Tra pochi giorni negli Usa si vota per le elezioni di midterm. Gli Stati Uniti sono sempre più divisi: i democratici raccolgono consensi soprattutto nelle grandi città, tra le classi medio-alte e le minoranze, mentre i repubblicani sono più radicati nelle aree rurali e in forte crescita nella classe operaia impoverita. In queste spaccature la religione gioca un ruolo molto importante. Il direttore della rivista Raffaele Carcano affronta il tema sul numero 5/22 di Nessun Dogma.
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Si dice spesso che non esistono più differenze tra destra e sinistra. Non è esattamente vero, anzi: in tutto il mondo democratico, la polarizzazione è ancora oggi fortissima. Ma una novità c’è: una volta la spaccatura era incentrata su modelli economici molto diversi. Oggi è invece particolarmente sentita sui temi sociali ed etici. Ed è quindi un fenomeno che ci riguarda direttamente.
Anche perché non si presenta con modalità esattamente binarie: se da una parte si brandiscono come una clava il diritto alla sicurezza e l’identità religiosa, dall’altra si enfatizza la giustizia sociale, ma non sempre si agisce laicamente. Né il confronto è limitato alle ali estreme: in mezzo ci sono anche figure politiche, come il presidente francese Macron e il premier israeliano Lapid, che potremmo definire di estremismo centrista con forti accenti laici (e talvolta antislamici).
Eppure, persino Putin e Zelensky hanno entrambi voluto caratterizzarsi basandosi su questi temi: il primo ha giustificato la sua guerra in nome dei valori cristiani tradizionali, attaccando frontalmente i non credenti; il secondo ha aperto al riconoscimento dei matrimoni gay – che oggi è la rivendicazione preferenziale di ogni politico occidentale che voglia mostrarsi moderno (con somma sorpresa di chi ricorda come stavano le cose soltanto 25 anni fa).
C’è in particolare un paese che sta conoscendo una polarizzazione senza precedenti, ed è il paese più importante al mondo. Oggi negli Stati Uniti si parla infatti di destra e sinistra come mai si era fatto prima. Fino agli anni cinquanta era difficile individuare precisamente le differenze tra le piattaforme dei due principali partiti, perlomeno secondo i canoni utilizzati nel resto del globo. Democratici e repubblicani rappresentavano due modi diversi di essere centristi: più populisti i primi, più legati al grande capitale i secondi. Nel sud del paese i primi erano segregazionisti, mentre gli afroamericani si schieravano soprattutto dalla parte dei secondi: il cui primo presidente fu Lincoln, il più importante artefice dell’abolizione della schiavitù.
La svolta, in parte annunciata dal new deal di Roosevelt, fu costituita dalla stagione dei diritti civili all’inizio degli anni sessanta: i democratici, allora al potere, finirono per inimicarsi tutti coloro che erano contrari alla piena uguaglianza con le persone di colore. I repubblicani si mossero verso destra (fin dalla candidatura di Goldwater nel 1964) e i democratici verso sinistra (con quella di McGovern nel 1972). L’esito negativo di entrambi sembrò sancire la tenuta dell’assetto storico: ma poi la vittoria di Reagan, nel 1980, fu interpretata ovunque come un’estremizzazione del suo partito.
E da allora la distanza non ha fatto che aumentare. La mutazione genetica dell’elettorato che trova riscontro anche altrove, Italia compresa, negli Usa è ancor più accentuata. I democratici sono più urbani e raccolgono consensi nella classe medio-alta e tra le minoranze, e sono quindi molto sensibili anche alle rivendicazioni woke.
Per contro, i repubblicani sono più rurali, e in forte crescita nella classe operaia impoverita; dato decisivo, sono anche decisamente più “bianchi” e molto più legati a tutto ciò che ha tradizionalmente fondato l’identità yankee (ideologie razziste comprese), e da qualche anno praticano pure una sorta di culto del leader. Lo scontro trova ulteriore combustibile nei differenti mass media cui si rivolgono i rispettivi elettori, al punto che i repubblicani che guardano Fox News ritengono il Partito democratico molto più liberal rispetto ai repubblicani che non la guardano. Senza dimenticare la convinzione ormai universale che sia soltanto “l’altro” a essersi estremizzato.
È una divaricazione che va ormai ben oltre lo scontro politico: siamo in presenza di due mondi che stanno diventando alieni l’un l’altro, come conferma la caduta verticale del numero di matrimoni tra persone che votano diversamente. Le posizioni sono sempre più lontane non solo su temi “vecchi” quali il controllo delle armi, il welfare state e le tasse, ma si collocano automaticamente agli antipodi anche su quelli “nuovi” come il cambiamento climatico, la lotta al covid, l’emergenza energetica.
