Celebrare il dissenso

Celebrating Dissent, conferenza organizzata da associazioni laico-umaniste ed ex musulmani a Colonia in Germania ad agosto, ha visto la presenza di intellettuali e attivisti per denunciare le persecuzioni nel mondo contro atei, agnostici e laici. Ecco il reportage di Paolo Ferrarini sul numero 5/22 di Nessun Dogma.

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“Ex-musulmano” dice più di “ateo”. Nonostante la problematicità dell’attribuirsi un’identità in negativo, di definirsi in contrapposizione a un’ideologia in cui non ci si riflette, molti non credenti fuoriusciti dall’islam ritengono opportuno ed essenziale utilizzare questa espressione perché i contesti familiari, sociali e culturali in cui viene operata questa scelta, nonché la natura estremamente normativa dell’islam stesso sulla vita delle persone, sono tali che vivere identitariamente una dimensione atea/umanista rappresenta di necessità un atto rivoluzionario, uno strappo che va al di là del semplice abbandono di una religione. Un atto, appunto, di dissenso.

Il termine fu adottato per la prima volta nel 2007 dall’attivista iraniana Mina Ahadi, in esilio a Colonia, in occasione del lancio di un movimento secolare a vocazione globale, il Consiglio centrale degli ex-musulmani, il cui scopo iniziale era quello di denunciare le violazioni dei diritti umani sotto i regimi fondamentalisti. L’esigenza pratica era quella di comunicare efficacemente ai media di chi si stesse parlando, in mancanza di parole più specifiche di “ateo” o “umanista”, in un ambiente dove autori dichiaratamente non credenti come Salman Rushdie o Ibn Warraq venivano citati dalla stampa come “intellettuali musulmani”.

Il successo dell’operazione andò oltre le aspettative, mettendo in luce che mancava non soltanto un termine, ma anche un concetto. A quel punto molti ex-musulmani cominciarono a metterci la faccia, non soltanto in un’ottica di militanza politica, ma anche per creare una rete di supporto intracomunitario, per darsi vicendevolmente aiuto nell’affrontare i dubbi e le difficoltà che affliggono nello specifico questa categoria di apostati. Il movimento decolla, poco tempo dopo, con la fondazione del Consiglio degli ex-musulmani d’Inghilterra (Cemb) da parte dell’attivista Maryam Namazie, la quale non esita a organizzare campagne altamente provocatorie di grande impatto comunicativo.

La più famosa è la marcia a seno scoperto al pride di Londra del 2017, dove i partecipanti fanno infuriare gli islamisti della città violando tutti i tabù con sprezzanti cartelli che dichiarano «Allah è gay!» Ma in quell’occasione non è solo la moschea di East London a infuriarsi: critiche e censure provengono anche dall’organizzazione del pride, dalla polizia metropolitana e dai politici di sinistra, uniti nell’accusare il gruppo di islamofobia.

Dal 2017, il Cemb organizza un grande congresso internazionale dove si riuniscono attivisti ex-musulmani di tutti i paesi del mondo: è un’occasione per conoscersi, confrontarsi, strategizzare, ma soprattutto celebrare il dissenso, nello spirito di orgoglio che caratterizza individui resistenti assediati da comunità invadenti. L’edizione 2022 di Celebrating Dissent si è tenuta a Colonia, dove tutto ha avuto inizio, nel weekend del 20-21 agosto, con interventi di una cinquantina di relatori, fra cui Pragna Patel, co-fondatrice delle Southall Black Sisters, Armin Navabi, fondatore di Atheist Republic, la regista Nadia el-Fani, l’autore americano Dan Barker, Lilith Raza, attivista pachistana transgender, Fauzia Ilyas, fondatrice della Atheist and Agnostic Alliance Pakistan, Rana Ahmad, rifugiata saudita e fondatrice di Atheist Refugee Relief.

