il problema è che questa protezione consiste nel rompere completamente con la famiglia e la comunità, nel far cambiare città ed identità alla ragazza, col rischio sempre che qualche familiare o membro della comunità la trovi e la riconosca, sequestrandola e/o eliminandola. Un po’ come per i testimoni per mafia. Quante donne pensi siano disposte a rischiare così tanto? Puntando sulle protezioni rischiamo di vedere solo la punta dell’iceberg. Io legherei sussidi e posto di lavoro, accordi economici al rispetto dei diritti. Il problema è che spesso i paesi di provenienza hanno il coltello dalla parte del manico e non siamo disposti a rinunciare agli affari o alle convenienze politiche.

Gérard

Roberto V
C’é anche un altro problema che sopratutto accade negli paesi anglo-sassoni . C’è il caso di una ragazza di origine egiziana chiamata Jasmina Mohammed, cresciuta a Vancouver in Canada, una grande citta molto liberale, sempre ben piazzata nelle classifiche internazionali delle città dove è bello vivere . Avrebbe dovuto crescere e diventare canadese come tutte le altre ragazze . Solo che la famiglia è fondamentalista, composta da una madre tirannica e un patrigno violento che la picchia . La costringono a portare lo hijab e le impediscono dki simpatizzare con i ” Kuffar ” ( miscredenti non musulmani ) . Fu infine costrettta ad un matrimonio combinato con un uomo violento vicino agli djihadisti e che la picchia . Finalmente fara una fuga e va dalla polizia e fa vedere le sue ferite, viene presentata da un giudice che la rimandà… alla sua comunità !!! ” Queste pratiche sono comune nelle comunità musulmane . Non vogliamo interferrire !! ” Si è sentita dunque tradita e ha sentito un razzismo nella societa canadese che con la scusa della tolleranza per le differenze culturali, lascia molti di suoi abitanti subire trattamenti inumani a donne emigrate . Si è presentata davanti alla sua madre senza hijab che l’ ha cacciata via . Soltanto con l’ aiuto di societa umanitarie laiche ha potuto uscire da questo inferno . Raconta la sua storia in un libro in inglese, non ancora tradotto . Raconta in questo libro che è anche una critica contro l’ ipocrisia di apertura multiculturalista cose come questa .. ” Un giorno, sento la testimonianza di una giovane ragazza iraniana che ha avuto le ginocchia rotte dalla polizia dopo averle tolto il velo, e il giorno dopo, vedo le bambole Barbie velate che stanno per essere vendute a piccole donne canadesi. Sapete cosa dice oggi la polizia religiosa iraniana alle donne? “Anche in Occidente le donne non musulmane difendono l’hijab, e tu, ti piacerebbe svelarti?” Usano queste neofemministe, che sono diventate gli utili idioti dell’islamismo. Senza rendersene conto, stanno combattendo contro le vere femministe, che rischiano la vita ” .

Aristarco

Che la religione Islamica, il Corano, gli Adid prevedano oppure no la “sottomissione” del sesso femminile, a chi si ritiene un Laico e pretende di vivere in una nazione Laica, non deve interessare, che sia per nascita oppure per scelta, valgono le leggi dello Stato in cui vive.
Quando accadono questi eventi criminali, mi pare assolutamente idiota il tirare in ballo la solita frasetta del finto benpensante del tipo: “Ma queste cose il Vero Islam non le consente”.
Sa tanto del solito tentativo di nascondersi dietro un dito, quel dito che gli imam sono soliti puntare contro le donne o peggio ancora verso gli Atei : “Tu non sai cos’ è il vero Islam”, per concludere con l’ immancabile minaccioso “Te lo insegno io !”.

G. B.

@ RobertoV
Veramente la povera Saman è stata uccisa proprio perchè, per ingenuità, aveva rinunciato alla protezione e aveva ripreso i contatti con la famiglia, nonostante i responsabili della sua protezione avessero cercato di dissuaderla.
Sussidi e posti di lavoro, oltre a quelli che già hanno, magari con premi speciali per chi fa più figli? Così ne vengono ancora di più, e poi abbiamo già i nostri poveri e i nostri disoccupati. E poi non credere che gli islamici siano tanto poveri; nella mia città ne vedo uscire da condomini più eleganti di quello dove abito io.
Visto che l’islam penalizza in modo particolare le donne, aiutare quelle fra loro che vogliono ribellarsi ai loro padri/mariti/zii/fratelli e cugini mi sembrerebbe una buona strategia, naturalmente non l’unica.

RobertoV

Quando parlavo di sussidi e lavoro mi riferivo proprio al condizionarli al rispetto dei diritti, non ad un premio da dare nella speranza che migliorino. Cioè se non li rispetti perdi il lavoro e sussidi che hai, in modo da utilizzare uno strumento di pressione sulle famiglie e la comunità. La povera Saman è stata uccisa perchè non è così facile rompere con la famiglia e la comunità e quindi è una scelta minoritaria: basta vedere quello che succede anche con le donne che subiscono violenze e stupri e non denunciano. Anche in quel campo sappiamo che il sommerso è nettamente superiore al denunciato.

G. B.

“Quando parlavo di sussidi e lavoro mi riferivo proprio al condizionarli al rispetto dei diritti, non ad un premio da dare nella speranza che migliorino”. Il chiarimento era necessario, è vero però che a parole magari si dichiarano a favore dei diritti, nei fatti no. Del resto non sarebbero certo gli unici a dire una cosa e farne un’altra.E poi come si fa a controllare che effettivamente rispettano gli impegni? Magari sarebbero capaci a dire che le loro donne scelgono liberamente di soffocare sotto il velo a 35 gradi all’ombra e le poverette, intimidite, pronte a confermarlo.

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