Pubblichiamo sul blog una versione estesa dell’intervista di Lorenzo Turazza al filosofo e attivista Federico Zappino comparsa sul n. 1/22 della rivista Nessun Dogma.
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Introduzione
Il termine “queer” circola da trent’anni tanto nella comunità e nell’attivismo Lgbt+ quanto nell’accademia. Letteralmente può essere tradotto come “bizzarro” o “eccentrico” ed è stato storicamente utilizzato nei paesi anglofoni come insulto per tutti e tutte coloro che appartenevano a minoranze sessuali e di genere. L’uso odierno, invece, può essere fatto risalire al finire degli anni ‘80. Decimati dall’epidemia di Aids e provati dal pervasivo clima politico e sociale ostile, nuove e vecchie generazioni di attivisti e attiviste si appropriarono del termine per esprimere una posizione politica più conflittuale e sovversiva.
In luogo della rispettabile assimilazione delle minoranze nella società, venne affermata la radicale trasformazione di quest’ultima per cessare l’oppressione di tutte quelle soggettività marginalizzate e non conformi. Contemporaneamente, anche lo studio critico del genere e della sessualità subirono una decisa spinta in una direzione simile. Pensatrici come Judith Butler ed Eve Kosofsky Sedgwick, tra le altre, contribuirono a elaborare un variegato insieme di posizioni, ora chiamate “teorie queer”, che decostruivano e denunciavano l’eterosessismo e l’omo-transfobia impliciti nel pensiero, nella cultura e nelle istituzioni. Oggi questo insieme di prospettive si è ulteriormente ampliato e diversificato, abbracciando e arricchendo numerosi altri campi del sapere e dell’azione politica.
Lorenzo Turazza per Nessun Dogma ha intervistato Federico Zappino per aiutarci a chiarire in cosa consista una prospettiva queer e conoscere l’originale approccio da lui elaborato.
L’orientamento sessuale e l’identità di genere sono generalmente considerate questioni che riguardano la vita privata delle persone. Cosa significa, secondo lei, considerarle invece questioni politiche?
Credo che occorra innanzitutto problematizzare l’idea che le questioni di genere e sessuali continuino a essere considerate univocamente questioni che attengono alla vita privata delle persone. Ciò avveniva indubbiamente fino a pochi decenni fa, ma questa idea è entrata in crisi in seguito a una molteplicità di fattori. Esistono sicuramente ancora molte persone che lo pensano, e lo pensano soprattutto molti esponenti politici conservatori, reazionari, principalmente dell’estrema destra. Costoro ritengono importante parlare pubblicamente delle questioni di genere e sessuali solo nelle circostanze in cui siano uomini immigrati a commettere stupri, femminicidi o atti omotransfobici. Per il resto, difendono il carattere privato di tali questioni, e questa loro difesa serve chiaramente a occultare e a preservare la gerarchia, la diseguaglianza e la violenza che struttura le relazioni di genere e sessuali in contesti perfettamente bianchi, occidentali e cattolici.
Al di là di costoro, tuttavia, esiste un’ampia produzione e circolazione discorsiva delle questioni di genere e sessuali, pubblica e social-mediatica, che non è meno dannosa, dal momento che serve anch’essa a ribadire la dimensione privata del genere e della sessualità, sebbene in modi molto diversi. Al contempo, però, questa circolazione discorsiva ha un carattere pubblico e sociale, e ciò significa dunque che realizza una forma inedita di “politicizzazione” delle questioni di genere e sessuali. Questo è senza dubbio uno degli effetti dell’appalto neoliberista delle questioni di genere e sessuali, il quale ha vinto sulle teorie radicali gay, lesbiche e femministe (per le quali, notoriamente, «il personale è politico»), facendo interamente coincidere la dicibilità delle questioni di genere e sessuali solo nei termini della rivendicazione di visibilità, diritti, opportunità e inclusione da parte delle minoranze, all’interno di una società i cui fondamenti gerarchici ed escludenti non devono però essere messi in discussione. Ciò significa che di genere e sessualità si parla anche troppo, ma in modo aconflittuale.
Di conseguenza, non si tratta di contrapporre a una concezione delle questioni di genere e sessuali come fatti privati, una che le consideri invece questioni pubbliche, o addirittura politiche. Piuttosto, si tratta di contrapporre a un regime discorsivo selettivo di circolazione pubblica delle questioni di genere e sessuali una contro-politicizzazione in grado di affermare che le relazioni di genere e sessuali, come le conosciamo, sono i prodotti di un ordine sociale eterosessuale e patriarcale fondato sull’oppressione, la diseguaglianza e la violenza di genere e sessuale, e che la loro produzione è funzionale al consolidamento proprio di questo ordine sociale. Questo assunto di base viene occultato tanto da coloro che nutrono molti interessi a preservare il carattere privato delle questioni di genere e sessuali, quanto da coloro che fanno invece un gran parlare di genere e sessualità.
Nella sua ricerca ha proposto di considerare il genere e la sessualità da una prospettiva materialista. Cosa significa e quali implicazioni ha da un punto di vista teorico e politico?
Direi che significa innanzitutto riconoscere un debito nei riguardi delle analisi materialiste della grande pensatrice e attivista lesbica Monique Wittig, la quale auspicava la “distruzione del sistema sociale eterosessuale” fondato sul “dogma della differenza sessuale”. In secondo luogo, significa contrastare la maniera dominante, di cui riferivo, di approcciarsi alle questioni di genere e sessuali, tanto da un punto di vista teorico, quanto da un punto di vista politico e istituzionale.
