Chiamatela col suo nome: una rivoluzione!

In Iran la popolazione è scesa in piazza per protestare contro un assassinio compiuto dalla polizia religiosa e contro un’imposizione in nome della religione islamica: il velo obbligatorio per tutte le donne. Tante persone rischiano la vita per un’istanza laica (anche se, naturalmente, non soltanto per quella). Il regista e attivista Amin Kamrani ripercorre la storia delle rivolte iraniane fino ad oggi sul numero 6/2022 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.


Breve storia del dissenso in Iran

«Questa volta è diverso!» è una frase che molti iraniani dentro e fuori dal paese ripetono in continuazione da quando sono iniziate le proteste per la morte di Mahsa (Jina) Amini, presa in custodia dalla cosiddetta polizia morale per non aver indossato “correttamente” il suo hijab.

Chi ha seguito le notizie iraniane negli ultimi due decenni sa benissimo che non è la prima volta che gli iraniani scendono in strada a protestare. Allora perché nell’autunno del 2022 tutti ripetono così insistentemente «Questa volta è diverso», quasi fosse una rivelazione?

La verità sta nei simboli

Molti iraniani hanno un nome diverso da quello riportato sulla carta d’identità. Ciò è dovuto al fatto che la scelta dei nomi da dare ai figli è limitata a una lista approvata dal governo. È particolarmente vero per molti bimbi curdi, cui alla nascita vengono dati due nomi: il primo, tipicamente persiano (o arabo, se religioso), è quello che lo stato consente di usare sulle carte d’identità, l’altro è il nome curdo, usato dalla famiglia e dagli amici. Ci sono bambini che arrivano a scuola per la prima volta senza sapere quale sia il loro nome “approvato”.

Ma il nome non è l’unica cosa che cambia, passando dall’ambiente domestico a quello scolastico. In Iran, le scuole sono autorizzate a fare lezione soltanto in persiano, anche nel caso tutti gli studenti abbiano una lingua madre diversa. Vari attivisti sono stati incarcerati in Iran per aver sostenuto il diritto dei bambini a essere istruiti nella loro lingua madre.

Anche la ragazza la cui morte ha ispirato la recente rivolta – quella che gli iraniani ritengono “diversa, questa volta” – portava due nomi: Mahsa, un comune nome femminile persiano, era quello riportato sulla sua carta d’identità, mentre Jina, che significa “vita” in curdo, era il suo “vero” nome, quello che usava anche per i social media. Il giorno in cui è stata sepolta nella città curda di Saqqez, i suoi compaesani si sono riuniti al cimitero per renderle omaggio e protestare contro il suo omicidio. Accanto alla tomba, qualcuno ha scritto su una pietra, in curdo: «Cara Jina, tu non morirai mai. Il tuo nome diventerà il nostro simbolo». Quel giorno, i manifestanti e le persone in lutto per Jina hanno gridato lo slogan «donna, vita, libertà» in curdo, e da lì è partita la “rivoluzione di Jina”.

In una cultura che dà molto peso alla simbologia, la storia della morte di Jina è diventata un’allegoria di come la “vita” (Jina) sia stata assassinata dal fascismo religioso. Ma c’è molto di più: trattandosi di una cittadina curda uccisa dalla polizia nella capitale Teheran, ha ricordato a tutte le minoranze etniche del paese quanto esse siano considerate inutili agli occhi delle autorità. Trattandosi di una donna, ha ricordato a tutte le donne che il patriarcato uccide. Trattandosi di una ragazza di 22 anni, ha ricordato a tutti i giovani quanto il paese sia insicuro, instabile e invivibile per loro. Il suo omicidio ha ricordato anche a tutti i genitori in che tipo di paese stanno crescendo i loro figli… E ci sono molti altri aspetti per cui ci si può identificare in quella storia.

Non si è arrivati a questo punto da un giorno all’altro

Il popolo iraniano è stremato. Ormai non desidera altro che la caduta del regime clerico-fascista. Ma si tratta soltanto della reazione a un omicidio ingiusto, o alla brutalità della polizia? Come si è arrivati al punto di scatenare proteste che dopo 60 giorni ancora non accennano a smorzarsi o a essere contenute? Per capirlo, è essenziale ripercorrere brevemente il viaggio della società iraniana degli ultimi decenni.

