L’Italia sta allontanando i suoi giovani

Il nostro paese, in stagnazione economica e sociale da più di due decenni, cede ogni anno all’estero il fior fiore del suo talento. Ne parla Simone Morganti sul n. 5/2021 della rivista Nessun Dogma.
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C’è chi sale, e c’è chi scende. Come c’è chi parte, e c’è chi arriva. Ma in un dibattito pubblico sempre più fossilizzato attorno al tema dell’immigrazione, si dedicano fiumi di parole e d’inchiostro ai nuovi arrivati, pochissime righe invece alle partenze. Per scrivere questo articolo so già che mi serviranno sei o sette ore. E in questo lasso di tempo, circa cento italiani se ne andranno. La maggior parte di loro sceglierà come nuova dimora il Regno Unito, o la Germania. Chissà quanti di loro faranno ritorno tra qualche anno – se mai lo faranno. O se decideranno di tornare in Italia nei mesi estivi, come turisti in patria. Quello che è certo è il presente: gran parte di coloro che partono sono giovani. E con un alto livello di istruzione.

Il nostro paese, in stagnazione economica e sociale da più di due decenni, cede ogni anno il fior fiore del suo talento. Più che di una fuga, si tratta di un’automutilazione brutale, frutto di scelte sbagliate e di un’arretratezza (non solo) tecnologica che si trascina avanti da decenni. E che la politica osserva arrendevole, spesso inerme e nel silenzio totale. La destra identitaria è fin troppo concentrata in guerre culturali interminabili a sostegno delle “radici” – ossia crocefissi, presepi e teocrazie straniere che interferiscono con i lavori del parlamento. Mentre per il neoeletto segretario del Pd Enrico Letta «serve manodopera che viene dall’immigrazione». Un bel tacer, insomma, non fu mai scritto.

A pensarci bene, le parole del segretario del Pd non devono stupire: non sono dettate da cattiveria o da razzismo delle basse aspettative, ma piuttosto ancorate a una concezione antidiluviana del mondo del lavoro. E così mentre l’Europa procede spedita nella transizione al lavoro sostenibile e tecnologizzato lo stivale resta a guardare. Nel resto del continente la digitalizzazione è un processo in corso da anni. In Italia invece le piccole e medie imprese, per lo più (77%), ci investono, ma i risultati sono poco incoraggianti. Tant’è che a raggiungere la cosiddetta “maturità tecnologica” secondo l’Istat sono appena tre imprese su cento. E se in Islanda e in Giappone lo slogan “lavorare tutti, lavorare meno” prende effettivamente forma con la sperimentazione di settimane lavorative brevi di quattro giorni (senza riduzioni in busta paga, ndr.), in Italia la riduzione dell’orario di lavoro non è un tema. Come spesso accade nei record negativi, primeggiamo anche per numero di ore lavorate: 1719 in un anno, contro una media Ocse di 1632. Per fare un confronto, in Germania sono 1360. E nei Paesi Bassi la legge non consente contratti di lavoro che superino le 45 ore settimanali. La situazione sa di paradosso: lavorano più le cicale delle formiche. Eppure queste ultime guadagnano più delle prime. E sono più felici. Del resto a contare non è solo la quantità di ore lavorate, ma anche la qualità del lavoro – e delle condizioni di lavoro: tempi nuovi richiedono profili di lavoratori aggiornati. E a che punto siamo nello stivale?

In Italia i lavoratori specializzati non mancherebbero, ma sono enormemente sottopagati rispetto alla media Ocse – per un confronto, se un ingegnere italiano guadagna in media 38mila euro annui, nei paesi Ocse si sale a 48mila (il governo Renzi, tra l’altro, pensò bene di farne motivo di vanto per attrarre investitori). E così in Italia chi si laurea sceglie spesso di trasferirsi altrove per inseguire una retribuzione più consistente. In molti invece preferiscono non laurearsi: i vantaggi in busta paga non sono poi così alti da ripagare anni di studio. Le percentuali del resto parlano in modo chiaro. Nei paesi Ocse a laurearsi è quasi un giovane su due (44%), in Italia appena uno su quattro (27%). Se questo trend non troverà una fine, ne scaturirà inevitabilmente una desertificazione culturale – oltre che economica.