Chiaramente, il mio interesse per l’estensione di un approccio materialista al genere e alla sessualità è parte di una più ampia adesione, da parte mia, al materialismo e all’anticapitalismo e prende le mosse dalla constatazione del fatto che nonostante la maggior parte dei movimenti e dei partiti di sinistra materialista e anticapitalista attualmente esistenti al mondo mostri sensibilità e impegno contro l’oppressione di genere e sessuale, al contempo nessuno di questi movimenti o partiti può dirsi immune da una concezione di questa oppressione come un problema di ordine strettamente “culturale”. Ciò significa dunque che la natura dell’impegno mostrato in proposito dai movimenti e dai partiti della sinistra materialista e anticapitalista non è di tipo materialista, ma è semplicemente una variazione sul tema dell’impegno già mostrato dall’ideologia liberale e neoliberista.
Anziché privilegiare esclusivamente la dimensione della tutela della libertà individuale, l’esponente di questo o quel movimento o partito anticapitalista tenderà a focalizzarsi maggiormente sulla tutela dell’eguaglianza (tra generi e orientamenti sessuali), intesa però sempre in modo formale, ossia in relazione all’eguale estensione di diritti da parte dello stato, alla parità di trattamento giuridico, o alla condanna delle varie forme di violenza e pregiudizio, intese, però, come fenomeni da deplorare in quanto contrari al “pluralismo etico”, o alla “civiltà”, e non come espressioni di un rapporto di forza da sovvertire. Ciò significa dunque che i partiti e i movimenti che si ispirano al materialismo e che mostrano sensibilità e impegno nei riguardi dell’oppressione di genere e sessuale derogano proprio all’analisi e alla critica materialista nei casi in cui si tratti di indagare le cause e le soluzioni di un’oppressione che precede, attraversa ed eccede quella di classe marxianamente intesa: le volte non rare in cui si esprimono in proposito, infatti, mobilitano un lessico e un immaginario liberale, con tutto il suo corredo di correttivi formali (leggi antidiscriminatorie, diritti civili, riconoscimento), che contrasta proprio con le premesse teoriche del materialismo.
La differenza tra i due approcci, d’altronde, è sostanziale. Se per il materialismo le varie forme di oppressione, di diseguaglianza e di violenza sono prodotte dalla società, per il liberalismo fanno invece capo a “differenze” ritenute naturali, o naturalizzate al punto da essere politicamente irriducibili. Ma soprattutto, se il materialismo mira a sovvertire le diseguaglianze abolendo il rapporto sociale che le produce, il liberalismo le trasfigura invece in differenze suscettibili di riconoscimento giuridico, senza che ciò preveda alcun mutamento strutturale nel rapporto di forza. Questo desiderio mimetico per il liberalismo, dalla mia prospettiva, deriva dall’attivo rifiuto, da parte del materialismo, di invocare la necessità di sovvertire la produzione sociale delle diseguaglianze di genere e sessuali – alla pari delle altre diseguaglianze sociali ed economiche –, limitandosi, come fa il liberalismo, a trasfigurare queste diseguaglianze in una serie di “differenze” o “diversità” intese come preesistenti a un rapporto sociale diseguale, sul quale la sinistra materialista e anticapitalista non si fa troppe domande.
Il problema, tuttavia, è che il materialismo anticapitalista diventa in questo modo un’ancella del liberalismo. Mancando di pronunciare parole proprie sull’oppressione di genere e sessuale, il materialismo contemporaneo le mutua paradossalmente dalla razionalità liberale dominante, che è però responsabile dell’ingente quantità di danni sociali che un approccio materialista mira giustamente a contrastare. In nome del contrasto all’oppressione di genere e sessuale, pertanto, l’anticapitalismo tira acqua al mulino proprio dell’ideologia contro cui si batte.
Nel senso comune l’eterosessualità viene considerata solamente un orientamento sessuale tra gli altri. Nella sua ricerca, invece, lei propone di intenderla come un “modo di produzione”. Può spiegarci cosa significa e quale utilità critica ha questo concetto?
Ci si lamenta spesso del fatto che la teoria queer rappresenti l’emblema del disimpegno per le dimensioni materiali dell’esistenza. Al contrario, non ci si lamenta mai abbastanza dei rigidi presupposti eterosessisti che continuano invece a informare gli approcci e le analisi materialiste. Attraverso la teorizzazione di un modo di produzione eterosessuale mi pongo quindi il difficile compito di ripensare una teoria queer su basi più distintamente materialiste. E se ciò presuppone di innestare il materialismo nel queer, al contempo presuppone di sovvertire radicalmente l’eterosessismo latente nel materialismo.
Nel ripensare in questi termini una teoria queer non intendo semplicemente giustapporre il queer e l’anticapitalismo, affinché le minoranze di genere e sessuali lottino anche contro il capitalismo. Questo infatti si verifica di già, e ampiamente, ma di per sé non presuppone né una trasformazione del queer né una trasformazione dell’anticapitalismo. Con la teoria del modo di produzione eterosessuale, pertanto, intendo dotare la teoria queer di uno strumento di analisi materialista che sia in grado non solo di contrastare i fenomeni sociali che ci riguardano più da vicino come minoranze di genere e sessuali (la violenza, la discriminazione, la diseguaglianza), ma che sia anche necessario tanto all’analisi del modo di produzione capitalistico, quanto alla sua sovversione.
