Ancora bigotti? Purtroppo sì. Il moralismo dentro la Consulta

La tendenza al conservatorismo per vetuste tradizioni e alla discriminazione su base sessuale sono indice di un certo bigottismo ancora presente nell’ambito giuridico italiano. Ne parla Alessandro Cirelli sul numero 5/2021 della rivista Nessun Dogma.
Per leggere tutti i numeri della rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.


Alcuni autori sono recentemente tornati a confrontarsi con la tematica del bigottismo, specie con riguardo alla morale sessuale della società italiana (se ne è parlato anche nel numero 3-2021 di questa rivista, a proposito di E. Lombardi Vallauri, Ancora bigotti. Gli italiani e la morale sessuale, Torino 2020). Tali interessantissimi studi sociologici ci invitano a indagare anche l’ambito giuridico. Non vi è certamente qui né tempo né spazio per una compiuta analisi del fenomeno del moralismo in materia giuridica (una monografia di un migliaio di pagine potrebbe essere anch’essa parziale). Si assumerà allora l’angolo prospettico della giurisprudenza costituzionale, e si analizzeranno solo alcune recenti pronunce che hanno affrontato temi spinosi e legati alla morale sessuale.

Partendo da una recente sentenza, la 141 del 2019, la Consulta è stata chiamata a pronunciarsi sulla cosiddetta prostituzione volontaria, e cioè quella forma di prostituzione non coartata da alcuno, ma del tutto libera. Per intenderci, il caso concreto da cui è sorto il quesito è il noto caso Tarantini: erano imputati a Bari alcuni soggetti per il reato di favoreggiamento della prostituzione, in quanto accusati di aver organizzato un traffico di escort di lusso in favore di un ex presidente del consiglio (un tale S.B.).

Prima di procedere oltre, forse è utile ricordare che in Italia l’esercizio del “mestiere più antico del mondo” non è un reato (e nemmeno è punito il fruitore della prostituzione, salvo che si tratti di prostituzione minorile) ma lo è sia lo sfruttamento (cioè trarre un guadagno), sia l’agevolazione dell’altrui prostituzione. Per fare un esempio pratico, se Tizia chiede a Caio di darle un passaggio in auto presso l’abitazione di un proprio cliente con il quale intende avere un rapporto sessuale a pagamento e Caio acconsente, questi dovrà rispondere di un delitto punito con la reclusione da due a sei anni, e cioè il favoreggiamento della prostituzione previsto dalla cosiddetta legge Merlin (Art. 3 Legge n. 75 del 1958). Si rammenta altresì che, sotto il profilo del diritto privato, il contratto tra chi esercita la prostituzione e il cliente è considerato nullo dalla giurisprudenza, con l’effetto che all’insorgere di problemi relativi al pagamento delle prestazioni, certamente non si potrà ricorrere al giudice. Si segnala inoltre che negli ultimi anni la suprema Corte ha stabilito che anche coloro che si dedicano alla prostituzione sono tenuti al pagamento delle tasse.

Il quesito posto dalla Corte d’appello di Bari alla Consulta partiva da un inedito – certamente per l’onorevole Merlin e i suoi contemporanei – fenomeno di prostituzione e cioè quello definito con il nome di escort: «concettualmente l’accompagnatrice ovvero la persona retribuita per accompagnare qualcuno e che è disponibile anche a prestazioni sessuali, con esclusione, quindi, di quelle forme di esercizio coattivo della prostituzione ovvero necessitato da ragioni di bisogno». I giudici baresi, sintetizzando il lungo quesito, si sono chiesti: ma anche in una situazione di non sfruttamento della donna, e cioè di prostituzione certamente libera, assai profumatamente retribuita (nel caso concreto si trattava anche di cifre intorno ai diecimila euro a serata), rimane illecita un’attività di supporto a tale forma di prostituzione? E aggiungono: ma se questo particolare tipo di meretricio è un’attività volontaria e libera, non è forse una ri-affermazione del principio della “libertà di autodeterminazione sessuale della persona umana”? E quindi di un diritto inviolabile di cui all’articolo 2 della Costituzione e cioè di quella «libertà che si estrinseca, nel caso delle escort, attraverso il riconoscimento del loro diritto di disporre della sessualità nei termini contrattualistici dell’erogazione della prestazione sessuale contro pagamento di denaro o di altra compatibile utilità»?

