Per presentare 30 anni di laicità dello Stato: fu vera gloria?, volume curato da Andrea Cardone e Marco Croce, vi proponiamo l’intervento della responsabile iniziative legali dell’Uaar Adele Orioli, pubblicato sul numero 5/2021 della rivista Nessun Dogma, che ripercorre parte delle vicissitudini giuridiche dell’associazione. Un modo per sottolineare l’importanza che il nostro impegno ha avuto e sta avendo ancora nel dibattito giurisprudenziale e accademico intorno ai temi della laicità, della libertà religiosa e della libertà dalla religione.
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Nata nel 1987 per portare almeno una voce nel silenzio assordante che aveva circondato la stipula degli accordi di Villa Madama di tre anni prima, l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, Uaar, si è via via sempre più caratterizzata per campagne comunicative e per iniziative giuridiche condotte a diversificati livelli.
Quindici anni fa, in ossequio a uno fra i suoi scopi sociali, la difesa dalle discriminazioni subite dai cittadini non credenti in un paese che evidentemente mantiene una alta e decisa connotazione filo confessionale e un’altrettanto decisa permanenza del favor religionis nel complesso dell’ordinamento, l’Uaar metteva per la prima volta così come continua a mettere tutt’oggi a disposizione di chiunque ne faccia richiesta lo sportello telematico di assistenza gratuita, che non a caso, per legarsi al titolo e all’oggetto dello splendido Convegno nel quale ho l’onore di rappresentare l’organizzazione patrocinante, si chiama soslaicità.
Forte di numerosi contatti quotidiani, a partire dai casi segnalati è stato possibile enucleare una serie di violazioni ricorrenti di quel pluralismo di equanime trattamento al quale, seppur con tutte le ambiguità e i profili critici evidenziati in questa due giorni, si riferisce la Consulta come principio supremo. Violazioni del suddetto principio che si traducono, in teoria e in pratica, in discriminazioni dirette e indirette tanto verso i singoli quanto nei confronti di intere categorie. Dalla A di aborto, diritto tondo e pieno così come riconosciuto sulla carta ma di fatto troppo spesso negato o reso oltremodo difficoltoso, penalizzante e ingiustificatamente colpevolizzante, tanto da essere non troppo amichevolmente bacchettati, e più volte, in sede europea. Alla V di vilipendio, che nonostante una complessiva depenalizzazione non manca affatto di esistere e resistere, mantenendo profili fortemente critici alla luce di molteplici aspetti.
Si guardi non ultimo alla fattispecie speciale di danneggiamento introdotta nel 2006 con la previsione massima di due anni di detenzione, l’efficacia attuale e di frequente applicazione degli artt. 403 e 404 del codice penale ma ancor di più alla perdurante perseguibilità delle offese all’onorabilità di una entità dalla incerta esistenza che mai risulta aver presentato quella querela di parte solitamente necessaria per la tutela dalla diffamazione. Parliamo della blasfemia e di un articolo come il 724 e che, nell’estensione operata dalla Consulta a qualsivoglia divinità così come accade per il vilipendio, nessuna tutela offre alle cosmogonie atee e agnostiche, in un ulteriore pericoloso disequilibrio con lo stesso enunciato dell’articolo 21 della carta fondamentale. Tutela alla quale sia detto per inciso peraltro non aspiriamo affatto, partecipando da sempre al movimento internazionale #endblasphemylaws che vede in tutte le forme di tutela penale specifica del sacro un vulnus alla libera espressione del pensiero e una facile via per la repressione non solo culturale delle minoranze.
