La scienza serendipitosa

Abbiamo intervistato Telmo Pievani, filosofo della scienza, sul concetto di serendipità e in generale sulla ricerca per il numero 1/2022 della rivista Nessun Dogma.
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Hai celebrato la serendipità dopo averla in qualche modo ridimensionata (l’hai definita “sfuggente”), e quindi reinquadrata scientificamente… Cosa ti ha spinto a farlo?

Mi ha sempre incuriosito molto il fenomeno per cui nella scienza si cerca qualcosa, si progetta un esperimento, si parte da una domanda di ricerca, e poi cammin facendo si scopre tutt’altro. Volevo però liberare questo concetto dalle solite storielle un po’ di folklore che lo hanno sempre circondato, dalla penicillina ai raggi X e così via. La serendipità è diventata un’idea pop e così ha perso la sua pregnanza, che a mio avviso resta di grande interesse. Così sono ripartito dalle origini del termine (a loro volta, molto serendipitose!), ho scritto una prima parte “archeologica” e di storia dell’idea (dalla favola persiana di Amir Khusrau a Walpole, allo Zadig di Voltaire, al metodo indiziario da Thomas H. Huxley a Carlo Ginzburg, arrivando fino alla trattazione magistrale di Robert Merton), quindi ho provato a proporre una tassonomia nuova dei processi di serendipità, e infine una teoria della serendipità, cioè un’ipotesi sul perché è così diffusa nella scienza.

La serendipità si manifesta secondo me in modo debole, quando il ricercatore scopre qualcosa che stava cercando ma lo fa in modo occasionale e fortunato (la penicillina, la radiazione cosmica di fondo, i vaccini), oppure in modo forte, quando il ricercatore scopre qualcosa che veramente non stava nemmeno cercando, come nel caso di molte scoperte di impatto medico e tecnologico (velcro, nylon, teflon, eccetera), o quando addirittura si scoprono soluzioni prima ancora che esista il problema! (È successo per esempio con i vetri infrangibili).

Non penso che la serendipità sia soltanto legata agli errori generativi, come sosteneva Umberto Eco facendo l’esempio della “scoperta” dell’America da parte di Cristoforo Colombo (resa possibile dalla valutazione sbagliata sulle dimensioni della Terra), e neppure che abbia a che fare soltanto con le capacità abduttive degli scienziati, che come Sherlock Holmes raccolgono indizi e selezionano le ipotesi migliori. Nella serendipità si nasconde qualcosa di più profondo sul metodo scientifico, qualcosa legato al nostro grado di ignoranza, cioè al fatto che le teorie scientifiche illuminano soltanto una porzione limitata dei fenomeni naturali, e che spesso non solo sappiamo di non sapere ma ci accorgiamo di non sapere di non sapere. Veniamo cioè sorpresi da una realtà che non avevamo nemmeno gli strumenti cognitivi per sapere di non conoscerla.

Rileggendo il detto attribuito a Socrate, sostieni che «un’emozione ancora più grande merita la scoperta che non sapevamo di non sapere». Non temi che qualche filosofo un po’ troppo propenso all’ «ignoranza cattiva» faccia propria la tua affermazione per giustificare il suo antivaccinismo complottardo?

Alcuni miei colleghi filosofi, in fatto di antivaccinismo complottardo e di dittature sanitarie, stanno semplicemente vaneggiando. Per quanto mi riguarda, si sono giocati in un colpo solo tutta la reputazione conquistata nella carriera. Bisognerebbe smetterla di invitarli sui media, di intervistarli, di dare loro spazio e credito. Semplicemente, hanno smesso di ragionare. Partono da una definizione di libertà individualistica e irresponsabile che non sta in piedi, strumentalizzano a casaccio i dati scientifici senza comprenderli, negano le evidenze, fanno paragoni assurdi con il nazismo, non capiscono le relazioni ecologiche che stanno dietro la pandemia, hanno una visione ingenua della scienza.