Una delle vie più rapide per uscire da questa impasse, e rilanciare l’occupazione giovanile, sarebbe investire maggiormente in ricerca e digitalizzazione. La Germania ci ha già pensato, e caldeggia da tempo l’ipotesi di istituire un ministero per la transizione digitale – oltre ad avere in programma di investire il 90% dei fondi del recovery plan nella svolta ecologica e digitale. Nella classifica europea dei paesi più innovativi, l’Italia si trova invece al diciottesimo posto dietro a Cipro e Malta, e al terzultimo per investimenti nell’istruzione. Confindustria propone invece di investirne una parte per i festeggiamenti del bimillenario della morte e risurrezione di Gesù. Nello stivale, la retorica identitaria arriva quindi a influenzare anche le scelte di politica economica.

E così, come da ringkomposition che si rispetti, torniamo al tema di cui parlavamo all’inizio. Gli schieramenti politici sono concentrati o in una guerra culturale dai tratti identitari e xenofobi, o in una campagna xenofila che vede il futuro esclusivamente nel modello multiculturale. Bisogna però essere ciechi, o abbastanza furbi da far credere agli altri di esserlo, per non capire che rischiamo una desertificazione culturale e sociale senza precedenti. Nel mezzo di un’emorragia di cervelli sempre più grave e incontrollata ci si scanna sul valore delle radici nella speranza – o meglio, nell’illusione – di garantire un futuro migliore. E nel mentre, le sei ore di cui parlavo sono passate. Cento italiani, in larga parte giovani come me, hanno deciso di andarsene. Il paese è un po’ meno vivo. Un po’ più vecchio. Un po’ più morto.

Simone Morganti

 