Nel riferirmi all’eterosessualità come a un “modo di produzione” opero evidentemente una risemantizzazione del lessico marxiano. Quando Marx parla di modo di produzione pensa alla razionalità che presiede all’insieme delle relazioni sociali produttive e all’organizzazione dei mezzi di produzione: per Marx, la “produzione” coincide con la trasformazione della materia in un bene, e consta di un processo circolare che può sia, semplicemente, riprodurre se stesso, sia tendere alla formazione di plusvalore. Il modo di produzione è dunque il criterio interamente sociale – che Marx intende come contrapposto all’essenza – per mezzo del quale la materia viene trasformata in un bene, acquisendo valore. In altre parole, se c’è un modo a informare questa produzione, ciò significa che in questo processo di trasformazione della materia è indiscutibilmente all’opera un determinato criterio che promana dal modo in cui sono organizzate le relazioni sociali, ed è volto a riprodurle. Marx, chiaramente, non contemplava i corpi come suscettibili di una “produzione”, descritta in questi termini.
La teoria queer, invece, dispone già di buoni strumenti per farlo, dal momento che, notoriamente, considera nei termini di una costruzione politica il significato socialmente condiviso dei corpi e delle differenze fra loro. E nella teoria del modo di produzione eterosessuale, la materia che subisce un processo di trasformazione e di valorizzazione è proprio la materia corporea. L’eterosessualità costituisce dunque il modo, o la razionalità, che presiede alla trasformazione dei corpi in generi e alla produzione della materia corporea, in un bene. Ed esattamente come la produzione in Marx, anche la produzione eterosessuale opera su due fronti: da un lato, serve in modo indipendente a riprodurre se stessa, e dunque a conservare l’ordine eterosessuale dei generi; dall’altro, è funzionale alla creazione del plusvalore.
La mia tesi è che sia insita nel modo di produzione eterosessuale non solo la produzione della diseguaglianza di genere e sessuale, ma la produzione della diseguaglianza sociale in un senso decisamente più ampio. Non esisterebbe la società, d’altronde, se i soggetti non si relazionassero fra loro; ogni soggetto, tuttavia, prende parte alle relazioni sociali recando già da sempre, con sé, un genere. E se questo genere è venuto producendosi per mezzo di una razionalità gerarchica, ciò significa che esso costituisce il perno per mezzo del quale si produce – e riproduce – ogni diseguaglianza sociale.
Dalla mia prospettiva, il motivo per cui l’anticapitalismo dovrebbe rimodularsi sulla base di un proposito di sovversione del modo di produzione eterosessuale risiede nel fatto che questo è storicamente e logicamente antecedente al modo di produzione capitalistico. Il capitalismo, in altre parole, si innesta su una relazionalità sociale già densamente strutturata dalle differenze di genere e sessuali. Per comprenderlo, tuttavia, non occorre risalire a un qualche remoto e nebuloso passato: occorre semplicemente osservare che nelle società in cui viviamo, tardo-capitalistiche, tutti i corpi continuano incessantemente a essere prodotti come maschili o come femminili, all’interno di una cornice di intelligibilità del genere rigidamente binaria.
Se si vuole ambire a una qualche forma di riconoscibilità e inclusione sociale, chiunque deve sottomettersi alla catena della produzione eterosessuale. Al contempo, la produzione degli uomini e delle donne in quanto tali si dà in modi che sono indistinguibili dalla diseguaglianza, dalla gerarchia e dalla violenza: ciò accade perché il modo di produzione eterosessuale, per poter operare e riprodursi, si fonda sulla trasfigurazione di differenze anatomiche ben determinate in principi di classificazione e gerarchizzazione sociale. E se l’anticapitalismo contemporaneo mutua dal lessico liberale, anziché da quello materialista, le parole per contrastare la diseguaglianza e la violenza di genere e sessuale è perché nonostante concepisca ogni relazione e ogni diseguaglianza sociale come prodotta dalla società, concorda con il liberalismo nel concepire nei termini fuorvianti di una “differenza sessuale” inerte, naturale e presociale ciò che ho appena schematicamente illustrato nei termini di un modo di produzione.
Che questo modo di produzione eterosessuale sia precapitalistico – ed è questo che manda in crisi gli assunti di base dell’anticapitalismo – non autorizza a definire i suoi prodotti come inerti, naturali e presociali. È dalla produzione eterosessuale dei generi che dipendono direttamente fenomeni sociali come l’omotransfobia e la misoginia, ai quali, nel discorso comune, ci si riferisce in modalità ingannevoli, che ne occultano la matrice produttiva. Farli passare come crimini strettamente individuali, e troppo spesso come problemi di ordine psicopatologico, di odio o di paura irrazionale, serve sia a rendere irrazionale l’azione degli esecutori materiali, sia a impedire qualunque trasformazione sociale.