Davvero imbarazzanti. L’unica spiegazione che mi do di questo naufragio del pensiero è psicologica: vogliono sembrare anticonformisti a tutti i costi, devono per forza distinguersi. Qualcuno si è spinto a dire che dopo tutto è sbagliato anelare ad allungarsi la vita di qualche anno in più. Verrebbe da rispondere: caro collega, pensa per te! In generale, credo che la filosofia, italiana e non solo, esca da questa pandemia con le ossa rotte. Ha dato una pessima immagine di sé, non ha fornito categorie interpretative all’altezza del momento, non si aggiorna, è chiusa in conventicole autoreferenziali. La dicotomia popperiana tra ignoranza buona (so di non sapere, dunque non smetto mai di farmi domande) e ignoranza cattiva (presumo già di sapere e dunque spaccio certezze) è un esempio di categoria filosofica feconda.

Il web trabocca di ignoranza cattiva. La propensione del pubblico verso la scienza pure sconta questo paradosso: nei momenti di ansia, paura e disorientamento, vogliamo dalla scienza sicurezze, previsioni, risposte certe e rapide, e invece la scienza risponde giustamente con incertezze, probabilità, ipotesi a confronto, cioè con il lento e laborioso mestiere di continua auto-revisione e disamina collettiva delle evidenze in aggiornamento. Ma chi strumentalizza la scienza in chiave banalmente relativistica (non avete certezze, quindi cambierete ancora idea e non possiamo fidarci di voi) dimentica un aspetto fondamentale: è proprio grazie alla critica delle conoscenze, delle ipotesi e delle teorie, che la conoscenza scientifica cresce continuamente.

A forza di mettere in discussione le idee proprie e quelle dei colleghi, sappiamo sempre di più, non di meno. Questa è la dimensione più bella e controintuitiva della scienza: gli interrogativi aumentano con il passare del tempo anziché diminuire; la risposta alle vecchie domande genera nuove domande; più sai e più acquisisci strumenti per capire che non sai. Grazie a questa umiltà, e allo stesso tempo al coraggio di spingere ancora una volta in alto la pietra di Sisifo, la scienza diventa una splendida avventura della mente umana alle prese con un mondo naturale in cui è nata ma che ancora conosce assai limitatamente. I filosofi intrisi di preconcetti metafisici fanno fatica a capirlo. Loro pensano di aver trovato le “cause prime” e da quelle fanno discendere tutto, il vero e il falso, il bene e il male, la vita autentica e quella meno autentica. Buon per loro. Io preferisco l’insegnamento radicalmente anti-dogmatico della scienza come scetticismo razionale e costruttivo.

Quando scrivi che «più si fa scienza e più emergono scoperte serendipitose», sembra che oltre al lettore tu ti stia rivolgendo anche a qualche politico. È così?

No, ho rinunciato a rivolgermi ai politici italiani, perché nella media non sono culturalmente all’altezza per affrontare questi problemi. Hanno altre priorità, un’altra agenda, un altro linguaggio. Mio padre ha fatto politica per tutta la vita, nella mia famiglia la politica era intesa in modo alto e nobile, come una passione ardente per il bene comune, come discussione razionale, conflitto e confronto tra soluzioni alternative. Adesso non esiste più nulla di tutto ciò, dopo 40 anni di tv commerciali, dopo la valanga delle insulsaggini digitali. La politica è schiacciata sul presente, sui sondaggi del momento, sul piccolo cabotaggio, sui narcisismi, le ripicche, i risentimenti personali. Si è estinta ogni capacità di lungimiranza: con poche eccezioni in Italia e all’estero, nessuno ti spiega più qual è la sua visione di società da qui ai prossimi dieci o venti anni.

Quando da bambino seguivo mio padre negli incontri politici, nelle piazze o nei festival estivi, mi capitava di assistere a dibattiti in cui, seduti su quelle lunghe panche, un operaio, un contadino, una casalinga o un carpentiere, magari con la quinta elementare, un po’ in italiano e un po’ in dialetto, discutevano animatamente di socialdemocrazia, comunismo, conflitti di classe, politica e laicità, diritti civili, e idee di quel tenore. Fantascienza, oggi. Se ci fosse ancora un dibattito di quel tipo, sì, difenderei la tesi secondo cui la serendipità ha a che fare anche con la politica, perché nel prossimo futuro dovremo prendere decisioni in un contesto di incertezza e ignoranza, non essendo sicuri dei risultati (per esempio, sul riscaldamento climatico galoppante), monitorando l’impatto delle riforme e delle scelte politiche (una pratica pressoché assente) e basando le decisioni sulle evidenze scientifiche, decisioni la cui responsabilità spetta alla politica, non alla scienza, ma che non possono basarsi su menzogne, su “fatti alternativi” o su emozioni irrazionali.