Per tornare al cahier de doléances dalla A alla V, troviamo fra le altre la C di Concordato con la Chiesa cattolica, posta così naturalmente – si fa per dire – al vertice di quel multi confessionalismo piramidale proprio del nostro ordinamento, che vede dal secondo gradino in poi le confessioni stipulartici di intesa ex art. 8 Cost., a scendere le religioni ancora disciplinate dalla legge fascista sui culti ammessi, perdurando l’assenza di una normativa generale sulla libertà religiosa, ancora un passo in giù le confessioni non riconosciute come tali nemmeno dalla normativa del ’29, per finire con le associazioni come l’Uaar. Uaar che pur a finalità generale e attualmente la maggiormente rappresentativa su suolo nazionale delle istanze afideistiche ottiene con fatica e spesso solo dopo battaglie (giuridiche e non) il riconoscimento dell’applicabilità alle sue istanze dell’ambito specifico di libertà religiosa ex art 19 Cost. e non solo di quello generico di libertà di associazione ex art. 18 e di libera espressione del pensiero ex art. 21 Cost.
Ancora, proseguendo nell’alfabeto, la mancanza di una intesa, la cui vicenda nata nel 1996 vede dopo alterni rovesci e fortune giudiziarie la criticatissima sentenza della Corte costituzionale 52/2016 attualmente ancora pendente in CEDU, si riverbera sul già di suo perverso e fumoso meccanismo dell’otto per mille che pur se tassazione obbligatoria ancora non vede fra i destinatati alcun rappresentante collettivo delle cosmogonie incredule, atee e agnostiche.
Nell’andare avanti con l’elenco, finalmente ogni tanto una gioia: la conclamazione giuridica dello sbattezzo, termine vagamente dispregiativo coniato dal quotidiano dei vescovi Avvenire nei lontani anni ’50 ma che racchiude l’unica possibilità concreta di autodeterminazione in ordine all’appartenenza religiosa, peraltro non solo strettamente cattolica, che proprio grazie all’Uaar si è sostanziata in una apostasia formale riconosciuta dall’allora Garante Stefano Rodotà sulla base della normativa a tutela dei dati personali. Il tutto però sempre all’interno di un ordinamento vivant che è lontanissimo dall’arrivare a ritenere il pedobattesimo incostituzionale, seppur consistendo in un atto incorporante di diritto in una religione senza che alcuna possibile manifestazione di volontà sia possibile da parte del soggetto subente l’atto stesso. Linea non esattamente collimante con quella seguita a suo tempo dalla Corte costituzionale per lo Statuto delle Comunità ebraiche.
Nella divergenza fra teoria e prassi, quando non direttamente fra teoria confessionale e teoria egualitaria, come nostro vissuto associativo spicca la nota controversia Lautsi vs Italia, il caso portato avanti dalla famiglia di nostri soci sul crocifisso nelle aule scolastiche. Ribaltata la sentenza di primo grado della Corte Edu, la Grande Chambre a maggioranza schiacciante, pur demolendo le assurde tesi delle nostre supreme corti amministrative che vedevano il crocifisso come sic et simpliciter simbolo di laicità, ha potuto argomentare sulla passività del detto simbolo. Passività intesa come non direttamente obbligante ad atti devozionali e desunta aprioristicamente dalla disamina della nostra normativa per l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica. Insegnamento doveroso per lo Stato secondo Concordato in ogni classe di ordine e grado, con docenti stipendiati dalle finanze pubbliche ma scelti annualmente dall’ordinario diocesano, con programmi conformi alla dottrina e al catechismo. Ma pur sempre materia che la stessa legge definisce come facoltativa, a frequenza non obbligatoria. Inutile aggiungere che se de plano questa facoltatività fosse stata applicata e con equanime pluralismo ed equidistanza non saremmo nemmeno qui oggi, dato l’oggetto stesso dell’incontro odierno, quella sentenza scaturita proprio come già chiaramente sottolineato da una controversia su come interpretare il non obbligo dello studente all’istruzione cattolica nella scuola pubblica.