Ma c’è di più. È dalla produzione eterosessuale dei generi e del rapporto sociale di genere che deriva l’insieme delle risorse materiali e simboliche di cui il capitalismo necessita per affermarsi e riprodursi incessantemente: ciò è dimostrato dalla persistente divisione sessuale del lavoro, dalle varie e complesse forme di segregazione occupazionale e dallo sfruttamento del lavoro sessuale e di genere. E se il modo di produzione eterosessuale è ciò che offre al capitalismo le risorse umane e simboliche (cioè gli uomini e le donne e le loro relazioni) per affermarsi storicamente e continuare a riprodursi, la sua sovversione costituisce senza dubbio uno dei requisiti per la sovversione del modo di produzione capitalistico stesso. Insisto su questo punto non per una smania fine a se stessa di ribaltare la gerarchia tra ciò che viene prima e ciò che viene dopo: lo faccio piuttosto per sottolineare che il capitalismo non costituisce l’inizio e la fine di ogni oppressione o diseguaglianza, e che il suo ipotetico superamento, pertanto, non le eliminerebbe automaticamente tutte.
Nel considerare il modo di produzione eterosessuale come logicamente e storicamente anteriore a quello capitalistico intendo dire che il primo sarebbe tranquillamente destinato a sopravvivere al secondo, nel caso in cui il superamento del capitalismo non fosse preceduto da una sovversione del modo di produzione eterosessuale, col bel risultato di trovarci in una società forse non più permeata da processi di soggettivazione e da rapporti sociali e di produzione capitalistici, ma perfettamente sorretta da processi di soggettivazione e da rapporti sociali e di produzione eterosessuali: l’assegnazione del genere, il binarismo di genere e sessuale, le disuguaglianze e le violenze di genere e sessuali, le forme di sfruttamento e di esclusione sociale che si dipanano lungo il genere e la sessualità (che non vengono nemmeno percepite come tali), la partizione tra lavoro “produttivo” e lavoro “riproduttivo” o la persistenza di differenziali di potere che strutturano le possibilità (o le impossibilità) di relazione dei corpi tra loro – ebbene, tutte queste pratiche sociali non necessitano affatto del capitalismo per continuare a restare tali e quali.
Da tempo la teoria queer auspica l’abolizione del genere inteso come costrutto sociale, ma senza che ciò abbia mai condotto agli esiti sperati, altrimenti la violenza, lo sfruttamento e la diseguaglianza di genere e sessuale sarebbero problemi risolti. Spostare l’attenzione sul modo di produzione eterosessuale potrebbe invece condurci a connettere l’abolizione del genere alle relazioni e alle pratiche sociali entro le quali i generi acquisiscono intelligibilità rafforzando, consciamente o inconsciamente, il loro modo di produzione. Il genere, d’altronde, non esiste di per sé, in un vacuum, ma sempre “strutturalmente”. Dunque, che senso ha limitarci ad auspicare l’abolizione di generi eterosessualmente prodotti se non aggrediamo innanzitutto la complessa struttura culturale, politica ed economica che li produce?
Il termine “queer” circola da trent’anni nell’accademia e nell’attivismo, eppure il suo significato sembra sempre sfuggire. Può aiutarci a fare maggiore chiarezza?
Non sono sicuro che del queer si possa dare una definizione certa, o univoca, ed è forse proprio questa feconda ambiguità del termine a dischiudere ancora oggi concrete possibilità trasformative.
Tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta il termine queer si afferma per indicare una strenua resistenza alle politiche identitarie, il cui fine principale era la rivendicazione di inclusione delle minoranze in un sistema sociale oppressivo e gerarchico. Successivamente – specialmente nell’epoca dell’Aids – passa a denotare il lavoro politico di alleanza fra le diverse minoranze (talvolta anche con le maggioranze), finalizzata a una lotta più radicale contro l’oppressione stessa. Tra gli anni novanta e gli anni duemila, il termine subisce invece un processo di accademizzazione e diventa un significante aperto, volto a rigettare ogni essenzialismo di genere e sessuale e dunque a definire la labilità delle linee di demarcazione dei generi e delle sessualità. Tuttavia, se questo contribuisce indubbiamente ad ampliare le possibilità di esistenza e di relazione, favorendo la proliferazione di posizionamenti e di esperienze di genere e sessuali non riducibili ai binarismi uomo/donna ed eterosessuale/omosessuale, al contempo rischia di veicolare l’idea gravemente confusa che singole esperienze trasformative bastino ad attestare il tramonto definitivo delle dinamiche di potere etero-patriarcali, nonché dei binarismi di genere e sessuali di cui si nutrono e che, costantemente, producono e riproducono.
Oggi credo che se un senso può avere una politica queer nel contesto delle necessarie lotte anticapitalistiche, questa deve farsi fautrice del ribaltamento della concezione dominante del rapporto tra il modo di produzione capitalistico e la questione della produzione del soggetto e della relazione sociale. Non ci si può limitare ad auspicare che le minoranze abbraccino un anticapitalismo che resta piuttosto strafottente nei riguardi della loro oppressione, salvo poi deplorarle nei troppi casi in cui non lo fanno, liquidando le loro lotte come “liberali” o “borghesi”. Con questo non intendo dire che le lotte condotte dalle minoranze di genere e sessuali, molto spesso, non siano nient’altro che questo: insistere sulla questione del modo di produzione eterosessuale ha per me una precisa funzione non solo per la teoria politica marxista e per i movimenti anticapitalisti, ma anche, o soprattutto, per i movimenti che lottano per una qualche idea di trasformazione delle relazioni di genere e sessuali.