La Corte costituzionale ha risposto dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale, preliminarmente escludendo che la vendita di prestazioni sessuali rappresenti un diritto inviolabile, ma semmai soltanto l’esercizio di un’attività economica (sic!), e dichiarando che resta in ogni caso legittima anche la punibilità di coloro che agevolano l’attività delle escort. La motivazione della Consulta a sostegno di questo dispositivo è assai laconica e controversa e il nucleo della stessa è rappresentato da queste poche righe che si riportano testualmente: «È, in effetti, inconfutabile che, anche nell’attuale momento storico, quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di “vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali. Può trattarsi non soltanto di fattori di ordine economico, ma anche di situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali, capaci di indebolire la naturale riluttanza verso una “scelta di vita” quale quella di offrire prestazioni sessuali contro mercede».

In sintesi: la prostituzione non è mai libera. E perché? Perché lo dice autoritativamente la Corte costituzionale, senza citare dati statistici, senza nominare una ricerca in tal senso. Con un linguaggio aulico tipico del pater familias mentre detta lezioni di moralità, la Consulta descrive la persona che si prostituisce come sempre e comunque vulnerabile, da tutelare a prescindere nella sua dignità oggettiva. E tutto ciò è “inconfutabile” (sic!). Vulnerabilità e dignità: due concetti così forti e pregnanti, superindividuali e tali da annientare ogni dibattito (la dottrina ha simpaticamente soprannominato la dignità “l’asso-pigliatutto del diritto penale”), ed evidentemente utilizzati per non entrare nel merito della tematica sessuale in senso stretto – come se fosse un tabù parlare di sesso a pagamento – e senza confrontarsi adeguatamente con i rilievi del giudice barese (cosiddetto giudice a quo) circa la configurabilità di un diritto inviolabile ad autodeterminarsi anche in materia sessuale.

La Corte peraltro afferma che quando non è a pagamento, la libertà di autodeterminazione sessuale (sia in positivo sia in negativo, come libertà di non avere rapporti) rappresenta un diritto inviolabile dell’individuo di cui all’art. 2 della Costituzione e sul quale lo Stato non può che limitarsi a conferire tutela. Invece, il meretricio sarebbe solo una mera attività commerciale. Allora ci si chiede: solo perché si esercita un diritto inviolabile dietro corrispettivo, allora questo smette di essere inviolabile ma diventa una mera attività commerciale? Allora il giornalista, o l’avvocato? Esercitano libertà e diritti inviolabili dietro corrispettivo, ma ciò non svilisce o degrada i loro diritti a mere libertà commerciali di cui all’art. 41 della Costituzione: perché ciò invece avviene per il sesso a pagamento? L’illogicità dei ragionamenti della Consulta è palese.

Non pochi studiosi hanno descritto le parole della Corte come un chiaro esempio di paternalismo – fenomeno avversario alla laicità, e per il quale lo Stato agisce come un padre o un re, trattando i cittadini non come tali, bensì come figli o sudditi – o moralismo penale. Dalle parole della Corte trasuda, (non solo) a parere di chi scrive, una concezione assai bigotta della materia sessuale: si percepisce che per i giudici costituzionali, la vendita del sesso è una forma di peccato, una disubbidienza rispetto a dettami morali che vedono il sesso come inscindibilmente legato a una relazione affettiva e mai come possibile mercimonio del piacere; il soggetto che vende sesso, se davvero lo facesse in modo libero, finirebbe per svelare la propria natura di ‘trasgressore’ alla moralità.

Cambiando argomento, un altro settore in cui la giurisprudenza costituzionale non è riuscita a muoversi seguendo canoni laici e si è invece abbandonata a visioni moralistiche, parziali e indubbiamente non adeguate allo spirito dei tempi, qualificandosi così come una Corte assai conservatrice, è la materia dei cosiddetti diritti Lgbt+. Anche qui, molti sarebbero i commenti e non ci resta dunque che procedere sommariamente.