Ma quello che è maggiormente nostro interesse evidenziare in questa sede sta nel fatto di come, all’atto pratico e ancor oggi nel secondo ventennio degli anni duemila, nella vita quotidiana di genitori e studenti questa facoltatività sia a malapena uno sgorbio su un foglio lontano. Innumerevoli gli istituti nei quali non vi è alcuna ombra di alternativa possibile, nei quali vengono sostituiti i moduli ministeriali o addirittura non consegnati persino nell’epoca delle iscrizioni on line, innumerevoli le difficoltà per chi non si avvale, innumerevoli le discrasie persino temporali nell’organizzazione scolastica quando si tratta di predisporre l’insegnamento religioso.
D’altronde la misura può darla l’utilizzo quotidiano negli stessi documenti amministrativi scolastici della parola “esonero” per i non frequentanti Irc, come se fosse possibile e logicamente congruente esonerare, cioè dispensare da un obbligo, ove non sussiste obbligo alcuno.
Eppure su questa teorica e solo teorica non impositività della dottrina cattolica nella scuola pubblica resta tollerabile, perché passivo, persino il crocifisso. Con buona pace dei credenti che, al di là della predilezione o meno per la marcatura territoriale, è ragionevole ritenere non siano concordi con la Corte nel ritenere il crocifisso un semplice pezzo di legno.
Se poi veniamo alla dimensione prettamente collettiva della nostra attività come associazione fra gli scopi sociali vi è ovviamente la difesa della laicità dello stato, da intendere però per citare il segretario Grendene come casa di tutti, non certo come una nostra esclusiva o ancor meno come un concetto esaurente la nostra cosmogonia. Laicità bensì come la scelta sopra tutte che permette l’esistenza e la coesistenza delle altre. Sarebbe pertanto un errore ritenere le nostre filosofie specificamente non credenti come sussumibili ed estinguibili nello spettro della laicità, pur indefinitamente modulata. Piuttosto, grazie a un senso compiuto di essa e a un suo equanime utilizzo applicativo da parte delle istituzioni che sovvenzioniamo al pari di ogni altro cittadino, aspireremmo ad ottenere medesimi diritti nelle nostre differenze, medesimi spazi di espressione delle nostre specificità.
Nel ripercorrere invece di un elenco alfabetico questa volta una cronologia censoria sembrerebbe però che questa possibilità a noi sia garantita in misura minore, con intensità minore e soprattutto solo a seguito di maggiori sforzi.
Qualcuno ricorderà la vicenda degli Ateobus, recanti la scritta “La cattiva notizia è che Dio non esiste, quella buona è che non ne hai bisogno”. Vicenda che ci ha dato all’epoca una qualche notorietà mediatica e persino qualche sostenitore in più, ma nella realtà nessun bus ha mai circolato. Perché nessun concessionario ha accettato di diffondere un messaggio così potenzialmente offensivo e sovversivo. “Gesù ti ama” si può scrivere su ogni cavalcavia, “Dio non esiste” nemmeno sul 13 barrato. E un nostro socio che osò affiggere manifesti recanti lo stesso messaggio fu mandato direttamente a processo per vilipendio, ex art. 403 e 404 c.p. Procedimento peraltro archiviato in dubio pro reo.
Una nostra altra campagna, alla quale ha accennato il professor Cortese nella giornata di ieri, Non affidarti al caso, è stata tacciata di aver superato la continenza espressiva e di veicolare messaggi potenzialmente lesivi per bambini e adolescenti. Attualmente ancora una volta esauriti i rimedi interni e dopo una iniziale vittoria al Tar Liguria l’Uaar è stata costretta al ricorso alla Corte di Strasburgo, dallo stesso Comune che ha al contrario permesso in qualità di strenuo difensore del valore costituzionale dell’art. 21, le comunicazioni violente e scientificamente false dei Movimenti no choiche.