La rivoluzione del 1979, che ha rovesciato il sistema monarchico, era portatrice di molte speranze e promesse, come la libertà di espressione, la prosperità economica, i diritti dei lavoratori, l’indipendenza, eccetera. La lotta contro l’ultimo sovrano dell’Iran era stata portata avanti per anni sia da marxisti, laici, poeti, scrittori, artisti e intellettuali di sinistra, sia da cosiddetti intellettuali religiosi e sciiti conservatori.

Il carismatico ayatollah Khomeini aveva promesso che «anche i marxisti (che non credono in Dio) avrebbero avuto il diritto di esprimere la loro opinione», convincendo molte persone a seguire la sua leadership. Criticando il sovrano per aver imprigionato e oppresso i dissidenti, aveva rafforzato ulteriormente il desiderio di “libertà” del popolo.

Tuttavia, immediatamente dopo il successo della rivoluzione, il paese piomba nel caos. Dopo la partenza del re, vari partiti si candidano a governare l’Iran. Prevalgono i fondamentalisti sciiti, che conquistano il potere obliterando anche i rivali politici che avevano combattuto al loro fianco contro il regime precedente. Subito dopo la proclamazione della nuovissima “Repubblica islamica”, il presidente iracheno, preoccupato per la rivoluzione sciita, decide di invadere il vicino, provocando una guerra destinata a diventare la più lunga del ventesimo secolo: otto anni di scontri senza alcun risultato per nessuna delle parti, se non la morte di centinaia di migliaia di civili.

La guerra si somma ai disordini politici nel paese. Gli estremisti, più vicini a Khomeini, approfittano dell’instabilità per giustificare l’incarcerazione di decine di migliaia di dissidenti. Tra gli eventi più sanguinari della storia moderna dell’Iran ci sono le famigerate esecuzioni di massa dei prigionieri politici del 1988. Secondo Human Rights Watch, nel 1988 le autorità iraniane, agendo su ordine del leader supremo l’ayatollah Khomeini, giustiziano sommariamente ed extragiudizialmente migliaia di prigionieri politici.

Il numero di esecuzioni non è noto in modo definitivo, ma si stimano dalle 2.800 alle 5.000 vittime in almeno 32 città del paese. L’orrore è tale che persino il successore ufficialmente designato di Khomeini, l’ayatollah Montazeri, arriva a criticare apertamente le esecuzioni. Anni fa è trapelato un file audio relativo a un incontro privato tra Montazeri e i giudici che stavano condannando a morte i prigionieri, in cui Montazeri afferma: «Ciò che state facendo sarà considerato uno dei peggiori crimini della storia e i vostri nomi, insieme a quello dell’imam Khomeini saranno ricordati come i nomi di quei criminali».

Purtroppo Montazeri non solo non riesce a fermare questi giudici, soprannominati “il comitato della morte”, ma egli stesso viene a quel punto preso di mira per le sue critiche. L’uomo la cui foto era appesa accanto a quella di Khomeini negli uffici amministrativi viene improvvisamente definito persona “fuorviata”, perdendo la nomina a successore della Guida suprema.

La morte di Khomeini, pochi mesi dopo la fine della guerra con l’Iraq, segna l’inizio di una nuova era. L’era post-bellica e post-Khomeini vede alla guida un politico di basso profilo, Ali Khamenei, la cui legittimità alla successione di Khomeini viene messa seriamente in discussione. In una sessione dell’“assemblea degli esperti” composta da chierici d’élite incaricati di scegliere il nuovo leader supremo, lo stesso Khamenei aveva asserito: «Bisogna compatire una nazione che arriva a considerare uno come me il suo leader».

Ben presto, tuttavia, è chiaro che questa dichiarazione di esagerata umiltà da parte del successore di Khomeini non è altro che un ingannevole siparietto da parte di un aspirante dittatore. Appena assunto il ruolo di leader, Khamenei dà una dimostrazione di potere, mettendo l’ayatollah Montazeri agli arresti domiciliari.

Qualche anno dopo, alcuni politici che, pur fedeli al sistema, si dichiarano “riformisti” partecipano alle elezioni presidenziali del 1997, con Mohammad Khatami come candidato. Khatami promette libertà e una nuova direzione, e vince le prime libere elezioni in Iran dopo la rivoluzione, diventando presidente per due mandati.

Se effettivamente nei suoi otto anni di governo si è assistito a un certo “allentamento” delle regole più rigide, gli iraniani che speravano in maggiore progresso e modernità non sono soddisfatti delle sue cosiddette riforme. Lo stesso Khamenei interviene per ricordare al popolo che, in quanto leader supremo, è sempre lui a detenere il vero potere, e che il presidente non può fare più di tanto.