Partecipando a una convention di ex-musulmani, ascoltando le vicende e le avversità che queste persone hanno dovuto affrontare a causa delle loro scelte di autodeterminazione, si ha la forte sensazione di trovarsi in presenza di veri eroi della libertà di espressione. Molti hanno dovuto abbandonare le proprie famiglie, i propri amici, la propria vita professionale, alcuni si sono autoesiliati per tentare la fortuna all’estero, altri sono dovuti fuggire per evitare di scontare pesanti condanne. E tra coloro che non possono partecipare ci sono attivisti finiti in carcere o agli arresti domiciliari come Raif Badawi in Arabia Saudita, o altri, come Avijit Roy, dal Bangladesh, che sono stati ammazzati brutalmente dai fondamentalisti. Non è un caso se a questi eventi vengano regolarmente a prestare omaggio anche personalità internazionali di alto profilo e campioni del libero pensiero come Richard Dawkins, o Anthony C. Grayling.

La libertà di espressione è naturalmente l’argomento più urgente in agenda, nonché il filo conduttore in tutte le tavole rotonde e discussioni nelle due giornate di eventi, che spaziano dall’autoaffermazione, alla libertà di critica della religione, ai diritti della donna e delle persone Lgbt+, alle basi della moralità umanista, alle arti. La prima e più importante battaglia è la lotta contro la blasfemia perché, pur essendo “un crimine senza vittime”, da Salman Rushdie in giù di vittime ne crea tantissime attraverso leggi profondamente persecutorie nei confronti di chi vuole dire quello che pensa. E quando c’è di mezzo l’islam, non si tratta soltanto dell’offesa esplicita alla religione: l’idea stessa di emancipazione, di libera scelta – ricorda Jimmy Bangash, attivista inglese di origini pachistane – è inerentemente blasfema, come è inerentemente blasfema l’esistenza stessa di persone Lgbt+.

Se nel mondo cristiano, e gradualmente anche in alcune comunità musulmane in Inghilterra, si è fatta strada l’idea che la persona vada rispettata a prescindere dall’orientamento sessuale, e che eventualmente sia l’atto da condannare (odia il peccato e non il peccatore), nelle famiglie musulmane di tutto il mondo una dichiarazione di omosessualità equivale a una dichiarazione di apostasia e le conseguenze possono essere drastiche, definitive e profondamente traumatiche. Esattamente come nel caso di chi fa coming out come non credente. È per questo motivo che Maryam Namazie insiste sulla necessità per gli ex-musulmani di manifestare, di rendersi visibili, anche soltanto allo scopo di affermare la propria esistenza e normalizzare la possibilità di parlare apertamente.

Vi è poi il problema della critica diretta alla religione, spesso bollata come islamofobia nell’attuale clima culturale. L’impressione generale è che, al di là del fatto che l’islam possa oggettivamente fare paura, sia come sistema sia per la giustificazione della violenza contenuta in molti versetti del Corano, “islamofobia” sia un termine politico creato ad arte per mettere a tacere il dissenso e ogni critica nei confronti della religione.

«Non si può essere fobici nei confronti di un’idea», dice Halima Salat dal Kenya. «Le idee vanno criticate sempre, finché non diventano accettabili. L’odio nei confronti dei musulmani, come persone – che si può etichettare come “bigottismo anti-musulmano” – è tutt’altra cosa, in quanto espressione di razzismo». Le due cose andrebbero tenute ben distinte, ma nel discorso pubblico sembra prevalere il paradigma della cosiddetta “fragilità islamica”, che impone un eccesso di cautela, un’attenzione a trattare la religione con i guanti, con gentilezza, evitando accuratamente di sfondare la porta con la blasfemia, nell’ottica che la priorità assoluta è quella di non offendere nessuno perché, come chiosa sarcasticamente Jimmy Bangash, «l’offesa è la cosa peggiore che possa capitarti.