La fiducia nella scienza, un tempo prevalente tra i repubblicani, è ora nettamente più diffusa tra i democratici. Non si sceglie più il partito che rappresenta meglio le proprie posizioni, ma si sostiene senza se e senza ma qualunque posizione assunta dal partito cui si è preventivamente deciso di appartenere. Non si cerca di far cambiare idea all’avversario, ma si punta a mobilitare al massimo chi già la pensa nello stesso modo. Ed è un pensiero contro, più che a favore: si vota repubblicano per rimarcare che non si è democratici, e ovviamente viceversa.
In questa guerriglia quotidiana, naturalmente, la religione gioca un ruolo molto importante. La vittoria di Reagan coincise anche con l’attivismo della Moral Majority, la prima organizzazione rilevante della destra cristiana, con l’inizio di due spostamenti di massa sul Partito repubblicano: quello dei cattolici tradizionalisti e soprattutto, quello degli evangelicals, i fondamentalisti protestanti. È però molto interessante analizzare le priorità odierne di questi ultimi.
A differenza di quello che potremmo pensare, l’aborto non vi rientra. Non è un’enorme sorpresa, se si pensa che un fanatico su dieci non si presenta mai in chiesa (e questa è un’importante novità del panorama religioso contemporaneo). Ai primi posti dei loro interessi ci sono, non sorprendentemente, la richiesta di sicurezza e il contrasto dell’immigrazione e della corruzione (intesa soprattutto come “fargliela pagare a quei dannati burocrati di Washington”).
La sostanziale sovrapposizione con il più ampio campione di elettori repubblicani ha portato gli analisti a considerarla l’evidenza di un ulteriore cambiamento: oggi non è più l’evangelical a votare repubblicano, ma è il repubblicano che si sente spinto a essere cristiano, e soprattutto evangelical, perché è la collocazione religiosa più naturale all’interno del partito.
Le novità non finiscono tuttavia qui. Fino a due decenni fa proliferavano i libri che sostenevano che l’Europa secolarizzata rappresentava un’eccezione alla regola, perché gli Stati Uniti erano religiosi quanto il resto del mondo. Con un’ascesa clamorosa, i cosiddetti nones (i non appartenenti ad alcuna religione, non necessariamente atei o agnostici) sono invece raddoppiati nell’ultima decade, e costituiscono adesso circa il 30% della popolazione, con punte ancora più alte tra le fasce d’età più giovani. Gli estremisti e i cattolici sono rimasti stabili, mentre un fortissimo declino ha colpito le confessioni cristiane storiche: il centrismo Usa sembra entrato in una crisi apparentemente irreversibile anche dal punto di vista della fede.
Ma non ha purtroppo ricadute apprezzabili sul panorama politico: un solo parlamentare non è affiliato ad alcuna religione. I democratici non sono laici come li intendiamo noi: nel solco della tradizione Usa, si limitano a non far prevalere una visione spirituale sulle altre ed enfatizzano il valore della libertà religiosa, anche se assumono posizioni laiche su aborto e diritti Lgbt+.
Non sembrano quindi molto interessati a candidare non credenti, che risultano molto più liberal della media. È semmai il confessionalismo hard dei repubblicani a costituire una novità. Ed è talmente marcato da essere a sua volta considerato un propellente dell’ascesa dei nones: tanti fedeli (non estremisti) abbandonano infatti la propria confessione religiosa perché disgustati dall’enorme peso politico ricoperto dai nazionalisti cristiani.
Due delle storiche caratteristiche degli Stati Uniti, la mancanza delle ali politiche estreme e l’altissima religiosità, sono dunque venute contemporaneamente meno. Un’altra particolarità, al contrario, sembra protrarsi senza alcuna soluzione di continuità: la divisione tra un nord del paese relativamente profano e un sud decisamente più religioso – soprattutto nella cosiddetta Bible Belt, la “cintura della Bibbia”.
Se si guarda la mappa 1, il contrasto è innegabile. Ciò che è notevole è che questa mappa può largamente sovrapporsi sia a quella politica (mappa 2: le zone blu sono democratiche, quelle rosse repubblicane), sia soprattutto a quella (3) degli eserciti unionisti e confederati che si sono affrontati durante la guerra di secessione (1861-1865).
Sono due Americhe che si contrappongono praticamente da sempre, ma che in un’epoca di polarizzazione riescono se possibile a contrapporsi ancora di più. Le aree blu ormai sono più somiglianti al limitrofo Canada che a quelle rosse, mentre quelle rosse stanno diventando persino più clericali di quasi tutte le nazioni latinoamericane. E in una società in cui il trasloco da un capo all’altro del paese è considerato un evento normale, diventa ancora più attraente spostarsi dove si condividono le opinioni della maggioranza.