Nel 2005, i riformisti non riescono a riconquistare la fiducia degli elettori e la vittoria va a Mahmoud Ahmadinejad, un estremista populista più gradito a Khamenei. Il primo mandato di Ahmadinejad è talmente disastroso che i riformisti intravedono l’opportunità di riconquistare la presidenza. Il nuovo candidato, Mir-Hossein Mousavi, che era stato primo ministro durante la guerra con l’Iraq, si candida come moderato di sinistra contro Ahmadinejad alle elezioni del 2009.

Il giorno delle elezioni diventa un punto di svolta nella storia moderna dell’Iran, quando il ministro degli interni dichiara Ahmadinejad vincitore di un’elezione che milioni di iraniani considerano truccata. Le proteste si scatenano il giorno successivo, in reazione allo shock per l’annuncio del risultato. Milioni di persone scendono in strada gridando «Dov’è finito il mio voto?» e altri slogan contro Ahmadinejad. I primi due giorni sono relativamente pacifici, ma quando alla fine Khamenei ordina alle autorità di fermare i “rivoltosi”, parte una violenta repressione.

Migliaia di cittadini vengono arrestati, decine di manifestanti vengono uccisi, molti sono costretti a fuggire dal paese, e Mir-Hossein Mousavi, diventato la principale figura dell’opposizione, finisce agli arresti domiciliari, dove rimane tutt’ora nell’attesa di un processo che dopo oltre un decennio non si è ancora celebrato.

Al termine del secondo mandato di Ahmadinejad, la qualità della vita per la maggior parte degli iraniani è drammaticamente peggiorata, e il paese affronta le peggiori sanzioni economiche a causa del programma nucleare. Con la promessa di “trattare” con l’occidente e risolvere il problema del nucleare, Hassan Rohani, vicino ai riformisti, convince la maggioranza degli elettori a eleggerlo presidente.

Dopo anni di negoziati, raggiunge un accordo sul programma nucleare, e grazie alla revoca di alcune sanzioni, gli iraniani che speravano fortemente in un qualsiasi risultato positivo lo rieleggono per un secondo mandato. Purtroppo le promesse di maggiore libertà e migliori condizioni economiche non si materializzano e, a cavallo tra il 2017 e il 2018, la delusione porta le persone a riversarsi nuovamente nelle strade di diverse città, per la prima volta dopo l’ondata di proteste pubbliche del movimento verde del 2009.

Ancora una volta il regime reprime, con la violenza, dei manifestanti semplicemente affamati ed esausti per la situazione, e alla fine riesce a fermarli. Meno di due anni dopo, col prezzo della benzina triplicato nel novembre 2019, migliaia di persone tornano in strada a sfogare la propria rabbia. Il regime chiude internet per settimane mentre trucida almeno 1500 manifestanti, tra cui decine di bambini.

L’orrore e la crudeltà del novembre di sangue è così grave e scioccante che diventa impossibile per il regime farlo dimenticare al popolo. In un video diventato virale, il padre di Pezhman Gholipour, un ventiduenne ucciso nella sua città natale di Langarud nel novembre 2019, rivolgendosi direttamente alla telecamera dice: «Lo sapete benissimo che siete finiti, dopo questo novembre! E questo novembre continuerà».

Dal novembre di sangue alla rivoluzione di Jina

Dal novembre 2019 al settembre 2022, le acque non sono rimaste calme, in Iran. In questi tre anni il paese affronta la crisi del Covid. In un suo discorso, Khamenei attribuisce la diffusione del virus a una cospirazione contro il popolo iraniano e proibisce esplicitamente al governo di acquistare vaccini americani e inglesi in quanto questi due paesi non sono degni di fiducia.

La politicizzazione della pandemia costa la vita a centinaia di migliaia di iraniani che non hanno avuto accesso ai vaccini in tempo. In aggiunta alla crisi del Covid, la situazione economica continua a deteriorarsi, e di conseguenza nel paese si assiste a molte insurrezioni da parte di lavoratori, insegnanti e vari sindacati. In questo periodo si tengono anche due elezioni per il parlamento e per la presidenza, e in entrambi i casi l’affluenza degli elettori è significativamente inferiore alla media storica dell’Iran, dal momento che la gente ha evidentemente perso ogni speranza di miglioramento all’interno del sistema.

