La Cedu e l’immunità al Vaticano: una sentenza che fa un po’ specie

«Nello svolgere questi processi si deve avere maggior cura e attenzione che si svolgano con la massima riservatezza e, una volta giunti a sentenza e poste in esecuzione le decisioni del tribunale, su di essi si mantenga perpetuo riserbo. Perciò tutti coloro che a vario titolo entrano a far parte del tribunale o che per il compito che svolgono siano ammessi a venire a conoscenza dei fatti sono strettamente tenuti al più stretto segreto (il cosiddetto ‘segreto del Sant’Uffizio’), su ogni cosa appresa e con chiunque, pena la scomunica latae sententiae, per il fatto stesso di aver violato il segreto».

Al rileggere queste righe – tratte dall’istruzione Crimen sollicitationis redatta dal Sant’Uffizio nel 1962 e che fino al 2001 stabiliva le regole del processo canonico per i preti accusati di pedofilia – fa un po’ specie pensare alla recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (Cedu) che ha rigettato il ricorso di 24 querelanti avverso la decisione di una Corte d’appello belga che si era dichiarata incompetente a giudicare la Santa Sede per atti di pedofilia del clero, affermando la fondatezza di tale decisione, in quanto la Santa Sede può essere considerata come uno Stato sovrano e di conseguenza gode degli stessi doveri ma anche degli stessi diritti, tra cui quello all’immunità.

Fa un po’ specie. Non solo perché quel richiamo alla segretezza fu confermato anche dall’epistola De delictis gravioribus promulgata nel 2001 dall’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e futuro papa Joseph Ratzinger, ma perché nonostante tutte le denunce e tutti gli scandali, si è dovuto attendere fino al 2019 –  con l’istruzione Sulla riservatezza delle cause di Bergoglio – per vedere abolito il segreto pontificio per gli abusi commessi su minori. E fino al 2011, con la lettera circolare della Congregazione per la dottrina della fede del 3 maggio di quell’anno, per vedere per la prima volta menzionata nero su bianco la cooperazione con le autorità giudiziarie in materia di pedofilia del clero (in modalità che però sono ancora tutte da definire).

Fa un po’ specie, perché sappiamo quanto tale segretezza abbia contribuito al perpetuarsi di questi abusi. Fa un po’ specie, perché in testa ci girano ancora i numeri del Rapporto della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa cattolica di Francia, che ha stimato in 216.000 i minori vittime di abusi sessuali nel Paese d’oltralpe tra il 1950 e il 2020.

Fa un po’ specie se si pensa al cardinale Philippe Barbarin, che nel marzo 2016 in occasione di una conferenza stampa sul caso di padre Bernard Preynat si fece sfuggire dalle labbra: «Grazie a Dio, la maggior parte di questi crimini sono prescritti».

Fa un po’ specie se si pensa al trattamento riservato a quello che è forse il più noto tra gli abusatori in talare: Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, morto nel 2008, “protetto” di Giovanni Paolo II, che mai nessuna azione intraprese o fece intraprendere nei suoi confronti e che solo nel 2006 fu giusto obbligato a una vita riservata di preghiera e di penitenza e alla rinuncia a ogni ministero pubblico.

Fa un po’ specie se si pensa che Ratzinger alla morte di Wojtyla sarebbe diventato papa e che Wojtyla sarebbe stato prima fatto beato e poi santo…

I giudici di Strasburgo avranno senz’altro ragione sotto il profilo del diritto. Sotto quello della giustizia resta una domanda: la Santa Sede dunque non pagherà mai per i crimini commessi anche grazie alla sua omertà?

Ingrid Colanicchia

 

 

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