Partendo dalla triste sentenza n. 138 del 2010 sul matrimonio omosessuale, possiamo osservare che la Consulta ha negato il riconoscimento del diritto all’accesso all’istituto del matrimonio alle persone gay o lesbiche – cosa che altre Corti, si veda quella Usa, hanno fatto – sulla base di un’interpretazione della Costituzione, in particolare relativa all’articolo 29 che cita la «famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», non evolutiva, non moderna e attuale, bensì ancorata a ciò che i costituenti “dovevano avere in mente” all’epoca della stesura della Costituzione (1947), e cioè il matrimonio obbligatoriamente eterosessuale del Codice civile del 1942. Ma al di là dell’assurda interpretazione cosiddetta “originalista” da parte della Consulta – in seguito ricoperta da fiumi di critiche dalla gran parte dei costituzionalisti italiani – che vorrebbe ritenere costituzionalizzata la tradizione (interpretazione assai deleteria per il riconoscimento e la tutela dei cosiddetti diritti nuovi), ciò che emerge pericolosamente dalle parole della Corte è il ritenere non omogenee, non uguali, non meritevoli di uguale trattamento le famiglie omosessuali ed eterosessuali.

Quella della Corte è un’affermazione discriminatoria, che crea persone e coppie di serie A e serie B, che ha poi indotto il legislatore ad approvare la cosiddetta legge Cirinnà (Legge n. 76 del 2016) la quale, pur avendo il merito di aver dato un riconoscimento giuridico per la prima volta in Italia alle coppie omosessuali, reitera la suddetta assurda differenziazione fatta dalla Consulta, riservando le unioni civili agli omosessuali e precludendogli il diritto al matrimonio. Si rammenti en passant che altre Corti costituzionali (nel 2017 quella austriaca, ad esempio) hanno dichiarato incostituzionale la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale da parte del legislatore per l’accesso ai diversi istituti, poiché ritenuta come violazione del principio di uguaglianza. Senza parlare poi delle convenzioni sui diritti umani che vietano ogni forma di discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale (si veda ad esempio l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).

Non si potrebbero scrivere commenti più azzeccati di quelli che qualche anno fa ha scritto in una sua opera (Diritto d’amore, Bari, 2015) il quanto mai compianto costituzionalista prof. Stefano Rodotà: «Come può una società continuare a contemplare sé stessa come se fosse accettabile una discriminazione permanente, una esclusione istituzionalizzata di tante persone dai diritti fondamentali che dovrebbero essere universalmente riconosciuti… Qui siamo di fronte a un vero problema di cittadinanza, che non può essere amputata di suoi elementi fondamentali senza porre un problema di legittimazione sociale e, in definitiva, di democrazia».

Come nella sentenza ora citata, anche nella recente 221 del 2019, nella quale la Consulta prendeva in esame il divieto di accesso alla fecondazione eterologa per le coppie omosessuali femminili, si ribadisce e si conferma la discriminazione irragionevole. C’è differenza – dice la Corte – fra la coppia omosessuale “fisiologicamente infertile”, e quella eterosessuale “patologicamente infertile”, e ciò giustifica il divieto di accesso alla fecondazione eterologa, e la non irragionevolezza della differente disciplina.

La debolezza del ragionamento è palese.

Anzitutto, esistono coppie eterosessuali sterili non aventi una patologia accertata (cosiddetta infertilità idiopatica) e altre (si pensi a quelle in cui il partner maschile è una persona trans FtM) che sono altrettanto “fisiologicamente infertili”, eppure possono accedere alla fecondazione eterologa. Inoltre, a ben guardare, questa “fisiologica infertilità” non è circostanza autonoma dall’orientamento sessuale, e dunque, dell’intero ragionamento della Consulta non resta che una semplice discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale che, visto il campo di riferimento, e cioè l’accesso alla fecondazione eterologa, risulta completamente irragionevole, non rispettosa, oltre che del principio di uguaglianza, dei diritti inviolabili ad autodeterminarsi, al rispetto della vita privata e ad avere una famiglia.

Anche da questa sentenza allora possiamo vedere quella tendenza moralistica, non laica, assolutamente parziale, conservatrice e, in definitiva, bigotta, che preclude alcuni diritti a determinate persone perché sessualmente non conformi al paradigma eterosessuale, alla normalità (citando un film di Özpetek: «normalità,… che brutta parola!»).