Anche loro rischiano infatti di preservare la posizione strutturale del modo di produzione eterosessuale: se i movimenti anticapitalisti lo fanno auspicando un superamento del capitalismo improntato a una concezione delle classi e del rapporto tra struttura e sovrastruttura che declassa a questioni “sovrastrutturali” le gerarchie e le disuguaglianze ingenerate dal modo di produzione eterosessuale (intese come contrapposte in senso deteriore a quelle “strutturali”), le minoranze di genere e sessuali lo fanno invece improntando la propria lotta a una razionalità più o meno esplicitamente liberale, contribuendo a occultare la matrice dell’oppressione di genere e sessuale e accontentandosi, troppo facilmente, di “visibilità” o di “inclusività”. E sul punto, mi preme ricordare le parole della teorica lesbo-femminista Liana Borghi, scomparsa di recente, che fu tra le prime a introdurre il queer nel dibattito italiano: «Se dirsi lesbica e gay rappresenta un atto di resistenza quotidiana, questo interferisce col sistema e serve, se non altro, a evidenziarne le contraddizioni. Ma nel momento in cui il sistema se ne appropria e lo omologa, non serve più». Nei casi in cui sia lo stesso sistema sociale eterosessuale a favorire la visibilità e l’inclusività delle minoranze di genere e sessuali, traendone addirittura dei profitti, e senza che questo muti di una virgola le strutture di potere etero-patriarcali, occorre far fare alle lotte di genere e sessuali un passo in avanti, teorico e politico.
Nonostante i progressi fatti negli ultimi cinquant’anni, l’omofobia, la bifobia, la lesbofobia e la transfobia persistono nella società e sembrano tornare periodicamente nel discorso politico. In particolare, lo si è visto nell’ondata populista, conservatrice e reazionaria che sta attraversando Europa e America. Perché, secondo lei, la sessualità e il genere continuano a “tormentare” la politica?
Che omofobia, bifobia, lesbofobia, transfobia – alla pari di misoginia, razzismo e abilismo – persistano instancabilmente, tanto nel nord quanto nel sud globale, è un dato di fatto che non dovrebbe essere in nessun modo relativizzato. Ciò che aggiungo, tuttavia, è che sarebbe fuorviante ridurre interamente questi fenomeni al fatto che alcune persone subiscono forme di violenza o umiliazione da parte di certe altre. Tutti quei fenomeni, piuttosto, costituiscono alcune delle manifestazioni del modo di produzione eterosessuale, e rappresentano essi stessi modi di produzione che cooperano fra loro per conservare e per imporre, per mezzo della violenza, l’ordine eterosessuale dei generi, la stabilità della famiglia, nonché l’eterosessualità del desiderio. Tutte cose che servono interessi politici ed economici di grande portata, che hanno direttamente a che fare con il capitalismo, con lo stato e con la tenuta di un ordine sociale gerarchico e violento.
Fra le molte altre cose, la tenuta dell’ordine eterosessuale dei generi garantisce la “naturale” conservazione dei ruoli produttivi e riproduttivi; la famiglia, quella di forme informali di reddito e di lavoro riproduttivo gratuito; l’eterosessualità del desiderio, infine, è ciò che contribuisce ad ammantare di “naturalità”, e addirittura di romanticismo ed erotismo, un regime di soggettivazione e di relazione gerarchico e coercitivo, al quale chi si sottrae può esporsi o a forme aleatorie di inclusività o a forme brutali e violente di esclusione sociale. Più che “tormentare” la politica, dunque, direi che la tenuta dell’ordine dei generi e della sessualità è “necessario” alla politica eterosessuale – e il backlash in corso, da parte delle forze populiste, conservatrici e reazionarie lo conferma in modo esemplare.
Allo stesso tempo, però, sembra che i temi della diversità, dell’inclusione e dei diritti Lgbt+ siano stati in parte assimilati dalle istituzioni, penso ad esempio al discorso del presidente Mattarella in occasione dell’Idahobit (International Day Against Homophobia, Transphobia Biphobia). Ma anche alle molte aziende che, durante il mese del Pride, danno visibilità alla causa attraverso le loro strategie di comunicazione. Addirittura la Banca mondiale si è esplicitamente espressa contro l’omofobia. Che rapporto sussiste tra questi fenomeni e l’oppressione, ancora esistente, delle minoranze?
Ancora una volta, il rapporto fra questi fenomeni, apparentemente antitetici, passa per le modalità di conservazione dell’ordine eterosessuale dei generi. Che siano violentemente escludenti o che siano strumentalmente inclusive, queste modalità assumono in ogni caso l’eterosessualità come metro per escludere, o viceversa per includere, chi a essa non si conforma. È quanto mai cruciale, pertanto, ricordare che se gli stati o il capitale, per mezzo ad esempio di tecnologie di governo delle “diversità” (come il diversity management), possono sfruttare strumentalmente l’argomento dell’inclusione delle minoranze di genere e sessuali per ricavare nicchie di mercato, per devastare l’ambiente, per sfruttare certe popolazioni o per fare la guerra a certe altre, ciò è reso possibile da una struttura sociale eterosessuale che rende in quanto tale strumentalizzabile l’inclusione stessa, e sempre possibile, chiaramente, la minaccia di esclusione. È cruciale ricordarci di non confondere la critica degli “effetti” con la critica delle “cause”, perché è dalla sovversione delle cause che discende la sovversione degli effetti.