Per 43 anni, gli iraniani si sono sforzati di trovare un compromesso con il regime. Hanno cercato di esternare le loro richieste, legate semplicemente al desiderio di fare una vita normale. Ogni volta che ci hanno provato, il governo ha risposto con la violenza. Ora, la morte di Jina e le diffuse proteste scatenate dal suo funerale hanno ispirato gli iraniani a immaginare finalmente un mondo senza il regime della “Repubblica islamica”.

Dalle coraggiose studentesse che si tolgono il velo e inneggiano alla morte del dittatore, alle minoranze etniche, ai lavoratori, persone giovani e anziane, iraniani dentro e fuori dal paese, dottori, persone di città e di campagna, religiose e non religiose, chiunque è convinto che questa volta sia finita per il clerico-fascismo. E se è difficile prevedere l’esito degli eventi in corso, un fatto è certo, che “questa volta è diverso”, e che la fine della “Repubblica islamica” è inevitabile.


Amin Kamrani

 


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6 commenti

laverdure

“Molti iraniani hanno un nome diverso da quello riportato sulla carta d’identità. Ciò è dovuto al fatto che la scelta dei nomi da dare ai figli è limitata a una lista approvata dal governo”.
Per associazione di idee ricorda una antica tradizione ebraica,quella di tenere segreto il vero nome di un bambino malaticcio (un tempo,come dovunque del resto,la mortallta infantile era paurosa)assegnandone uno “ufficiale” di comodo,in modo che l’angelo della morte non potesse trovarlo.
in Iran di “angeli della morte” reali ne girano parecchi.

RobertoV

In Iran non c’è una guerra, ma di ragioni per andarsene da quel paese dopo 43 anni di dittatura clerico-fascista ce ne sono parecchie.
Dubito che le proteste attuali possano da sole rovesciare il regime anche se visti i risultati passati sull’esportazione della democrazia non è detto che un intervento esterno possa migliorare la situazione. Però, mi sembra che le pressioni internazionali a favore delle proteste siano un po’ troppo scarse e tiepide.
L’Iran è la dimostrazione che combattere una dittatura, come era quella dello scià, non necessariamente porta a miglioramenti, cosa vista anche con le primavere arabe che hanno visto successivamente prendere il potere forze peggiori delle precedenti. E dimostrano gli effetti del più spazio alle religioni che ancora oggi sono un ottimo instrumentum regni. Ma ovviamente ci sarà chi sosterrà che le religioni non c’entrano niente, sono strumenti di pace come la chiesa ortodossa di Kyrill.

laverdure

“L’Iran è la dimostrazione che combattere una dittatura, come era quella dello scià, non necessariamente porta a miglioramenti…”
E’anche la dimostrazione che le dittature prive in pratica di ideologie sono le meno pericolose,in genere sono destinate a crollare con la morte del personaggio,vedi ad es la Spagna di Franco.
Per quanto gravi fossero le colpe dello Scia,trovatemene una sola che il regime successivo non praticasse in forma peggiore,mentre non vale certo l’inverso :
al vecchio regime non importava niente del vestiario e della condotta sessuale della popolazione,per esempio.
E sebbene si fosse creato forze armate formidabili con materiale e addestramento
occidentali,non aveva certo mostrato mire espansionistiche paragonabili a quelle di oggi.

Gérard

Le donne iraniane hanno mostrato al mondo intero il loro coraggio e la loro tenacia. Mostrandosi a capo scoperto e bruciando i propri veli per bruciare simbolicamente questo strumento discriminatorio, stanno dando una lezione di femminismo a tutte le fautrici della falsa “libera scelta” di un’ingiunzione sessista d’altri tempi.

RobertoV

Se si pensa che deve esserci una polizia religiosa per controllare l’applicazione dei precetti e che la ragazza è stata uccisa per non averlo applicato correttamente, ci vuole un bel coraggio a sostenerne la libera scelta. Chissà quante anche nei nostri paesi occidentali lo portano solo per quieto vivere o perchè condizionate dal non conoscere un’altra realtà.
Onore a quelle donne che hanno il coraggio di protestare in una situazione così pericolosa per la loro vita ed anche a quegli uomini che le appoggiano. Sconcerta che un’ingiunzione sessista di altri tempi possa essere causa di morte, ma per un regime la libertà individuale è pericolosa, ancora di più se riguarda le donne.

Mixtec

Oggi è stato comunicato che un blasfemo poco più che ventenne è stato fucilato.

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