Se la scoperta serendipitosa è favorita dalla eterogeneità e interdisciplinarità, quindi dal pensiero trasversale, dalla capacità di unire campi di conoscenza diversi, che ne pensi delle affermazioni di Cingolani sulla necessità di favorire la cultura tecnica a scapito di quella umanistica?

Penso che siano affermazioni sbagliate. La forza della scienza italiana, lo riconoscono tutti i suoi massimi esponenti, è che è meno tecnica e più “umanistica” di quella di altri paesi. Umanistica significa che lo scienziato non è solo un tecnico di laboratorio, ma un pensatore che formula ipotesi, si fa le domande giuste, fa connessioni tra ambiti del sapere. In tal senso la nostra formazione di base è, mediamente, eccellente, altrimenti non sforneremmo ogni anno stuoli di ricercatrici e di ricercatori che poi fanno carriere strepitose all’estero. E quando chiedi ai nostri colleghi stranieri perché assumono così tanti italiani, la risposta è sempre la stessa: perché lavorano sodo, sono smart, flessibili, intelligenti, creativi. Hanno un esprit de finesse che in altre tradizioni nazionali manca. Quando si parla di formazione e di educazione, bisognerebbe basarsi su dati statistici robusti e non su impressioni o su aneddoti sulle guerre puniche.

Detto ciò, resta vero che, al di là di questa porzione alta di eccellenza (che però va preservata e allargata), la preparazione scientifica media degli studenti italiani è scadente e possiamo fare molto meglio, non riducendo la componente storica, filosofica e letteraria, ma intrecciando di più i saperi e migliorando la qualità della didattica scientifica, tecnica e laboratoriale. Il problema non sono le guerre puniche, ma saper insegnare la scienza e la tecnica anche quando si fa storia. E poi bisogna sempre analizzare i dati. Per esempio quelli recenti del Censis sulle credenze irrazionali degli italiani a me non sono parsi così drammatici e preoccupanti. Certo, fa impressione che così tanta gente anche in Italia creda nel terrapiattismo e in molte altre sciocchezze antiscientifiche, ma se guardiamo le tendenze complessive siamo nella media europea e in fatto di vaccini e di responsabilità collettiva abbiamo fatto meglio di tanti altri.

Hai dedicato Serendipità a Giulio Giorello: quanto ci manca? E quanto abbiamo perso con E.O. Wilson, scomparso da pochissimo?

Giulio ci manca tantissimo, per la sua libertà di pensiero, per le sue tesi mai scontate, per la sua colta leggerezza e quella generosità di non sottrarsi mai ai dibattiti. Lui rendeva onore alla filosofia della scienza calandola nella società, aggiornandola ai linguaggi contemporanei, mostrandone la fecondità per capire i problemi globali in cui siamo immersi. In questa fase di mediocrità, la sua brillantezza e la sua personalità ci mancano davvero. La mia idea anti-dogmatica e libertaria di scienza deve tutto a lui.

Gli ho dedicato Serendipità perché realmente le sue lezioni in Statale e le sue conferenze erano capolavori di connessioni inaspettate: partiva alla ricerca di qualcosa e poi deviava, esplorava, navigava come un corsaro tra le discipline e le idee, sapeva citare con un senso compiuto, nella stessa conferenza, Lenin, Popper e la banda Bassotti. Geniale. Negli ultimi mesi abbiamo perso una generazione di filosofi e scienziati con una tempra formidabile. Penso a Richard Lewontin, a Richard Leakey, e naturalmente a Edward O. Wilson, l’uomo della biodiversità, luminoso scrittore di scienza, che pensava a scienza e umanesimo come due fiumi aventi la stessa sorgente, cioè la creatività umana e la capacità di immaginare.

Wilson è stato criticato per il suo approccio considerato troppo deterministico alla natura umana. Quali sono, a tuo avviso, i limiti della biologia, in particolare della teoria dell’evoluzione, nel definire chi siamo?