Ma se l’immagine di Non affidarti al caso, un abito talare da un lato, un camice medico dall’altro, con l’invito ad informarsi sull’essere obiettore o meno del proprio medico, poteva ictu oculi solleticare pruderies protezionistiche, altrettanto non può certo dirsi di Posso scegliere da grande?, ulteriore campagna Uaar, a favore questa volta dell’autodeterminazione nell’appartenenza religiosa, protagonista una bella neonata dagli occhi blu. Eppure a Milano non ha potuto circolare neppure quella: niente pubblicità religiosa sui mezzi di trasporto, è stato detto dalla concessionaria. Anche se autobus meneghini con l’invito alla messa di Bergoglio all’autodromo di Monza prima e a donare l’otto per mille alle Conferenza episcopale italiana ne sono girati parecchi, persino in contemporanea al rifiuto che veniva opposto all’Uaar.
Ma arrivo, per concludere il passaggio tra non esaurimento delle cosmogonie non credenti nella laicità statuale e la contemporanea non accessibilità di queste agli spazi della comunicazione comune, alla campagna Vivere bene senza D che risale ormai al 2013 e che, dopo aver girato in molti Comuni di Italia, è stata rifiutata dalla giunta veronese dell’allora sindaco Tosi.
Graficamente giocata sulla scritta Dio sulla quale barrata la D veniva a emergere il residuante Io, recitava: “10 milioni di italiani vivono bene senza D e quando sono discriminati c’è l’Uaar al loro fianco”. Piuttosto evidenti quali messaggi l’Associazione di promozione sociale intendesse veicolare. Da un lato, mettere in evidenza la numericamente più che robusta minoranza di non credenti in Italia e l’esistenza di una realtà appositamente strutturata per difendere i loro diritti; dall’altro quasi una sorta di invito al coming out ateo. Se in Italia i non credenti sono più di dieci milioni, almeno un italiano su sei, permane tuttavia un forte stigma che vede in quell’alfa privativo la negazione di valori, di etica, persino di adattabilità sociale che rende ancor oggi specie in piccole realtà tutt’altro che facile esporsi come “un senza senza d”.
Di questa comunicazione istituzionale, espressione valoriale da un lato e propaganda dall’altro, viene quindi rifiutata l’affissione dalla giunta leghista ritenutone il contenuto “potenzialmente lesivo di ogni religione”. Proposta dall’Uaar azione antidiscriminatoria ex art. 702 bis c.p.c., questa viene respinta in prima istanza sulla base di una eufemisticamente opinabile interpretazione del giudice ordinario del concetto stesso di discriminazione e ritenendo sussistente di fatto in capo alla giunta comunale il potere di sindacare il messaggio per questioni di mera opportunità e non esclusivamente sotto il profilo della legittimità. Ma è la sentenza che conferma quella di primo grado a meritare una disamina approfondita alla luce di quanto anche ribadito da voci certo ben più autorevoli della mia anche in questo consesso odierno.
La Corte di appello di Roma, con sentenza 1869 del 2018, argomenta come l’Uaar per usare un termine strettamente tecnico sia offensivamente acontenutistica nel perseverare con l’assurda pretesa di voler propagandare non idee o valori che le sono propri ma esclusivamente la negazione di valori altrui.
Esemplificativo della contemporaneità e apertura dottrinale della magistratura che una privata associazione di non credenti si trova quasi sistematicamente a dover affrontare, la decisione della Corte pare catapultata fin qui direttamente dagli anni ’30, o forse ’50 del secolo scorso. Sicuramente prima di quella già citata decisione della Consulta del 1979, la 117, che afferma come “il nostro ordinamento costituzionale esclude ogni differenziazione di tutela della libera esplicazione sia della fede religiosa sia dell’ateismo, non assumendo rilievo le caratteristiche proprie di quest’ultimo sul piano teorico”.