Come farò mai a rialzarmi da terra, se qualcuno dovesse offendermi un martedì! Invece non esiste alcun diritto a essere protetti dall’offesa. Esiste il diritto di crescere e imparare a incassare con maturità le critiche. E non condivido neppure l’idea che nel criticare la religione il nostro obiettivo non possa essere quello di deconvertire gli interlocutori. Se tu credi che una donna possa essere picchiata dal marito su basi teologiche, o che una persona omosessuale vada perseguitata per il fatto di vivere liberamente la sua sessualità, sta’ pur certo che farò del mio meglio per persuaderti ad abbandonare queste credenze!»

Particolarmente deprimente è quando le accuse e gli appelli all’autocensura provengono dalle correnti politiche progressiste, abbagliate dal progetto multiculturalista che, per proteggere le comunità minoritarie, finisce per condannare le minoranze all’interno delle minoranze, sacrificando anche la laicità dello stato in nome di una fantomatica salvaguardia di culture e tradizioni. «Quando qualcuno a sinistra descrive la laicità come un’imposizione neocolonialista occidentale – lamenta Maryam Namazie – non so se ridere o se piangere. Perché nessuno comprende la necessità di separare la religione dallo stato meglio di chi vive sotto la repressione dei regimi teocratici».

Si discute molto anche sui limiti della libertà di parola, vitale come l’ossigeno per la comunità, ma arma a doppio taglio nel momento in cui può essere usata dagli avversari per diffondere argomenti pericolosi. Sami Abdallah, presidente dell’associazione libanese Freethought e co-organizzatore del convegno, fa notare che Facebook si sta muovendo nella direzione di equiparare la critica all’islam all’incitamento all’odio, rimuovendo post in cui ad esempio l’islam è definito religione del terrorismo.

Twitter dal canto suo ha rimosso, in quanto incitamento all’odio, il Corano delle donne, una provocazione artistica che conteneva il seguente versetto tratto da una fittizia Sura dell’asino: «Oh, uomini, se i capelli delle donne vi disturbano, un paraocchi come quello dell’asino è stato creato appositamente per voi». Bisogna quindi stare molto attenti a chiedere di mettere paletti per evitare l’incitamento all’odio e alla violenza, perché sono strumenti che poi vengono usati per rafforzare la repressione.

Susanna McIntyre, presidente di Atheist Republic, sottolinea a tal proposito che atei come Mubarak Bala vengono ingiustamente condannati con la scusa delle violenze che altri possono, in potenza, commettere in reazione ai loro post. È fondamentale allora aver chiaro il principio che «la parola è parola, la violenza è violenza» e che, come specifica Pragna Patel, nello stabilire eventuali limiti alla libertà di espressione si tenga conto soprattutto dei rapporti di potere, delle risorse a disposizione non solo per denunciare ma per imporre questi limiti, che non possono essere politici o arbitrari. L’esempio più calzante è proprio quello dei Versetti satanici di Salman Rushdie.

All’uscita del romanzo, nessuno si era minimamente scandalizzato: è stato solo quando i mullah iraniani hanno fiutato l’occasione di politicizzare la cosa per dare al mondo un assaggio del potere dell’ayatollah, che i musulmani hanno improvvisamente “scoperto” la blasfemia dell’opera.

Proprio a Salman Rushdie, aggredito a sorpresa nello stato di New York da un integralista nei giorni immediatamente precedenti al congresso, è stata dedicata una vivace marcia per le vie della città, per manifestare il supporto della comunità e ribadire la condanna nei confronti di un regime che semina morte e viola i più basilari diritti umani.

Un’altra iniziativa di solidarietà è stata fatta per Raif Badawi, scarcerato dopo una lunghissima detenzione ma tuttora impossibilitato a lasciare l’Arabia Saudita per ricongiungersi alla famiglia. Anche l’Uaar, presente con Nessun Dogma, ha potuto lasciare un messaggio al cospetto della moglie Ensaf Haidar, visibilmente commossa.

In chiusura, è stata adottata una risoluzione per l’abrogazione dell’articolo 166 del codice penale tedesco in materia di blasfemia, e una per l’istituzione di una “giornata della laicità”, il 10 dicembre, in coincidenza con la giornata mondiale dei diritti umani.

Paolo Ferrarini

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