Arabia Inaudita

L’Arabia Saudita si mostra come paese proiettato verso il futuro, ma rimane una monarchia assoluta di stampo islamista. L’assetto istituzionale è quello di un regime confessionalista in cui il clero wahhabita e la dinastia regnante sono strettamente legati, nonostante qualche riforma calata dall’alto dal principe Mohammad bin Salman. Ne parla Paolo Ferrarini sul numero sul numero 3/22 di Nessun Dogma.

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Il “concordato” che blinda la natura clericale dello stato dell’Arabia Saudita è il patto tra una casta sacerdotale, quella degli ulema, e la dinastia degli al-Saud, discendenti di Abdulaziz al-Saud, fondatore del regno nella sua attuale configurazione e sovrano dal 1932 al 1953.

Le basi teoriche di questo patto risalgono alla filosofia politica di Mohammed ibn Taymiyyah (1263–1328) secondo il quale i regnanti laici e le autorità religiose costituirebbero insieme i due rami del governo islamico ideale: a differenza di una teocrazia tout-court, in questo sistema i leader religiosi non detengono direttamente il potere esecutivo, ma sono interpreti della legge e giudici dell’operato del sovrano, la cui missione è racchiusa nel principio della Hisba, «ordinare il bene e proibire il male», come prescritto dalla shari’a.

La stabilità del governo e l’egemonia degli al-Saud sono quindi legate all’esplicita e costantemente rinnovata legittimazione da parte dagli ulema, dando vita a un delicatissimo gioco di equilibri e calcoli politici che storicamente ha avuto l’effetto di frenare fino a immobilizzarli i principali cambiamenti sociali che nel frattempo hanno interessato gran parte del mondo.

L’eterno medioevo del regno, dovuto anche al suo isolamento – pressoché totale fino alla scoperta del petrolio – rappresenta un raro e interessante esempio di nazione che ha seguito un percorso storico lineare, in larga misura inalterato da interferenze esterne. Non esiste per esempio un dibattito politico, come quello che infiamma molti altri stati a maggioranza musulmana, sulla reintroduzione della legge islamica, semplicemente perché qui non è mai sparita.

Il paese non è mai stato distratto da ideologie alternative come il nazionalismo, il panarabismo o il secolarismo, e soprattutto non ha dovuto incorporare e rielaborare sistemi legislativi e governativi ereditati dal colonialismo. L’Arabia Saudita rimane quindi, nel 2022, un regno nel senso fiabesco del termine, con un monarca assoluto che governa sui sudditi dal suo sfarzoso palazzo, circondato da principi e giullari di corte, e dove il popolo è legato alla famiglia regnante da una religione che gli impone di rispettarla, nonché da un’economia di tipo distributivo che seda i malumori a suon di petrodollari.

E di malumori in Arabia Saudita ce ne sono molti, sia da destra che da sinistra. Gran parte degli attuali problemi politici e sociali si possono far risalire, in ultima analisi, al wahhabismo, la versione dell’islam promossa dall’establishment come dottrina ufficiale del regno. Elaborata nella seconda metà del XVIII secolo sulle basi giuridico-dottrinali della scuola hanbalita – già la più rigida delle quattro interpretazioni maggiormente diffuse nel mondo sunnita – la teologia di Ibn Abd el-Wahhab si caratterizza per la totale intransigenza sul dogma dell’unicità divina, incrementando così la frattura con gli sciiti, considerati per le loro pratiche di culto e venerazione degli imam non semplicemente cattivi musulmani, ma addirittura infedeli politeisti.

L’odio esistenziale che connota i moderni conflitti geopolitici tra Iran e Arabia Saudita ha origine in questo cavillo teologico. Ma il wahhabismo è molto di più. È una visione totalizzante, fondamentalista, puritana e conservatrice della vita, che stigmatizza l’idea di innovazione e non tollera margini di dissenso. Gli al-Saud, che sono riusciti nella missione impossibile di unificare una penisola di tribù ostili e litigiose solo grazie all’alleanza con il predicatore Abd el-Wahhab, atteggiandosi così a crociati impegnati in una conquista divinamente ispirata che trascendeva il loro tornaconto personale, si sono trovati nella posizione, a volte scomoda, di dover rappresentare, imporre e propagandare quella dottrina, anche in contraddizione ai loro veri istinti politici e stili di vita (per esempio, è risaputo che alcuni membri della famiglia bevono alcolici).

Nel 1979, in reazione a un traumatizzante attacco terroristico a Mecca e soprattutto alla rivoluzione iraniana, il paese si chiude in sé e dà un giro di vite a qualsiasi tentazione progressista e deriva laicista. Per rinsaldare il patto con gli ulema, milioni di dollari vengono investiti nell’istruzione religiosa , sia in patria che nel resto del mondo, viene rafforzata la segregazione dei sessi, messa al bando ogni celebrazione frivola come la festa di San Valentino o il Natale, e ogni forma di intrattenimento demoniaco come la musica e il cinema, mentre alla Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, la famigerata “polizia religiosa”, viene dato ampio potere di arrestare, trattenere e interrogare i cittadini sospettati di violare la shari’a. Inoltre, la carica di gran mufti passa a fanatici come Abd al-Aziz Ibn Baz, inveterato sostenitore del geocentrismo e della necessità di impedire il diffondersi di depravazioni come le donne al volante.