Venendo a concludere, come si evince da questi brevissimi commenti ad alcune sentenze della Corte costituzionale, al virus del bigottismo che affligge ancora la società italiana non è immune nemmeno la Consulta. La tendenza a conservare antiche tradizioni, a discriminare su base sessuale, a considerare l’attività sessuale come mera affettività all’interno della coppia, dimostra plasticamente una visione della morale sessuale assai antiquata (forse anche per l’età dei giudici) e bigotta, che ha come effetto quello di limitare e frenare il progresso della società italiana e del nostro ordinamento giuridico in generale, con gravi danni per la vita di molte persone, magari sessualmente a-normali (nel senso di minoranza in fatto di identità di genere e/o orientamento sessuale) ma non di serie B.

Alessandro Cirelli

Approfondimenti

https://areomagazine.com
https://www.giurcost.org/decisioni/2019/0141s-19.html
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/05/09/18C00105/s1 
https://www.giurcost.org/decisioni/2010/0138s-10.html
https://www.altalex.com/documents/news/2019/10/30/procreazioneassistita-legittimo-divieto-per-coppie-gay#conclusioni

 

Consulta il sommario Acquista a €2 il numero in pdf Abbonati

Sei già socio? Entra nell’area riservata per scaricare gratis il numero in digitale!

10 commenti

Diocleziano

— La Consulta dovrebbe consultarsi con degli esperti nel campo di cui si tratta, in questo caso
psicologi, sociologi, fisiologi ecc.
— Raggiunti i cinquantacinque anni si esce dalla Consulta.

Già questo potrebbe dare migliori risultati.

pendesini alessandro

…….Anche da questa sentenza allora possiamo vedere quella tendenza moralistica, non laica, assolutamente parziale, conservatrice e, in definitiva, bigotta, che preclude alcuni diritti a determinate persone perché sessualmente non conformi al paradigma eterosessuale, alla NORMALITA’…..Dice l’articolo
Andrebbe pero’ definito razionalmente cosa intendiamo dire, o definire, col termine Normalita’ !
Dobbiamo parlare di normalità o salute? Questi due termini sono equivalenti? No. La normalità non è necessariamente sinonimo di salute e salute non è ovviamente sininimo di normalità. Lo stato definito « normale » è uno stato medio. In un gruppo in cui tutti sono malati, la normalità è esserlo come gli altri. Gli « anormali » non sono tutti malati, ci sono tra loro dei soggetti originali o anticonformisti che lo sono perché lo vogliono e che realizzano con questo comportamento particolare la loro vitalità e la loro creatività.

Le definizioni enciclopediche della normalità sono tutte piuttosto tautologiche. Peiché per sapere chi è normale, dobbiamo innanzitutto sapere chi non lo è !…. Ci viene insegnato che serve a qualificare ciò che è né normale né regolare né naturale né tipico né consueto né conforme ad una norma. In breve, è il serpente che si morde la coda: ogni termine è definito esclusivamente dal suo opposto, nessuno dei due è il soggetto di una definizione intrinseca e anche il confine che li separa scoraggia qualsiasi definizione significativa. Evidente a prima vista, la dicotomia tra il normale e il patologico suggerisce una falsa familiarità. Comprendiamo intuitivamente cosa significano questi due termini in generale, ma le cose si complicano quando guardiamo a casi particolari. Al punto che non abbiamo una definizione universale o trascendente che possa essere operativa quando si tratta di distinguerli chiaramente nella vita reale.
Quindi, per concludere, direi che la normalità non ha nessun signficato universalmente valido e non potrà mai essere definita con precisione tramite la deduzione classica poiché tutto dipende, fondamentalmente, dell’osservatore e varia secondo i tempi, luoghi e culture.
Ma di tutta evidenza, guardando la foto di questi moralisti –che sembrano mummie viventi- non sanno, o non vogliono sapere, cio’ che normalità significa dal punto di vista etico…..