Credo che quei dibattiti siano superati. Wilson dedicò un solo capitolo al comportamento umano in Sociobiologia del 1975 e non negò mai l’importanza dei fattori culturali. Certo, esisteva il pericolo di usare la biologia per giustificare stereotipi sessisti e conservatori, e bene fecero Stephen J. Gould e Lewontin a rimarcarlo. Nei primi anni duemila, peraltro, Wilson cambiò idea sul determinismo genetico e sulle ipotesi più adattazioniste della prima sociobiologia. Oggi diamo per scontato di essere un impasto di biologia e di cultura. L’evoluzione culturale e tecnologica umana interagisce da sempre con quella biologica in Homo sapiens ed è oggi preponderante.

Si tratta di calibrare le spiegazioni da caso a caso e di non usare mai la biologia in modo ideologico. La teoria dell’evoluzione darwiniana è preziosissima per comprendere il comportamento umano, perché siamo mammiferi sociali di grossa taglia, con retaggi evolutivi, propensioni, vincoli e specificità. Indaga le cause remote ma da sola non basta, come peraltro spiegò benissimo già Charles Darwin ne L’origine dell’uomo. I capitoli quarto e quinto, che in pochi rileggono, sono pieni di suggerimenti validi ancora oggi per cogliere la portata esplicativa e i limiti della biologia nella comprensione della natura umana.

Dopo due decenni di intensa attività, come giudichi lo stato della divulgazione scientifica nel nostro paese, e più in generale nel mondo occidentale?

Abbiamo fatto grandi passi avanti in questi vent’anni e molti restano da fare. Oggi diamo per scontato che la comunicazione della scienza sia un dovere fondamentale per chi fa ricerca, prima non era così. Tuttavia, proprio la pandemia ci ha insegnato quanta strada devono ancora fare gli scienziati e i divulgatori quando d’improvviso vengono sbattuti su tutti i media, tutti i giorni, durante un’emergenza sociale. Sono stati commessi molti errori di comunicazione, primo fra tutti quello di non spiegare bene come funziona la scienza, nei suoi metodi e processi. In ogni caso, sta crescendo una generazione di giovani brillanti comunicatori, si moltiplicano i master di comunicazione scientifica, i linguaggi si aggiornano. Ora secondo me bisogna sperimentare con più coraggio nuovi format, in cui soprattutto la scienza sia raccontata mescolandola ad altri saperi, alle arti, alla musica, al teatro. Questa è la prossima frontiera e in Italia siamo molto creativi e all’avanguardia.

Si può verificare qualcosa di inatteso nella società italiana?

Si è già verificato! Particolarmente durante il primo lockdown, molti colleghi stranieri mi scrivevano mail chiedendomi, molto sorpresi, cosa stava succedendo in Italia: una quarantena generalizzata rispettata da quasi tutti, disciplina, senso di comunità, grande solidarietà. Poi ci siamo sfilacciati di nuovo, ma abbiamo dato un esempio al mondo, anche sui vaccini. Quelle domande ovviamente rispecchiavano anche i tanti stereotipi che nel mondo circondano gli italiani, ritenuti individualisti, disordinati e poco rispettosi delle regole sociali. Mi piacerebbe tanto che la prossima sorpresa sugli italiani riguardasse la laicità, i diritti civili e la bioetica. Le indagini sociologiche ci dicono da anni che la nostra società su questi temi è molto più avanti della legislazione vigente e della politica. Al momento sembra improbabile, considerando il livello deprimente del dibattito parlamentare su questi temi, ma speriamo di fare presto uno scatto… inatteso.

Intervista a Telmo Pievani

La redazione

 

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6 commenti

Diocleziano

«… il fenomeno per cui nella scienza si cerca qualcosa, si progetta un esperimento,
si parte da una domanda di ricerca, e poi cammin facendo si scopre tutt’altro… »

Leggendo mi domandavo ‘…ma è mai successo che, serendipicamente parlando, uno scienziato
si sia imbattuto in una verità di fede?…’ Chi lo sa parli! No, Zichichi… tu no. 😛

