Molto distante da goliardie, supposti satanismi o controriti vendicativi, lo sbattezzo è l’esercizio di un diritto fondamentale. Il diritto alla libertà di coscienza, il diritto di scegliere se e a quale religione appartenere. Ne parla Adele Orioli sul n. 4/2021 della rivista Nessun Dogma.
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Anche se il conformismo inerziale e il proseguire tradizioni più per consuetudine che per informata convinzione fanno del battesimo, nell’immaginario popolar collettivo, più una festa al ristorante che un rito iniziatico, ciò non toglie la sua fortissima, primordiale, natura dottrinale dogmatica.
Con il battesimo infatti, come ci spiega il catechismo, da un lato «siamo liberati dal peccato e rigenerati come figli di Dio», dall’altro «siamo incorporati alla Chiesa e resi partecipi della sua missione». Una purificazione esorcistica quindi dal peccato originale, dogma tanto inossidabile quanto dal calante appeal, e al contempo un passaporto, ma di sola entrata, verso un’appartenenza confessionale e comunitaria specifica. Se il primo aspetto, per quanto palesemente in contraddizione con una divinità nota come supremo giudice (poiché nessuno risponde di fatto altrui men che meno infanti privi di capacità giuridica) rimane comunque confinato nella singola e individuale volizione nel crederci o meno, sicuramente più problematico da conciliare con la contemporanea elaborazione della dottrina e giurisprudenza sui diritti fondamentali è il venire eterodiretti verso una specifica identità religiosa. Da chiunque e persino di nascosto, peraltro, perché il canone 861 del Codice di diritto canonico ci ricorda ancor oggi come «in caso di necessità» il battesimo possa venire lecitamente impartito anche dal primo che passa purché «mosso da retta intenzione».
La Dichiarazione universale dei diritti umani, proclamata dall’assemblea generale Onu nel 1948, ci ricorda infatti all’articolo 18 come sia diritto di ogni individuo «la libertà di pensiero, di coscienza e di religione: tale diritto include la libertà di cambiare di religione», anche di non averne alcuna. Stessa formulazione per l’articolo 9 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata dal Consiglio di Europa nel 1950 e sulla cui base opera la Corte europea dei diritti umani a Strasburgo.
Se ogni individuo ha quindi come diritto fondamentale la possibilità di scegliere la propria appartenenza confessionale, la possibilità di scegliere una o più cosmogonie nel corso della vita, se ha insomma il diritto innato tanto di entrare quanto di uscire dal mondo-religione, in che modo si concilia questa sua libertà con l’essere stato, a pochi mesi, incapace di intendere e di volere, reso «membra di Cristo» e «membro della Chiesa»? Può concepirsi, e anche qui forse e con un po’ di fatica, solo e soltanto ove sia presente di contralto anche un modo, chiaro, netto e agevole per poter rinnegare questa appartenenza imposta nel caso non sia (più o mai) voluta.
Anche se la nostra Carta fondamentale non nomina la libertà di coscienza, riconosce e garantisce all’articolo 2 i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità; ed è la stessa nostra Corte costituzionale ad aver sostenuto in tempi non più recentissimi che: «senza che l’appartenenza sia accompagnata da alcuna manifestazione di volontà in tal senso, viola appunto quella “libertà di adesione”, che è tutelata dagli articoli 2 e 18 della Costituzione». (Sentenza n. 239/1984). Il problema è che lo ha sostenuto a proposito dello statuto delle Comunità ebraiche, mentre mai la questione del pedobattesimo è giunta agli alti scranni. Ma in quelli inferiori della magistratura in generale, soprattutto in tema di diritto di famiglia, si è ancora portati a considerare il battesimo come un gran bel dono apportatore di valore aggiunto piuttosto che il veicolo di un’appartenenza forzosa. Per quanto la stessa Costituzione, all’articolo 30, sottolinei il diritto-dovere di educare e istruire i propri figli, resta invece a noi difficile considerare la creazione di un vincolo di appartenenza permanente, la sottoposizione inconsapevole a un ordinamento aggiuntivo e distinto, come pienamente adesivo ai valori costituzionali. Se è vietato, come è, iscrivere la propria prole minorenne a sindacati o partiti politici, ben si potrebbe argomentare con ancor più forti remore nel caso ci si appresti a conferire un crisma/stigma di appartenenza irreversibile.
Quanto questa prospettiva giuridica non sia un astratto esercizio di stile ma sia passibile di riverberarsi con dirette conseguenze sulla vita del comune cittadino, quand’anche non credente, ce lo racconta l’origine del nome stesso “sbattezzo”, perlomeno nel senso contemporaneo di apostasia (abbandono della religione) formalizzata e riconosciuta.