Diocleziano

Qualcuno cantava: “…da vicino nessuno è normale…”
In Italia è sottinteso che la normalità e la morale vadano di pari passo con la dottrina cattolica;
quindi è normale la vita del prete con tutti i suoi limiti formali – ma non effettivi – è normale
la vita aberrante delle suore in clausura. Normale è chiedere scusa per la pedofilia ecclesiastica.
Normale è predicare la povertà mentre si ammassano ricchezze…
Bisognerebbe cominciare a mettere in dubbio il principio di autorità: governo, politica, chiesa,
influencer…

iguanarosa

Il bigottismo italiano sulla morale sessuale è perfettamente evidente anche sulle norme che regolano la fecondazione assistita. Sposati o conviventi da tot anni sì, una coppia non sposata, forse. Solo etero solo in coppia, no surrogate, no oltre una certa età. Era vietata anche la diagnosi preimpainto.
Si dirà che la nefasta presenza del vaticano incide parecchio. Anche la nefasta abitudine di non farsi gli affari propri e spiare tra gameti, embrioni e uteri degli altri.
Sulla prostituzione, devo in minima parte, mettermi dalla parte della consulta. La prostituzione non è reato, ma l’ex premier che scortava le escort con i carabinieri e tutti i processi per corruzione dei testimoni, qualche cosa di immorale, per me ce l’hanno. Come la prostituzione in generale. Illegale no, ma immorale sì.

laverdure

@Iguanarosa
Io piuttosto direi che la prostituzione in se’sarebbe accettabile,mentre non lo sono i suoi “effetti collaterali”,vale a dire la massa dei “magnaccia”( bel nome,vero ?rende
benissimo l’idea)e le continue violenze che inevitabilmente ne derivano.
Qualcuno spesso propone di ripristinare le “case chiuse” di un tempo,cosa che,dice,anche se ovviamente non sarebbe certo una soluzione, almeno “alleggerirebbe” il problema.
Temo che il discorso fosse valido “temporibus illis”,quando le autorita avevano davvero “autorita”,e potevano tenere sotto controllo certi ambienti,evitando che vi
avvenissero porcherie troppo gravi.
Ora tutto finirebbe istantaneamente in mano a mafia,camorra criminalita comune autoctona e di importazione,con le conseguenze immaginabili.

iguanarosa

Tutti i misogini propongono di riaprire i bordelli legalizzati. Magari nel vecchio cinema dismesso del palazzo vicino al nostro condominio.

pendesini alessandro

Non va di certo dimenticato che con la legge Merlin del 1958 con cui venne abolita la prostituzione legalizzata in Italia e che determino’ la chiusura delle « case di tolleranza » alias bordelli, le malattie veneree si propagarono in maniera esponenziale ! Quando prima erano ufficialmente (se non vado errato) gestite dallo Stato quidi sotto controllo della sanità !

Inoltre l’idea –non propio geniale di poter eliminare la prostituzione (cosi come la droga) si è avverata un fiasco totale. Da allora, progressivamente le diverse mafie sottomisero, sfruttarono (e sfruttano tuttora) sovente con sevizie, ricatti e violenza molte di queste donne, anche minorenni, rimanendo nella stragrande maggioranza dei casi, nell’ombra dell’impunità.
Non c’é da dire : certi politici italiani sono veramente efficaci nel decidere e votare certe leggi pretese progressiste degne di essere « lodate e/o applaudite » e –cigliegina sulla torta- con la benedizione papale…..

laverdure

Un piccolo pensierino “estemporaneo”.
Nella foto si vedono gli onorevoli membri della Consulta in “abiti di servizio”,vale a dire dei “paludamenti”che ricordano molto quelli usati nelle Logge Massoniche.
Beninteso il discorso sarebbe analogo per le “Toghe” usate dai magistrati di tribunale.
Certe volte mi chiedo se questa usanza non possa vere talvolta effetti nefasti sull’equilibrio psichico degli interessati,che si estrinsecano a volte in comportamenti privi di logica,per non dire di decenza,che fanno pensare a deliri di onnipotenza.
Mi chiedo se una riforma semplicissima ma dagli effetti salutari non sarebbe obbligarli a presentarsi in giacca e cravatta,come del resto e’ usuale in un’infinita di sedi importanti come il Parlamento e le aule universitarie.
Riportarli almeno esteticamente tra i comuni mortali.

laverdure

@maurizio
Gia’,peccato che le le loro sentenze fanno pensare spesso a nutrite “alzate di gomito”preparatorie,piu’ che a semplici assaggi.

Commenti chiusi.