Tutto ciò non è comunque sufficiente per i critici di destra, ai quali non sfuggono le contraddizioni degli al-Saud, accusati di sfruttare opportunisticamente la religione per consolidare una gestione pressoché privatistica del paese (l’unico nel mondo che incorpora nel nome ufficiale il cognome di una famiglia – l’equivalente da noi avrebbe potuto essere “Italia Sabauda”). Movimenti politici come i Fratelli musulmani e jihadisti come al-Qaeda considerano ipocrita, per esempio, il disinteresse della dinastia a progetti globali ritenuti più genuinamente islamici come la restaurazione del califfato, per non parlare dell’allineamento strategico con gli Stati Uniti e l’occidente infedele.

Il governo ha dimostrato però di avere le risorse e la determinazione per sopprimere con efficacia – in certi casi persino con intelligenti programmi di recupero – gli elementi radicali all’interno del paese, particolarmente preso di mira dai terroristi negli anni successivi all’invasione americana dell’Iraq. Purtroppo ha fatto e continua a fare esattamente la stessa cosa anche con le forze più liberali e progressiste della società civile, dissidenti che hanno trovato il coraggio di esporsi e alzare la voce nel periodo delle primavere arabe del 2011.

Secondo alcuni analisti politici, la vera primavera, per l’Arabia Saudita, è in corso in questo momento: non certo nell’accezione di risveglio democratico per cui era stato coniato il termine, ma nel senso che dopo decenni di ristagno culturale e sclerotizzazione istituzionale, le cose stanno realmente cambiando, e rapidamente, grazie a una serie di sorprendenti riforme economiche, amministrative, politiche e sociali programmate da re Salman e da suo figlio Muhammad Bin Salman (MBS), principe ereditario e leader de facto del paese: un ambizioso progetto di rinnovamento chiamatoVision 2030.

Basato sulla premessa che la dipendenza economica dai combustibili fossili non è né sostenibile all’infinito, né desiderabile, Vision 2030 vuole essere non un semplice sviluppo, ma uno scatto verso un’economia diversificata e a tratti avveniristica, con una serie di obiettivi specifici da realizzare entro la data specificata, che includono l’apertura al turismo e ai servizi del settore privato, il potenziamento delle infrastrutture, e la costruzione di una fantascientifica smart city nel deserto chiamata NEOM, che sarà alimentata interamente da fonti rinnovabili, coperta di parchi e zone verdi, servita da robot, senza automobili ma con trasporti sotterranei che supereranno l’alta velocità dei nostri treni.

La parte più interessante è che Vision 2030 include espliciti obiettivi anche in merito alla secolarizzazione del Paese, misure necessarie nell’ottica di attirare investitori e visitatori stranieri. Già dal 2016 i poteri della polizia religiosa sono stati fortemente limitati e sottoposti al controllo della polizia regolare. A questo riguardo, gli anni dal 1979 al 2016 sono stati descritti dal quotidiano Arab News, voce ufficiale del governo, come «un periodo in cui l’istituzione ha travalicato il suo compito di guida spirituale per i musulmani, prendendo una piega estremista­».

Sono previsti miglioramenti nell’istruzione, con l’introduzione, a tutti i livelli, di nuovi curricula volti a incoraggiare «il pensiero critico e le conoscenze necessarie in un’economia centrata sul sapere e competitiva a livello globale». Nell’ambito dell’industria dell’intrattenimento si sono tenuti i primi concerti live in pubblico, sono stati riaperti i cinema, e a Jedda lo scorso dicembre si è svolta la prima edizione del Red Sea Film Festival, evento mondano sul cui tappeto rosso le attrici non hanno certo sfilato con addosso la tradizionale abaya nera.

In una mossa altamente pubblicizzata, è stato poi concesso alle donne il diritto di guidare, un’enorme conquista di emancipazione in un paese dove praticamente non si esce di casa senza un’auto. Nel 2019 sono state rimosse anche le restrizioni di movimento per le donne, che ora possono viaggiare senza essere accompagnate da un custode maschile. Nel 2020 è stata abolita la fustigazione come forma di punizione, e la pena di morte per i minori. Il piano prevede anche la normalizzazione dei rapporti con le altre religioni e, questione ancor più scottante, con Israele.

Alla conferenza stampa per il lancio di Vision 2030, rispondendo a una temeraria giornalista che gli chiedeva se la religione non avrebbe inibito questi straordinari sforzi di rinnovamento, la risposta, inaudita, di MBS è stata: «Noi non eravamo così in passato. Stiamo solo tornando a dove eravamo, a un islam moderato, equilibrato, aperto al mondo, a tutte le religioni, tradizioni e popoli. Il 70% della popolazione saudita ha meno di 30 anni. Francamente non vogliamo sprecare 30 anni delle nostre vite con idee estremiste. Le sradicheremo oggi, immediatamente. Vogliamo vivere una vita naturale, una vita che traduca la nostra religione in tolleranza e buone tradizioni. Vivremo nel mondo, contribuendo allo sviluppo del mondo».