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4 commenti

RobertoV

L’emigrazione dall’Italia c’è sempre stata, l’Italia non è mai stata capace di creare lavoro sufficiente per i suoi cittadini, neanche durante gli anni del boom economico, a cui anche le rimesse degli emigrati hanno contribuito. Cioè siamo sempre stati un paese che ha contato sull’emigrazione dei suoi cittadini. La differenza è che allora emigravano cittadini poco qualificati, mentre oggi emigrano tanti laureati, cosa demenziale perché significa che perdiamo il relativo investimento per la loro formazione ed il loro contributo al nostro sviluppo.
Ma per tenerli qui ed utilizzarli proficuamente dovremmo offrire opportunità di lavoro, sia come posti disponibili che come qualità del lavoro ed è noto che in Italia la qualità del lavoro è scarsa, non c’è mediamente bisogno di elevate qualifiche perché siamo un paese che non crede nello sviluppo scientifico e nell’innovazione tecnologica e parla di ricerca senza crederci. Ci illudiamo di essere all’avanguardia perché c’è qualche isola felice che contribuisce a nascondere il desolante quadro complessivo.
E negli ultimi decenni abbiamo ulteriormente peggiorato la nostra situazione ed aumentato il nostro divario con gli altri paesi avanzati, perché abbiamo smantellato per fare cassa, con una visione contingente che non guardava al futuro, buona parte delle nostre industrie all’avanguardia (dal settore petrolchimico, alla farmaceutica, all’elettronica, ecc.).
Relativamente alla digitalizzazione l’Italia l’anno scorso occupava uno degli ultimi posti in Europa, così come per la possibilità di lavoro flessibile ed innovativo come lo smart working: mentre nazioni come la Svezia ed i Paesi Bassi già prima della pandemia avevano quote di quasi il 40 % della popolazione in smart working parziale perché sono tra i paesi più digitalizzati al mondo, l’Italia con la pandemia si è trovata proiettata in un mondo a lei estraneo e con le inevitabili inefficienze del neofita e del non attrezzato. Ed invece di approfittarne per recuperare in fretta colpevoli ritardi vuole ritornare all’antico, come ben evidenziato dalle uscite di Brunetta che vuole pesantemente ridimensionarne l’utilizzo nella pubblica amministrazione, ignorando studi internazionali che evidenziano la correlazione positiva tra una pubblica amministrazione digitalizzata ed all’avanguardia e la digitalizzazione dell’intero paese e del suo apparato produttivo.
Ma per fare i salti necessari dobbiamo cambiare la cultura e la mentalità nazionale e guardare al futuro. Oltre ad essere pochi i laureati, solo uno su quattro è laureato in lauree stem, cioè in lauree scientifiche e tecnologiche, mentre impazzano lauree in giurisprudenza od economia, come si vede bene tra i nostri politici, sempre che non siano laureati del tutto. Proprio ieri sera mi è capitato di vedere in TV una laureata in giurisprudenza che discettava di medicina e forniva le sue ricette sul covid, contestando gli esperti. Se la gente non capisce la differenza tra un ciarlatano ed un esperto del campo e pretende di metterli sullo stesso piano non faremo molti progressi. Se penso che spesso davanti a scoperte scientifiche non manca mai il commento di un monsignore.
Il problema è che problemi complessi in Italia vengono regolarmente affrontati in modo superficiale e semplicistico con tifi da stadio e ricette miracolistiche, come si è visto con il covid o recentemente col nucleare, perdendo tantissimo tempo senza fare niente. Come si può cambiare la mentalità delle persone con una informazione così disastrosa su tematiche tecnico-scientifiche e produttive e guadagnare fiducia per il futuro?
Ai miei figli dico di studiarsi bene le lingue e di andarsene poi dall’Italia perchè non vedo un futuro in Italia: la mentalità è troppo legata al passato. Ogni minimo cambiamento in Italia genera interminabili discussioni, spesso pretestuose, ed avviene con colpevoli ritardi.

Diocleziano

Ho spostato qui il commento di Pendesini:

«… Purtroppo risula che nella graduatoria mondiale la migliore università italiana si classifica a circa il centesimo posto, quando invece decine di anni fa -o secoli- rivalizzavano con le migliori al mondo!
Aggiungo che l’astrazione mentale, o cognitiva dell’italiano non è di certo la causa di questa flessione. L’insegnamento SCIENTIFICO incluso l’antropologico lascia a desiderare ; i responsabili della cultura in questa branca non hanno tuttora capito -o fingono di non capire – l’importanza della scienza e le sue ricadute sulla prosperità sia intellettuale che ricchezza, o prosperità dell’Italia! …»

Sarà anche dovuto al fatto che si espone ogni nuova generazione al pensiero magico irrazionale
molto prima di formare la loro mente secondo natura. In nessun libro di scienze si contempla dio
come possibile alternativa.

RobertoV

Purtroppo non sono alcune sue eccellenze a fare una nazione, se si pensa che nonostante quel passato ancora a fine XIX secolo l’80 % degli italiani era completamente analfabeta.
Ed anche oggi nonostante alcune eccellenze che poi, guarda caso devono andare all’estero per essere considerati, oltre ad essere pochi i laureati, soprattutto in materie tecnico-scientifiche, c’è una disparità notevole di valore tra le varie università italiane.
Ma quello che manca è una mentalità generale tecnico-scientifica estesa, come si vede bene sia a livello politico, che a livello imprenditoriale e culturale, che nel dibattito per questa pandemia. Manca la capacità di recepire e tradurre in pratica le conquiste tecnologiche e scientifiche, la capacità di comprendere discorsi scientifici, la necessaria organizzazione e flessibilità e attitudine a cambiare e guardare al futuro. La scienza moderna non può vivere solo sull’iniziativa dei singoli, è meritocratica, mentre da noi domina il potere clientelare ed il principio di autorità.
E bisognerebbe chiedersi il perchè.
Quando più di 30 anni fa ho iniziato a lavorare nella ricerca ero convinto che nonostante il ritardo, nei decenni successivi la situazione sarebbe cambiata anche per l’Italia: purtroppo mi sbagliavo, devo constatare che la situazione è peggiorata ulteriormente. La ricerca in Italia è solo un bel argomento da salotto, per discussioni elitarie con cui nobilitarsi e spacciarsi all’avanguardia. Non ci crede nessuno, che siano politici, imprenditori o semplici cittadini.