Se infatti limitiamo l’analisi al secolo scorso e al significato contemporaneo che la procedura ha assunto, troviamo che questo termine vagamente dispregiativo, volutamente rozzo e cacofonico, fu coniato non a caso dal quotidiano dei vescovi, Avvenire, nel 1958. E fu inventato per irridere, svilire e mortificare le pretese di fuoriuscita formale dalla chiesa cattolica che proprio in quei giorni avanzava dai mass media dell’epoca niente meno che Aldo Capitini. Fervente credente, “religioso laico”, come lui stesso si definiva, fondatore della ancora annuale e attuale marcia della pace Assisi-Perugia, conosciuto addirittura come il Gandhi italiano. E che però chiedeva a gran voce di poter uscire dalla chiesa cattolica.
E ne aveva seri e concreti motivi. Si era appena risolta infatti la storia conosciuta come quella dei concubini di Prato: una coppia, Mauro Bellandi e Loriana Nunziati, che sposata solo civilmente era stata fatta oggetto di una vera e propria persecuzione da parte del parroco prima, e ancor peggio del vescovo poi. Additati come pubblici concubini, nefasti peccatori, negati i sacramenti persino ai loro genitori, costretti a chiudere la loro piccola attività commerciale a seguito di esplicito invito al boicottaggio da parte delle gerarchie ecclesiastiche, avevano querelato il suddetto vescovo, tal Fiordelli, per diffamazione. E in primo grado avevano pure vinto, ben quarantamila lire di risarcimento. Fino al ribaltone, dopo accurato pressing in tal senso per tutto lo stivale, tra preghiere di riparazione e manifestazioni di sostegno al “povero” presule, coordinate dal conosciuto come progressista cardinal Lercaro che parò a lutto tutte le chiese di Bologna facendone suonare le campane a morto per un mese di fila.
Ribaltone, dicevamo, operato dalla Corte di appello di Firenze. Che ritiene sì il vescovo colpevole di diffamazione, ma non dei coniugi in quanto cittadini, ma dei coniugi in quanto battezzati. E in quanto battezzati, sottoposti al diritto canonico. Ci spiega infatti la Corte che il vescovo ha «agito lecitamente nell’ambito della sua giurisdizione spirituale», ledendo pertanto solo la “reputazione religiosa” dei Bellandi, diritto soggettivo solo in un ordinamento estraneo a quello statale, che pertanto non lo può tutelare. Anzi, proprio la Costituzione ha, secondo la Corte, «assicurato la più ampia libertà» all’espressione di queste forme di censura religiosa.
Ed ecco che torniamo ad Aldo Capitini, al suo sdegno dopo questa assoluzione così pregna di potenziali significati lesivi del diritto di tutti e ciascuno a poter essere protetti qualora vengano negate, seppur in ambito confessionale, prerogative costituzionalmente riconosciute. Ma per vedere esaudita la sua richiesta è necessario un grosso balzo in avanti, un fast forward di più o meno concreti tentativi, fino al 1995 e al lancio della Campagna di bonifica statistica della quale parla Raffaele Carcano più avanti. E soprattutto fino alla geniale intuizione di Giorgio Villella, che intravide nella nuovissima normativa a tutela dei dati personali, l’originaria Legge 675/1996, il concreto “piede di porco giuridico” per realizzare quanto quarant’anni prima era stato negato. Luciano Franceschetti, allora segretario Uaar e «vecchio docente e studioso di germanistica, ateo ma molto lontano dai movimenti anarchici e anticlericali», ricorre al Garante per la protezione dei dati personali contro il rifiuto dell’arciprete di Padova di cancellare i suoi dati dai registri battesimali, per almeno due motivi: il diritto all’oblio, da un lato, dall’altro la lesione della privacy, intesa come strumento di tutela dell’immagine personale, che non si vuole vedere associata a un’appartenenza forzosa non rispecchiante la propria filosofia e la propria eticità. Il 13 settembre 1999, con la decisione dell’allora Garante Stefano Rodotà, si pone finalmente la prima e fondamentale pietra dello sbattezzo come lo conosciamo e fortunatamente possiamo utilizzare oggi.
A dir la verità, anche dal laico Garante qualche cedimento alla specificità della chiesa cattolica in quanto ordinamento indipendente e sovrano c’è: viene infatti negata l’esistenza di un diritto alla cancellazione a fronte di un diritto ecclesiastico alla documentazione di un fatto storicamente avvenuto. Ma riconosciuto il diritto dell’individuo a fornire una corretta immagine di se stesso, si accerta il diritto alla integrazione dei registri, con una annotazione a margine che certifichi la volontà di non appartenenza e renda inutilizzabili i dati del richiedente, sia per fini statistici sia per finalità di contatto.