Dopodiché, esistono chiaramente delle differenze tra forme di potere neofondamentaliste, populiste, reazionarie e forme di potere neoliberiste. Le prime massimizzano la “gerarchizzazione delle differenze biologiche”, la quale produce come esito la priorità ontologica dell’eterosessualità e la naturalizzazione dei generi da essa istituiti. Le seconde, invece, lo fanno in modo più subdolo, ma tuttavia complementare: se per le prime ogni deviazione dall’eterosessualità è un abominio “contro natura”, per il neoliberismo ogni forma della sessualità, o quasi, è invece “naturale”. Questo consente al capitalismo neoliberista di non estromettere le minoranze di genere e sessuali dagli odierni processi di valorizzazione e sfruttamento, a patto che questa loro inclusione avvenga nel segno della sostanziale identicità alle persone cisgenere ed eterosessuali che già godono di cittadinanza politica e sociale, in modalità che rafforzino l’adesione ai modelli, anche estetici, di “conformità” al genere, di bianchezza e di performance produttiva – e, di fatto, agevolando l’ulteriore marginalizzazione dei corpi difformi dalle norme di genere, come anche dalle norme dell’abilismo, psichico e motorio.
E questa «flessibilizzazione dell’eterosessualità come elemento centrale della governamentalità neoliberale», come la definisce Gundula Ludwig, non fa che offrire la conferma del fatto che la razionalità neoliberista opera mediante la “naturalizzazione delle gerarchie sociali”, esattamente come già fa con molte altre relazioni gerarchiche – come ad esempio quella tra i ricchi e i poveri, o tra i bianchi e i neri. La naturalizzazione dei generi e delle sessualità minoritarie, fondata sul “riconoscimento” statale e sulla “valorizzazione” capitalistica, partecipa di un processo di ampliamento della forbice delle diseguaglianze sociali che le occulta in quanto tali, trasformandole in mere “differenze” o “diversità” la cui tutela, ci viene detto, sarebbe da concepire come prova del compiuto progresso delle società occidentali verso i valori liberali del pluralismo etico e della libertà individuale di espressione.
In questo periodo si è spesso parlato di sesso, genere e identità di genere, specialmente in relazione al ddl Zan. Intorno all’attivismo e alle persone trans si sono levate diverse voci critiche, non solo dalle forze di destra e dall’associazionismo cattolico ma anche da parte di alcuni intellettuali di sinistra e attiviste femministe. Può fornirci qualche elemento per meglio comprendere questo dibattito e capire cosa c’è davvero in gioco?
In linea con quanto detto fin qui, credo che a essere in gioco sia il bisogno, impellente, di imbrigliare le potenzialità trasformative che potrebbero sortire sull’ordine eterosessuale dei generi le identità non binarie, non cisgenere, non eterosessuali. E se, senza alcuna sorpresa, ciò rappresenta gli interessi di tutti coloro che hanno molti motivi di nutrirne nei riguardi della tenuta del sistema sociale eterosessuale, sorprende invece parecchio che tale proposito venga condiviso anche da alcune esponenti del femminismo che si appropriano indebitamente dell’aggettivo “radicale” per farsi in realtà fautrici di un essenzialismo differenzialista che fa letteralmente il gioco del nemico.
Non c’è nulla di radicale in un approccio altamente lesivo della lotta e della dignità di esistenza di coloro che, con enorme fatica, tentano di vivere, respirare e amare fra gli interstizi dei generi binari ed eterosessuali imposti. Se davvero volessimo onorare un approccio “radicale” – il quale, per definizione, va alla radice di un dato problema – dovremmo dedicare gran parte della nostra riflessione e del nostro attivismo all’elaborazione di discorsi e strategie che favoriscano l’alleanza fra le diverse minoranze di genere e sessuali, lotte comuni in cui la diversità delle forme assunte dalle rispettive oppressioni non viene né minimizzata, né relativizzata, né strumentalizzata per stabilire quali di queste forme sia più importante delle altre, bensì è precisamente ciò che indica la forma che deve assumere una visione sovversiva comune, della comune matrice di oppressione di genere e sessuale. La mia intera riflessione e il mio intero attivismo mira solo ed esclusivamente a questo.
Intervista a Federico Zappino
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Tutte queste “decostruzioni” secondo me servono solo a peggiorare nuovamente
una questione dove si erano fatti notevoli passi avanti in passato.
Categorie che prima erano disprezzate e condannate vedevano per la prima volta riconosciuti ufficialmente i loro diritti.
Dove prima erano possibili solo manifestazioni di protesta al limite dell’illegalita (per le leggi vigenti)ora era possibile un dialogo legale con una controparte che
(facendo di necessita virtu’)era disposta ad accettarlo.
Senonche molti pretesi personaggi piu’ o meno “rivoluzionari” hanno visto venir meno la loro funzione di iniziatori di crociate,e hanno dovuto inventarsi nuovi obiettivi sempre piu’ estremi.
Di qui la nascita dei “queer”,per i quali l’omosessualita non e’ semplicemente equiparabile all’eterosessualita,cosa che per inciso soddisferebbe buona parte della massa dei gay e lesbiche,ma un modello superiore da imporre scatenando nuove crociate.
Almeno e’ quello che a grandi linee vedo nell’intervista di cui sopra,che oserei dire non brilla certo per chiarezza di espressione,tratto del resto assolutamente
peculiare da molti anni della filosofia postmodernista,come e’ stato fatto notare un’infinita di volte,e che ha ispirato anche beffe solenni,come questa :
https://it.wikipedia.org/wiki/Affare_Sokal
Per inciso,lo stesso discorso vale per i diritti di una minoranza direi piu’ numerosa,quella dei neri.