Manlio Padovan

Sulla scienza e sulla tecnica
La scienza moderna, intesa nei suoi vari aspetti specialistici, legata come la religione agli interessi delle classi dominanti e pertanto ancella del sistema capitalistico industriale e quindi totalmente affidata al profitto e al mercato, non si è comportata come avrebbe dovuto con le sue applicazioni e con l’illusione di certi suoi dogmi. Dalla sudditanza al profitto e al mercato nasce la necessità di un controllo democratico della ricerca e delle sue applicazioni; in quanto se la scienza dice la verità occorre costringere chi viene dopo a rispettarne i dettami, se essa non è cosa seria occorre costringerla a dettare pratiche convenienti all’uomo. È a seguito delle applicazioni della scienza che l’agricoltura moderna ha annullato pratiche naturali tuttora valide come la convivenza di pratiche di allevamento con pratiche di coltivazione, conoscenze ancestrali quali l’uso sapiente del letame come concime: quel letame che oggi è diventato un contenitore di indescrivibili porcherie a causa di alimenti non conformi e medicine date a tutto spiano.
“Come escludere che quella maggiore attività biochimica e lo stesso contenuto superiore in vitamine dei prodotti provenienti da terreni letamati, non costituiscano un ulteriore aspetto da molto considerare?” (A. Draghetti Principi di fisiologia dell’azienda agraria)
Ma sono state cancellate pure le rotazioni delle colture, capacità originali e diffuse, attitudini vere, ingegni impareggiabili perché veramente multiformi: che non coltivavano, cioè, la mortifera specializzazione che rattrista l’uomo e gli toglie la visione dell’orizzonte entro il quale egli ha la posizione di sé stesso. La scienza economica ha negato economie certe e necessità reali come il lavoro cooperativo; ha cancellato il valore sociale dell’autoproduzione.
Un conoscente, uno di quelli che non si lascia scappare occasione per tradire in silenzio il patto sociale e che è titolare di una azienda produttrice di latte che alleva vacche di razza Pezzata nera, si è lasciato invece scappare la confidenza che il tasso di fertilità delle vacche da latte, oggi, è pari ad 1,7; cioè: una vacca da latte, oggi, nel corso della sua vita non riesce a partorire in media più di 1,7 vitelli!!!
“Non mangiano più erba ma cibi secchi: così aumenta la produzione a scapito della qualità…Le mucche dovrebbero produrre circa 15-20 litri di latte al giorno. I cosiddetti “miglioratori” delle razze si sono dati molto da fare negli ultimi 20 anni e hanno portato le vacche a farne oltre 50 litri al giorno. Prevale la logica della produzione e del profitto ma il latte risulta povero di sali minerali e vitamine e quindi senza il gusto di una volta. “(C. Petrini Perché non sa di nulla il latte che beviamo “il manifesto” 3/8/2007)
Aggiungo che: la vita di una vacca è passata da 15 anni a 6 anni; il peso da 450 kg a 700 kg; con i parti da 7 o 8 si è arrivati a 1,7; il guadagno per il produttore, se è onesto, si riduce sempre più!! E gli speculatori del mercato e i produttori disonesti, ormai unici rimasti sul mercato, godono. Questi i bei risultati che si sono ottenuti con l’asservimento dell’agricoltura all’industria per il tramite della scienza e della tecnica da essa derivata. E non parliamo della forma dei capezzoli delle vacche da latte, che se non sono adatti al robot sono guai perché l’attuale agricoltore non ha più voglia di mungere; ma lo dicono quelli della “scienza” industriale! Va bene così? Per i disonesti, finché gli altri ci mantengono, certo!
“Gli esperti di allevamenti che abbiamo consultato ci hanno spiegato che piuttosto che buttare i soldi sulla scienza della clonazione, sarebbe meglio investire sulla struttura abitativa degli animali. In un tempo di cambiamenti climatici, una genetica troppo raffinata sarebbe un ulteriore guasto. Tanto più se la genetica è connessa a sistemi di allevamento crudeli, in luoghi dissennati. ” (G. Ragozzino “il manifesto” 12/1/2008)
Mi sono volutamente astenuto dal commentare la questione della cosiddetta “mucca pazza”. Essa non ci è caduta dal cielo; ma merita di essere commentata con poche parole: dando della testa di cazzo ai cosiddetti specialisti che hanno preso un erbivoro per un carnivoro per puri fini economici aziendali costringendo così il mondo intero a rinunciare a pietanze saporite e di basso costo: a me pare ormai che da un tempo infinito sia diventato impossibile gustare squisite cervella fritte oppure lesse e condite con olio pepe e sale.
Ma, soprattutto, vale la constatazione che i problemi vanno affrontati prima di tutto filosoficamente, umanisticamente, politicamente, e poi risolti con la tecnica. Questo non significa imbrigliare la ricerca scientifica, ma dedurne quanto all’uomo è utile.