pendesini alessandro

…..Alcuni miei colleghi filosofi…… hanno una visione ingenua della scienza……Dice l’articolo
Il contrario mi avrebbe sorpreso ! Pur ammettendo che certi filosofi New Age –tipo Daniel Dennett, hanno visioni ben diverse e argomenti razionali, che implicano le nuove scoperte di quelle manifestate da filosofi classici…
-Certi filosofi dicono di non vedere affatto come il cervello, oggetto fisico, possa dare vita alla coscienza. Di conseguenza, qualsiasi programma scientifico sarebbe destinato a fallire. È un argomento basato su uno stato di ignoranza: il fatto che non esista attualmente alcuna teoria del legame tra il cervello e la mente cosciente non costituisce un’assenza di questo collegamento. Naturalmente, per rispondere a queste critiche, la scienza dovrà fornire i concetti e le prove razionali rilevanti di questa connessione. Questi studi effettuati a livello accademico hanno già dato risultati più che soddisfacenti….
Tutta l’umanità, donne e uomini (e questo sin dall’infanzia) ha il diritto di sapere. È a questo prezzo che saremo protetti dall’indottrinamento delle religioni, filosofie arcaiche, spiritualismi, oscurantismo e altri tentativi di reclusione dello spirito che ci spinge a erigere intorno alla nostra testa e, se possibile in età precoce, il filo spinato culturale che proibisce alle nostre menti d’accogliere la ragione.

….. La scienza risponde giustamente con incertezze….
Le scienze della vita rivelano un’incredibile complessità, così sconcertante, che porta a credere ad un’intelligenza superiore. Se i biologi conoscessero meglio la storia della loro disciplina, si accorgerebbero che la biologia delle ” cause prossimali” non avrebbe progredito senza ciò che chiamiamo la scienza delle ” cause estreme”, diversamente detto l’evoluzione.

Mentre la scienza (degna di questo nome) si proponeva ad esempio di dimostrare l’aspetto dannoso del tabacco, ma non solamente… doveva nuotare contro le ondate di disinformazione accreditate da altri studi pretesi scientifici … commissionati dagli industriali e, soprattutto dalle Big Pharma… È qui che è nata l’agnotologia (la scienza della “produzione di ignoranza”). Sulle ceneri di un dibattito impercettibile, dove le false informazioni, considerate come riferimenti « razionali », sono controllate da chi ha largamente i mezzi per riprodurle e diffonderle.
Il “demens” che si trova nel “sapiens” ha una formidabile tendenza ad imporre la sua verità.

iguanarosa

La filosofia è una disciplina umanistica e quindi è normale che i filosofi sappiano di scienza quanto un bambino delle medie, forse di meno. Il problema è quando si buttano in considerazioni e valutazioni al di fuori della loro portata, pensando di padroneggiare le chiavi e i particolari meno ovvi del pensiero umano e del metodo scientifico. Meglio tacere.

RobertoV

C’è una differenza notevole tra i filosofi della scienza e gli altri filosofi. I primi, spesso anche con lauree scientifiche, lavorano in genere a stretto contatto coi ricercatori e quindi ne comprendono la metodologia e parlano di cose concrete, che conoscono, gli altri sono invece distanti anni luce dal mondo scientifico e pur non comprendendolo e non conoscendone il metodo pretendono di valutarlo e farci sapere le loro opinioni a riguardo, anche se incompetenti. Purtroppo questi ultimi hanno molta più visibilità sui media, tipo Cacciari.
Oltre al diritto di sapere ci sarebbe anche il diritto/dovere di comprendere perchè una informazione non compresa viene inevitabilmente distorta, come abbiamo ben visto anche in questa pandemia. Ma per comprendere, oltre ad avere buoni “insegnanti” (e sono d’accordo con la critica sui limiti divulgativi di molti tecnici/scienziati) bisogna anche avere gli strumenti per comprendere e la volontà di farlo, che richiede anche studio e tempo, e quella manca a molti in Italia, coi risultati che si possono osservare. E di certo il dibattito superficiale che possiamo osservare sui media è la fotografia della superficialità con cui vengono trattati temi complessi da media e politici non attrezzati o capaci di discuterne.

iguanarosa

A tutti piace raccontare e sentirsi riferire episodi di colore o di folclore, plausibili, ma al limite del probabile come le scoperte e le vicende “serendipitose”.
La paragono alla leggenda del multitasking, Chi è capace è ammirevole, ma forse è sempre meglio concentrarsi su una cosa e aumentare le possibilità di ottenere il risultato voluto.

dissection

“Mi piacerebbe tanto che la prossima sorpresa sugli italiani riguardasse la LAICITÀ, i diritti civili e la bioetica”.
(Lunghissimo e rassegnato sospiro di approvazione)

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