Se buona parte della popolazione sembra effettivamente accogliere con ottimismo ed entusiasmo le nuove, spesso anelate prospettive di riforma, grosse perplessità aleggiano su questo evidente strappo con il wahhabismo, l’alleanza che nessun regnante finora aveva osato mettere in discussione. Il momento storico tra l’altro è particolarmente delicato, perché dal 1953 il trono è stato tramandato orizzontalmente tra i figli mano a mano rimasti in vita del fondatore Abdulaziz, senza particolari controversie; invece, alla morte di Salman, attuale sovrano e ultimo dei fratelli reali, salirà al trono il primo re di terza generazione, MBS, e non è detto che la transizione sia altrettanto pacifica, considerato che Salman ha forzato drasticamente le cose nel designare unilateralmente suo figlio come principe ereditario, scavalcando e corrompendo candidati più idonei e legittimi.

Del resto l’intero piano esecutivo delle riforme programmate nell’ambito di Vision 2030 è basato sul calcare la mano e imporre iniziative dall’alto. I principi che storicamente si tramandavano le posizioni chiave nei vari ministeri sono stati rimossi di punto in bianco per far posto a tecnici formati all’estero. Nel 2017 in una teatrale operazione di lotta alla corruzione, 400 fra gli uomini più ricchi del paese sono stati irretiti all’hotel Ritz-Carlton di Riyadh, dove sono stati trattenuti, interrogati e torturati fino a confessare i propri illeciti e costretti a restituire il denaro indebitamente sottratto. E non si può non citare lo scandalo internazionale del giornalista Jamal Khashoggi, assassinato nel 2018 al consolato saudita di Istanbul presumibilmente su mandato di MBS.

Se si aggiunge l’aumento delle esecuzioni, degli arresti, delle intimidazioni e dei prigionieri di coscienza, siamo in presenza dei chiari sintomi di una svolta autoritaria, da parte di un sovrano che tenta di sopperire con la paura e la minaccia alla prospettiva di un vuoto di legittimità religiosa e politica. Persino le riforme più gradite possono in questo contesto avere lati oscuri, come nel caso emblematicamente contraddittorio dell’arresto e condanna di Loujain al-Hathloul, leader della campagna per il diritto delle donne a guidare, nello stesso periodo in cui questo diritto veniva garantito. Come a dire «il progresso è possibile – anzi avverrà che tu lo voglia o no – ma sempre e soltanto sotto forma di concessione da parte del sovrano assoluto».

Resta da vedere se questa visione si tradurrà davvero in maggiore prosperità e secolarizzazione, oppure se si stiano gettando le basi per il collasso del sistema e un futuro di caos e violenza. Nel frattempo le democrazie liberali si trovano ad affrontare il dilemma se sostenere MBS nel suo piano di trasformazione dell’Arabia Saudita, oppure sanzionarlo e ostracizzarlo per l’involuzione ulteriormente antidemocratica del suo governo e per i suoi deleteri fiaschi in politica internazionale, dal disastro umanitario che ha provocato in Yemen, allo spietato assedio del Qatar.

Paolo Ferrarini

Approfondimenti

  • Robert Lacey: Inside the Kingdom (2010)
  • Karen Elliot House: On Saudi Arabia (2012)
  • David Rundell: Vision or Mirage (2020)
  • Ben Hubbard: MBS – The Rise to Power of Mohammed Bin Salman
    (2020)

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7 commenti

Diocleziano

A parole è più progressista SBM che non il nostro MS, visionario fautore di presepi e sagre.

dissection

Un rischio concreto è che le riforme liberali imposte con la forza vengano viste più di cattivo occhio che non le regole tradizionali illiberali e estremiste.

Diocleziano

«…le riforme liberali imposte con la forza vengano viste più di cattivo occhio che non le regole tradizionali illiberali e estremiste….»

In un mondo dominato dalla irrazionalità della religione tutto ciò avrebbe una sua logica.
Specialmente se manovrato da qualcuno per fini politici. Più o meno come succede in Italia
per l’aborto, la famiglia, il fine vita ecc…

enrico

Il dio di Voltaire (deismo) ed il dio di Spinoza (panteismo) possiamo considerarli degli astrofisici indifferenti alle frenetiche beghe degli abitanti il pianeti terra. Loro si interessano dell’universo e noi possiamo anche ignorarli.
Ciò che invece ci opprime è il dio delle religioni.
Elaborato dagli stessi uomini per imporsi anche con regole assurde su altri uomini.
E’ quasi tragicomico ci siamo ancorati con le catene da noi stessi create che ci impediscono di crescere.

dissection

Emperor
Che è più o meno ancora i circa due terzi del mondo attuale, purtroppo. O no?

Commenti chiusi.