È passata di moda la pratica incivilissima che vedeva, nelle stalle, le vacche immerse fino ai ginocchi nella loro stessa merda? Una pratica che non si sarebbe dovuta nemmeno immaginare solo pensando che nessun agricoltore, nessun tecnico, nessuno specialista, nessuno scienziato, insomma: nessuna donna e nessun uomo, si sarebbero sentiti di vivere in quella condizione. Troppo semplice da pensare per gli specialisti? Ed io ho visto ciò anche in una azienda pilota dell’agricoltura biodinamica! In una di quelle aziende, cioè, che farebbero della fedeltà alle leggi di natura il loro vangelo. Ed è scientifica la prassi di togliere il germe ai semi di mais destinati ad alimentare polli e loro compari, togliendo così al seme l’elemento più importante? Ma è ancora in atto e si diffonde sempre più, quel crimine contro l’umanità e contro gli animali che sono gli allevamenti intensivi per la produzione di polli, tacchini, uova, ma anche maiali. Allevamenti intensivi che soddisfano solo gli interessi economici dei proprietari degli impianti; e che sono responsabili, per almeno il 30%, dell’inquinamento che dobbiamo sopportare. Allevamenti intensivi nei quali in spazi ristrettissimi si allevano animali addirittura a centinaia di migliaia, alimentati in modo scientificamente incivile. Ma su quei prodotti, che in genere fanno schifo, mai sentirete una qualsiasi critica sia pur debole da parte dei soloni dell’alimentazione umana, della scienza dietetica, della diabetologia, della salute umana, tutti buoni amministratori dei codici di riferimento delle nostre patologie. E come giustificare l’alimentazione innaturale di bovini, fatta di farine e pastoni e non di erba, che danno carne corrispondente? Legati alla catena notte e giorno, anche quando il cosiddetto agricoltore ha ettari ed ettari di terreno; legati ad una catena tanto stretta che quando le povere bestie vanno al macello gli addetti trovano gli anelli della catena incarnati nel collo dell’animale: non sto raccontando balle perché è successo ad un agricoltore proprio vicino a casa mia; il fatto è che si è imposta l’idea, suggerita dalla scienza?, che se la bestia non si muove le sue carni risultano più tenere. Cioè: il gusto, il sapore delle carni non contano più. La qualità, che è caratteristica che si sta perdendo ogni giorno di più, non conta più. E quando tagliano l’erba, dalla quale dovrebbero ricavare del buon fieno, prima di imballarla o di porla in fienile e non avendo il tempo necessario da dedicarle perché quella della fienagione è diventata ormai attività di secondaria importanza, la lasciano marcire sul terreno: può derivarne un buon fieno? Può essere sano l’animale che, affamato, se ne ciba?
In tal modo ci forniscono prodotti tutti di qualità molto molto scadente: da fare certe volte letteralmente schifo, e spesso senza possibilità di confronto, tanta è la differenza, con quelli della agricoltura tradizionale specie se di dimensione casalinga. I polli sono amari: debbono essere annegati in quantità paradossali di spezie e una qualunque innominabile porcheria potrebbe sostituirli.
Ed hanno pure la spudorata faccia tosta di chiamare scientifici i risultati di lauree specialistiche più dannose che inutili. Quali interessi avranno consigliato che occorre conseguire una laurea specialistica per disimparare a dare dei semplici grani ad una gallina e dell’erba fresca o affienata ad un erbivoro? E del pascolo naturale ad entrambi?
Quelli sono stati, per la più parte delle persone, i risultati delle lauree specialistiche; e quei risultati sono pura disonestà, da qualunque punto di vista li si esamini.
Considerare un mito la maggiore qualità dei prodotti della vecchia agricoltura rispetto alla attuale è posizione stupida di per sé in quanto non c’è regola scientifica che possa misurare il gusto; è solo l’esperienza diretta che può “misurarlo”: ecco perché i giovani non possono che adattarsi. Significa che chi assume quella posizione non ha mai mangiato un uovo vero, di vera gallina ruspante su pascolo naturale, oppure non sa che le rare volte in cui oggi il gusto originario, naturale, pare raggiunto è raggiunto con l’uso di additivi chimici nei mangimi da galline ammorbate dalla clausura: bisogna vedere con gli occhi l’orrore che destano per come sono ridotte dopo il ciclo programmato di deposizione. Possono quelle due uova avere la stessa qualità? E il bovino che oggi mangia farine e pastoni, quando viene portato al macello potrà dare prodotti di qualità organolettiche pari a quello che si alimentava di erba fresca o di fieno come chiede la sua natura?