Caratteristiche proprie che sarebbero evidentemente quelle di negare l’esistenza di una divinità trascendente, per dirne una: ritenere l’espressione di questa negazione come potenzialmente offensiva tronca in radice qualsivoglia possibilità comunicativa alla libertà di non credere, alla libertà costituzionalmente garantita di esplicare il diritto di libertà religiosa come il diritto di non avere alcuna. Per di più sposta dall’agone politico più o meno urlato a quello giuridico fondamentale il malinteso senso che esista un diritto a non essere offesi rispetto invece al reale, concreto e bistrattato diritto alla libera espressione del pensiero. E della libertà religiosa ex art. 19 Cost. che tanto faticosamente dobbiamo rivendicare a ogni passo. Ma tant’è, questo argomenta la Corte: “Detto contenuto non si caratterizza in alcun messaggio propositivo da parte di Uaar a favore dell’ateismo o dell’agnosticismo o più in generale in favore di valori dalla stessa propugnati; bensì assume un unico connotato di negazione della fede religiosa”. Quindi dire che Dio non esiste e che si vive bene lo stesso non sarebbe l’espressione, legittima, di un pensiero, legittimo altrettanto, ma la negazione di un diritto altrui. E non è nemmeno espressione di libertà religiosa di cui sopra, visto che lo stesso giudice col negare l’esistenza della propaganda afideistica nel messaggio proposto applicava alla comunicazione l’articolo 21 Cost. a suo dire limitato appunto in favor religionis dall’articolo 19 Cost., della quale tutela non può beneficiare Vivere bene senza D.
E qui veramente per concludere, questo è ciò che capita nel seguire le iniziative giuridiche individuali e collettive dei non credenti in Italia. La discriminazione censoria veronese è pendente in Cassazione, numerosi altri procedimenti sono in corso, migliaia di segnalazioni annue evidenziano situazioni parossistiche che, nel nostro piccolo, cerchiamo di contribuire a cambiare in meglio ogni giorno. Ma se la laicità, casa di tutti, fosse davvero un principio guida e non solo un punto di partenza ermeneutico dagli incerti contorni, come emerso dalle dense e preziosissime disamine di questo Convegno, forse l’Uaar non avrebbe nemmeno bisogno di esistere. Nel frattempo ci siamo, con la nostra specificità e il nostro desiderio di non essere discriminati, come singoli e come gruppo: differenti, ma con identici diritti.
Adele Orioli
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Anche la Direzione dell’UAAR, in certi casi di critica alle religioni, preferisce non discuterne.
“…Una nostra altra campagna, alla quale ha accennato il professor Cortese, Non affidarti al caso,
è stata tacciata di aver superato la continenza espressiva e di veicolare messaggi potenzialmente lesivi per bambini e adolescenti…”
Ohibò, quindi è lecito condizionare i bambini con mitologiche narrazioni di onirici stupri
da parte di un dio occulto, della morte e resurrezione del figlio di sé stesso ma non si deve avvertire la vittima che la stanno raggirando?
Solo l’ora di religione a scuola può influenzare i poveri piccoli.
A volte rifletto sull’insegnamento della religione a scuola e mi chiedo se,
tra gli insegnanti, ve n’é qualcuno che nel segreto del suo animo
si vergogna di quello che fa. È possibile che nessuno abbia scrupoli
nel manipolare l’ingenuità dei bambini?
No, Diocleziano. La storia del cattolicesimo c’insegna che questi farabutti non hanno scrupoli ne’ dignita’.
“Religion is an insult to human dignity” – S. Weinberg, Nobel per la Fisica 1979.
Diocleziano
Se sei convinto che la secolarizzazione sia un male, che avere dubbi e posizioni critiche sulla religione cattolica sia un male, non puoi che essere convinto di star facendo del bene e di proteggerli dal male nell’evitare loro dubbi e posizioni critiche che consideri come cattivi pensieri e cattiva educazione. I professori di religione devono avere l’avallo del vescovo, quindi sono selezionati ed addestrati, non sono certo tra quelli che possono avere dubbi. D’altronde il loro modello e santo è Don Bosco che era preoccupato che i ragazzi potessero venire in contatto con altre religioni ed idee e non potessero più fidarsi ciecamente dei loro preti e vescovi. Penso che rimpiangano di non avere più gli strumenti di una volta.