All’epoca in cui la discriminazione era legalizzata (ricordate le divisioni persino sugli autobus ?)
ne e’ seguita ora una in cui spesso cariche di reponsabilita come sindaco o capo della polizia vengono assegnati a neri sull’onda esclusivamente del “politicamente corretto”, e vengono tollerati comportamenti che per un bianco comporterebbero la destituzione immediata : basta guardare certi provvedimenti di riduzione dei fondi per le forze di polizia,come una stupida “rappresaglia” per i ben noto gravi atti di violenza .
Peccato che cio abbia provocato in diverse citta un pauroso aumento della criminalita,della quale beninteso anche la comunita nera fa le spese come le altre.
In soldoni si vede applicare un “razzismo alla rovescia”,che beninteso riguarda in pratica solo
un ridotta elite,e che esacerbando la situazione non fa che peggiorare anche i casi di razzismo classico.
Al contrario da quanto ricostruito nel suo primo commento, l’attivismo queer non nasce da alcuna “invenzione” di ex-rivoluzionari disoccupati. Si tratta invece di un insieme di movimenti partiti “dal basso” e mossi da esigenze concrete, che coinvolgevano soprattutto la nuova generazione di attivisti e attiviste dei primi anni ’90.
Le teorie queer sono nate in concomitanza, in parte per dare dignità teorica e critica alle istanze dell’attivismo, in parte come risultato di dibattiti interni alla comunità LGBT+ stessa. Nessuno dei suoi sostenitori, che io sappia, ha mai detto che l’omosessualità fosse superiore all’eterosessualità né tantomeno ha mai proposto di imporre le proprie idee ad altri. E, in ogni caso, non è certo questo lo scopo.
Mettere sullo stesso piano da una parte l’attivismo e l’impegno intellettuale di chi lavora per l’uguaglianza e dall’altra fenomeni sociali come razzismo o omofobia mi sembra non solo sbagliato ma anche disonesto. Si può chiaramente non essere d’accordo con alcune posizioni, ma rimangono autorevoli voci critiche elaborate da attivisti e intellettuali che fanno parte degli stessi gruppi oppressi.
Interessante, anche se troppo lungo. Anche il termine queer che ritenevo offensivo, si può usare, con cautela.
Per me va bene tutto, però nella società italiana, ci vogliono più dosi di piccolo calibro. Se no l’opinione pubblica generalista rimane interdetta, confusa e anche ostile.
Il noto divulgatore scientifico Richard Dawkins,in un suo saggio fa notare come i fisici
sono sempre alle prese con concetti molto complessi e difficili,per cui per potersi rivolgere ad un pubblico generico devono fare grandi sforzi per esprimersi nella forma ” piu’ semplice possibile”(Pero’,ammoniva Einstein,non piu’ semplice di cosi !).
E Dawkins riteneva che molti filosofi( o sedicenti tali)si sentano invece complessati dalla relativa semplicita dei loro concetti,per cui,per darsi un tono di alta cultura
finiscono con l’esprimersi volutamente in modo incomprensibile o quasi.
Come se in tal modo un complesso abbastanza semplice assumesse,agli occhi dei profani,l’arcano fascino delle formule della teoria della relativita.
Teoria che, per inciso,una persona che la padroneggi veramente puo’ benissimo spiegare,ovviamente nelle linee fondamentali,a qualunque persona di intelligenza e cultura normale,usando termini molto semplici.
Paradossale,vero?
Ma anche molto comune.
Corrige : “concetto abbastanza semplice ” al posto di “complesso”
Nei corsi sulla comunicazione tecnico-scientifica ci dicevano chiaramente che per veicolare il messaggio bisognerebbe esprimere pochi concetti chiari e sintetici, a maggior ragione se non si ha a che fare con gli specialisti. Questi corsi evidentemente i filosofi non li fanno. Di questo lungo articolo capisco ben poco di quanto si voleva spiegare.
Ho l’impressione che l’estrema sinistra si ponga sempre degli obiettivi irrealizzabili per cercare la rivoluzione perenne mitologica. Mi sembra che le rivoluzioni non abbiano avuto grande successo rispetto ai cambiamenti continui.
Che senso ha pretendere di applicare certi concetti materialistici ad una società profondamente cambiata e di fatto rivoluzionata rispetto ad allora? Una società che Marx non ha mai visto nè potuto immaginare? Mi sembra come voler adattare i Vangeli all’oggi.
Oggi la produzione tradizionale, fatta cioè da agricoltura, industria e costruzioni, occupa solo il 30 % dei lavoratori, mentre circa il 75 % del PIL viene fatto dai servizi, alias settore terziario, un settore non più legato all’idea tradizionale di produzione e divisione di ruoli, quindi, meno legato ai retaggi sociali, in cui la presenza femminile è più elevata.
Se si pensa poi che anche in Italia nella pratica il concetto di famiglia ha assunto significati molto più ampi, dove circa un terzo delle famiglie è fatto da single sia uomini che donne, mentre in paesi più evoluti come la Svezia questa quota è già al 50 %. Sono solo i conservatori che continuano a concepire solo le famiglie come fatte da coppie, possibilmente sposate, con matrimonio cattolico e con tanti figli, anche se ben 1/3 di queste famiglie non ha figli ed un terzo ha un solo figlio e che continuano a pensare ad una logica lavorativa di fatto superata, come anche lo smart working testimonia, anche se l’Italia anche in questo campo riesce ad essere agli ultimi posti.