L’unico animale che oggi si possa mangiare con un certo gusto, nel caso non ci si possa procurare altri animali da allevatori onesti, è il maiale. Senza voler fare una lezione di zootecnica, perché non ne sarei capace e non è il caso di farla, il maiale è un onnivoro; quindi è facile trovare la razione che soddisfi le esigenze nutritive dell’animale e nel contempo ne mantenga le caratteristiche organolettiche delle carni.

Non parliamo di frutta e verdura!
Quella frutta e quelle verdure tutte belle, perfette, col loro bel marchietto variopinto…senza il gusto tipico della specie e non raramente senza gusto alcuno, fresche e tumide di genuina e salutare rugiada da congelatore!
Dove sono finite le nostre piccole ma meravigliose e squisite pesche bianche? La cosiddetta vignaiola, perché gli alberi venivano piantati in testa ai filari di viti, o spaccatella, questo è attributo facile da capire, nella quale potevi assaporare il gusto della varietà. E dov’è finita la prugna d’Italia? Dove sono finiti quei finocchi che, come li aprivi con il coltello, ti inebriavano col loro naturale profumo?
Chi parla di mito non ha capito niente oppure non ha vissuto oppure è un disonesto.

Tutto dettato da una arrogante ed invadente civiltà industriale.
“Mentre ciò che si chiede è solo di lasciare resistere, quanto dura almeno la vita di un uomo, quel prezioso mastice di confidenze e solidali sicurezze della vista e del cuore, che già seppe rendere abitabile in qualche modo il pianeta.
Dispiace molto dirlo ma la pur legittima furia con cui le recenti generazioni si sono avventate contro le inadempienze dei padri deve aver buttato giù qualche bastiglia di troppo. “(G. Bufalino Museo d’ombre)

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