A riprova, le elezioni presidenziali si decidono soltanto in una decina di stati, i cosiddetti swinging states, i soli in cui l’esito non è scontato e i soli, quindi, in cui i candidati ritengono che valga la pena fare campagna. L’espressione «Stati DisUniti d’America» è così diffusa da essere persino abusata, ma rende bene il concetto: anche gli Emirati Arabi sono ormai più coesi di questo antico bastione della democrazia.
Una recente sentenza della Corte suprema ha mostrato platealmente quanto le due Americhe sembrino ormai inconciliabili. I giudici (in maggioranza cattolici di nomina repubblicana) hanno demandato ai singoli stati dell’Unione la giurisdizione sull’aborto. Quelli rossi si sono affrettati a confermare o a introdurre normative che lo vietano pressoché in ogni caso; quelli blu si sono attivati per creare strutture di accoglienza per le donne degli stati rossi che cominciano un penoso viaggio della speranza.
A scombinare un quadro così lineare è però giunto il risultato del referendum tenutosi in Kansas lo scorso 2 agosto. Si votava un emendamento proposto da gruppi integralisti protestanti e il cui principale sponsor economico era la chiesa cattolica: se approvato, avrebbe tolto la protezione costituzionale al diritto all’aborto. Il Kansas è uno stato che rientra in larga parte nella Bible Belt e che dal 1968 vota ininterrottamente il candidato repubblicano alle presidenziali. C’erano tutte le premesse perché la proposta venisse accolta. Oltre il 59% dei votanti si è invece espresso contro, anche grazie a una sorprendente partecipazione di massa.
Una conferma che l’aborto non è in testa alle preoccupazioni dei credenti più zelanti, e che vi sono ampie sacche di repubblicani e indipendenti che chiedono che continui a restare legittimo. Succede del resto pure altrove: referendum per il diritto all’aborto sono stati vinti anche in Italia (1981), Irlanda (2018) e San Marino (2021). Gli stessi sondaggi nazionali Usa rivelano che la maggioranza della popolazione è a favore dei diritti riproduttivi: il consenso popolare è dunque dappertutto così esteso che ci si stupisce che vi sia ancora chi voglia andare alla conta.
Molto più efficace è infatti la strategia degli antiabortisti di far eleggere maggioranze che la pensano come loro e che possono agire senza tenere conto del parere dei cittadini. Diversi dei quali, pur essendo a favore della libertà di scelta, non sono disposti a spostare il voto su candidati abortisti – e questo è un aspetto su cui gli attivisti laici dovrebbero lavorare in profondità. Non stupisce, dunque, che la mappa degli stati antiabortisti (4) riproduca a sua volta abbastanza fedelmente le caratteristiche delle precedenti.
Nulla è inciso definitivamente nella roccia, è ovvio. Ma le vicende degli stati Usa sembrano una granitica conferma della teoria politologica della path dependence, secondo cui in ogni realtà istituzionale si riscontra un’inerziale continuità con le decisioni e le agende di governo del passato, anche quando cambiano gli amministratori e anche quando si verificano eventi che costituiscono una netta rottura con la propria storia, come l’assalto a Capitol Hill.
E questo aiuta a comprendere perché è difficile avere istituzioni completamente laiche, anche quando gli eletti sostengono alcune istanze. La laicità a 360 gradi è un approccio raro, in politica: secolarizzazione e laicità non vanno esattamente a braccetto. Anzi, spesso si muovono in direzioni opposte. Come l’America rossa e quella blu.
Raffaele Carcano
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Luca Ricolfi,noto sociologo autore tra l’altro della “Societa signorile di massa”,ha pubblicato da poco un interessante saggio,”La Mutazione”,dove affronta proprio
l'”Inversione” di seguaci subita da destre e sinistre nel mondo e in Italia in particolare
https://www.lafeltrinelli.it/mutazione-come-idee-di-sinistra-libro-luca-ricolfi/e/9788817176927
Devo ancora leggerlo,ma personalmente credo che siamo di fronte all’ennesima
“ripetizione” della storia : la forza delle destre nasce soprattutto dallo scontento provocato dalle sinistre in quello che era il loro elettorato con tutta una serie di errori provocati da incapacita di valutare la realta con realismo e lasciarsi ubriacare
dalla demagogia del “politicamente corretto”.
Esattamente come un secolo fa la sinistra massimalista agitando lo “spettro” di una rivoluzione impossibile che pretendeva di emulare quella russa in un contesto
totalmente inadatto spiano’ la strada al fascismo.
Le classi meno abbienti si sentono tradite vedendosi trascurare a vantaggio dei
cosiddetti “immigrati” o di minoranze come gli LGBT,mentre quelle abbienti,manco dirlo,insistono sul “progressismo snob radical chic”,vale a dire
“impegno sociale a buon prezzo”.
Storia vecchia insomma,ma come detto,la storia si ripete sempre.
Adeso che abbiamo qualche idea sui risultati, potremmo fare qualche commento sulla situation della parte che comanda sull’impero di cui facciamo parte.