Fin da subito comunque viene riconosciuta la non condizionabilità di questo diritto: l’annotazione va concessa anche senza fornire le ragioni alla base della richiesta.
Da questo momento si susseguono le raccomandate per l’annotazione a margine dei registri battesimali. Tanto da costringere la stessa Conferenza episcopale italiana a normare la procedura nel novembre del 2002, lo stesso anno nel quale l’indomito signor Gianni C. vince il ricorso al Garante contro un riottoso parroco che si rifiutava di procedere. Nel 2003 viene ritenuta illegittima la richiesta, avanzata dal Vicariato di Roma e non solo, di presentarsi di persona per concludere la procedura: basta una raccomandata! Nel 2006, sempre per il tramite di ricorso al Garante, viene al contrario riconosciuta la cosiddetta “scresima”: per chi non conosce la parrocchia di battesimo o lo ha subito all’estero, si aggiunge la possibilità di procedere con gli stessi effetti presso quella di cresima.
Nonostante l’ovvia ritrosia delle gerarchie ecclesiastiche nell’attribuire allo sbattezzo una qualche rilevanza soprattutto numerica, nel 2006 dietro spinta dello stesso Ratzinger il Pontificio consiglio dei testi legislativi chiude il recinto a buoi scappati, e asserendo come l’uscita dalla Chiesa non possa sostanziarsi in un semplice atto amministrativo, si premura di disciplinare l’atto formale di defezione. Richiedendo però a tal fine anche quel contatto personale già escluso dal Garante, e costringendo l’allora presidente della Cei Ruini a intervenire a gamba tesa contro i suoi stessi superiori, facendo rettificare più che parzialmente la procedura d’Oltretevere.
Ed è sempre Ratzinger in persona con il motu proprio: Omnium in mente nel 2009 a modificare il codice di diritto canonico proprio per quanto riguarda gli sbattezzati ed escluderli dalla possibilità di accedere al matrimonio a rito misto come parte non cattolica. Sbattezzati, o nel dettaglio quindi apostati per atto formale di defezione, che per essere secondo i chierici annotanti così pochi hanno nel corso degli anni meritato a quanto pare ben più di una attenzione in alto loco.
Perché lo sbattezzo, così come enucleato dall’Uaar, non solo è un procedimento riconosciuto giuridicamente dallo stato italiano, di norma poco incline a concedere strappi al favor religionis che lo permea, con ormai solidi anni di elaborazione e precedenti positivi. Non solo si è dimostrato da quell’ormai lontano 1996 tutto fuorché un fenomeno effimero e residuale, che coinvolge ormai si stima più di centomila persone. Molto distante da goliardie, supposti satanismi o controriti vendicativi, lo sbattezzo è l’esercizio di un diritto fondamentale. Il diritto alla libertà di coscienza, il diritto a scegliere se e a quale religione appartenere, se e quale proselitismo essere obbligati a sostenere. Il diritto dell’individuo anche e soprattutto a scegliere la sua comunità e non a trovarvisi forzato e compresso, iscritto a forza. Diritto ben lontano da quella concezione organica della società, tanto cara anche al moderno multiculturalismo, che vorrebbe le parti in funzione del tutto; ma che si trova nel rovesciamento del tutto in funzione delle singole parti. Lo sbattezzo è e resta in questo un grande pericolo: non solo perché permette l’uscita dal gregge. Ma perché mostra anche la possibilità (e i vantaggi) del non entrarci proprio.
Adele Orioli
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Lo “Sbattezzo” va fortissimo.
Della restituzione dei prepuzi non abbiamo notizie, forse non è richiesta.
Per altri commenti, si veda
In uscita il nuovo numero di Nessun Dogma!
di qualche giorno fa.
Certamente l’apostasia è un diritto, ma se si tratta di ‘adesioni’ forzate e soprattutto a propria insaputa la legge dovrebbe essere chiara: non sono lecite.
Possiamo sperare che la chiesa abbia uno slancio di dignità e disponga che il pedobattesimo è solo un rito simbolico e quindi deve essere confermato dall’interessato al raggiungimento della maggiore età?
Monstruosso – come direbbe sua Banalità – che vengano accolti nella nostra giurisdizione concetti astrusi e impalpabili originati dal surreale ‘diritto canonico’. Contratti immaginari producono effetti immaginari.