@Robertov
“Di questo lungo articolo capisco ben poco di quanto si voleva spiegare.”
Sembra che lo stesso valga per gli scritti del famoso Lacan.
Una volta,quando un giornalista dopo una sua conferenza gli confido di non aver capito quasi niente,ebbe l’impressione (riferi’ in seguito) che la cosa gli facesse piacere.
Suggerirei la lettura di Utopie minimaliste”,di Luigi Zoja,dove il sociologo ricorda il fallimento delle grandi ideologie nella pretesa di produrre l”uomo nuovo”,immune dai difetti come il gusto per la proprieta privata,l’interesse personale,e magari anche il sesso.Di come siano solo riuscite spesso ad ammazzare un sacco di “uomini vecchi”.
Di come sarebbe meglio accontentarsi di obiettivi piu’ terra terra(le utopie minimaliste)tenendo conto dell’immutabile natura umana.
L’ italiano non essendo la mia madrelingua, è ovviamente per me piuttosto difficile a capire un testo cosi ” ermetico ” ( ser posso qualificare cosi ) ma poi, avendolo tradotto via google per piu semplicita sono rimasto comunque dubbitoso in merito alla sua comprensione . E da notare che da alcuni tempi siamo travolti da un ondata incredibile di nuove parole e teorie che improvvisamente pretendono di spiegare la nostra società occidentale : inclusione, intersezionalità, patriarcato, razzializzazione,”whiteshift ” ( in francese l’abbiamo tradotto con ” blanchitude ” ma in italiano non so ),decolonialismo, genere, queerizzazione, appropriazione culturale, transfobia…e probabilmente ne ho dimenticato… Il carattere accademico di queste parole conferisce loro un’aura di scientificità, come se si riferissero a fatti accertati mentre questi sono termini dubbi che tradiscono un particolare pregiudizio e visione del mondo. Poiché questi termini tendono ad imporsi per intimidazione, facendo sentire in colpa chi non li adotta, li contesta o non li comprende ( come nel caso di questo testo ), sembrerebbe necessario proporre una sintesi che ne esamini i fondamenti e la logica. In realtà ci rendiamo conto che queste sono in realtà le parole dell’attivismo, anche se a volte si basano su determinate realtà. Per esempio, trasformare una differenza – che può avere cause molto diverse – in disuguaglianza e, da lì, vederla come “discriminazione”, che presuppone un’intenzionalità malevola, è proporre una lettura vittimizzata che ha l’effetto di creare antagonismi. È spesso attraverso questa semplificazione moralizzante che la militanza aggressiva spiega le relazioni sociali, creando categorie che si costruiscono come opposte (uomo/donna; bianco/razzializzato, ecc.).
Ritengo che l’estesa variante dei comportamenti sessuali, quindi le relative cause, siano già abbastanza complicati/e per un docente e/o esperto sessuologo….
Ho letto e riletto l’interminabile articolo. Devo purtroppo ammettere che –malgrado la mia relativa conoscenza in questa branca- non ho capito cosa intende dimostrare Federico Zappino sull’orientamento sessuale e/o l’identità di genere evocando questioni essenzialmente filosofiche o politiche !
Da notare che per Bruno Perreau, la teoria Queer sarebbe diventata il simbolo degli eccessi degli studi di genere agli occhi dei suoi oppositori….Altri la ritengono un fenomeno tipo Barnum, o comunque di scarsa considerazione a livello scientifico accademico.
La buonanima di Umberto Eco avanzerebbe l’ipotesi che lei,come me del resto,non abbia capito cosa l’autore intenda, per il semplice fatto che non c’e niente da capire.
Ricorda “Il pendolo di Foucault”?
“Molti dei piu’ grandi misteri resteranno sempre insoluti perche’ dietro non c’e proprio niente !”
Qui ,e in tantissimi altri casi,il discorso e’ analogo.
Ritenere che dietro un pensiero articolato e complesso non vi sia niente da capire è anti-intellettualismo. Federico Zappino è un teorico di tutto rispetto, che ha pubblicato contributi di valore nel suo ambito di studi. La difficoltà di comprensione richiede casomai approfondimento, non rifiuto a priori.
Quando si dice “i misteri della fede…”
@Lorenzo
E io invece mi permetto di pensare che l’onere di farsi capire spetta a chi formula un discorso,se vuole trovare ascolatori.
Perche il tempo e’ sempre poco e i discorsi sono tanti,per cui inevitabilmente l’interesse degli ascoltatori andra a chi sapra essere piu’ convincente,e l'”ermetismo” (in pratica parlare senza dire niente)non aiuta certo in questo senso.
A meno ovviamente di essere il Papa.
Dimenticavo : un modo per misurare la padronanza che qualcuno ha di una qualdsiasi materia,e’ proprio la sua capacita di darne una spiegazione comprensibile ad un profano.
Se non ci riesce vuol dire che nemmeno lui la padroneggia veramente.
Quanto alla “teoria queer” credo che sia utile ai problemi dei gay quanto i gay pride:
esibizioni di energumeni seminudi in piume di struzzo.
Molti gay ammettono che sembrano organizzati su misura per ribadire nel pubblico tutti i peggiori pregiudizi sull’argomento.