Stranger Things e il “satanic panic”

Stranger Things, la serie sci-fi ambientata negli anni ’80, mette bene in luce una tendenza sociale dell’epoca (ma anche di oggi): la paranoia integralista per il presunto “satanismo” in fenomeni come il gioco di ruolo Dungeons & Dragon e la musica metal. Ne ha parlato Micaela Grosso sul numero 5/2022 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.


L’ultima stagione di Stranger Things, il prodotto Netflix più atteso dell’anno, è stata resa disponibile in Italia lo scorso luglio. Come sa (non solo) chi la segue dal 2016, anno della sua uscita, si tratta di una serie sci-fi/fantasy acclamata dalla critica e celebrata dai fan. Nonostante la sua dichiarata vocazione “teen”, la serie ha avuto grande successo anche presso il pubblico adulto e si è aggiudicata 5 candidature ai Golden Globe nonché 41 candidature agli Emmy.

Di S.T. sono molto noti il costante omaggio agli anni ’80, decennio di ambientazione delle vicende, e l’atmosfera nostalgica permeante la sceneggiatura, che contiene svariati riferimenti culturali al periodo. Sin dal tratteggiamento dei personaggi, che lavorano in negozi di noleggio Vhs, frequentano piste di pattinaggio, giocano a videogiochi “leggendari” e amano film e artisti musicali iconici degli Eighties, è comprensibile come gli ideatori della serie abbiano voluto riprodurre con dovizia di particolari il contesto storico e socioculturale.

La colonna sonora stessa fa abbondante uso di sintetizzatori e la sigla si ispira graficamente ai lavori di Richard Greenberg e alle copertine dei bestseller di Stephen King. Una curiosità di cui forse non tutti sono a conoscenza è che l’attore che interpreta Bob Newby è lo stesso che, nel 1985, ha interpretato Mikey Walsh – nientemeno che il protagonista del blockbuster I Goonies.

Allo stesso obiettivo si è diretto chiaramente anche il reparto costumi, che ha vestito gli attori e le attrici con felpe, sneakers, pantaloni da ciclisti, t-shirt larghe, giubbotti smanicati, jeans a vita alta e i brand tanto in voga quaranta (ahimè, lo sono!) anni fa, acconciandoli con cotonature vaporose, vari ciuffi ed eventuali codini.

La risposta del pubblico è stata calorosa e la risonanza tale da orientare anche i gusti dell’impermeabile generazione Z, che ha riportato in auge Running Up That Hill (A Deal With God) di Kate Bush. La canzone riveste infatti un ruolo importante nella quarta stagione, ed è stata eletta come audio preferito per i vari trend su TikTok e i reel su Instagram.

Per la prima volta, dopo 37 anni, Running Up That Hill è entrata nella top ten statunitense e ha infranto il record nelle classifiche Uk per il singolo che ha raggiunto la vetta dopo il più lungo periodo di tempo intercorso dalla sua uscita.

Gli entusiasti della serie avevano previsto una quarta stagione con tinte horror più accese, forse per irretire ancor più il pubblico “diversamente teen”; questo è esattamente quanto si è verificato: anche i fratelli Duffer, gli ideatori, hanno confermato la loro intenzione di imprimere agli ultimi episodi uno stile più adulto e dark.

Oltre al risvolto divertente e spensierato e ai richiami allo stile fluo e pop, infatti, il riferimento agli anni ’80 che prendiamo qui in esame è decisamente più sinistro e coinvolge la tendenza societaria dell’epoca alla paranoia e all’interpretazione arbitraria di tanti, troppi elementi come prova di una presenza satanica.

Ma andiamo per ordine. I ragazzi protagonisti della serie vivono a Hawkins, cittadina americana sui generis che è stata più volte sconvolta da catastrofi ed è in qualche modo collegata al Sottosopra, un pericoloso mondo parallelo.

Sempre a Hawkins uno studente metallaro, Eddie Munson, decide di fondare un club chiamato Hellfire Club e riservato ai giocatori di Dungeons & Dragons (d’ora in poi, D&D). Le citazioni del gioco di ruolo fantasy, in realtà, sono disseminate anche in tutte le stagioni precedenti – si pensi al mostro Demogorgone, che nel gioco è il “Principe dei demoni”, mentre in S.T. è un mostro del Sottosopra.

D&D è oggi celeberrimo (nel 2004 si stimavano circa venti milioni di giocatori) ed è considerato un passatempo creativo e utile alla socializzazione ma negli anni ’80 si trovò al centro di gravi accuse di istigazione al suicidio, e coinvolto in quello che fu definito il “satanic panic”.

L’ondata di isteria si originò probabilmente dalla vicenda di James Dallas Egbert III, uno studente prodigio della Michigan State University, che scomparve dal dormitorio scolastico nell’estate 1979. Il ragazzo, schiacciato dalla pressione accademica, soffriva di depressione, era tossicodipendente e progettava di compiere atti di autolesionismo, come avrebbe testimoniato un suo biglietto d’addio.

Per fatalità, proprio il giorno della scomparsa cominciava la Gen Con, una grande convention dedicata ai giochi di ruolo, a quelli di carte e ai wargame. Bastò che alcuni partecipanti riferissero di aver avvistato James all’evento per far intravedere a William Dear, investigatore assunto dai genitori del ragazzo, un collegamento con D&D; sul caso, Dear pubblicò addirittura un libro dal titolo The Dungeon Master.

Più che essersi allontanato, James si era in realtà nascosto nei sotterranei della scuola, dai quali, non riuscendo a suicidarsi, era passato a rifugiarsi da un amico. Era in seguito scappato a New Orleans dove aveva tentato nuovamente invano di uccidersi, riuscendoci infine un anno dopo, ormai tornato a casa, con un colpo di arma da fuoco; l’opinione pubblica attribuì la colpa del suicidio al gioco di ruolo.

La polemica fu forte anche grazie al libro che Rona Jaffe scrisse ispirandosi alla storia di James, Mazes and Monsters, da cui nel 1982 fu tratto Labirinti e mostri, film con un giovane Tom Hanks che impazzisce per aver giocato a “Mazes and Monsters”; la pellicola affrontava la tematica della dipendenza da gioco con consistenti riferimenti a D&D e metteva in guardia contro i suoi possibili rischi.

Simile al caso Egbert fu quello di Irving Lee Pulling, morto suicida a 17 anni il 9 giugno 1982, in Virginia. Il ragazzo, disadattato e problematico, aveva giocato a D&D a scuola. Questo fu sufficiente alla madre, Patricia A. Pulling, per scorgere un legame con il suicidio a causa di una presunta maledizione inflitta al figlio, alcune ore prima della sua morte, dai compagni di gioco; la donna intentò una causa per omicidio colposo contro il preside del liceo di James e in seguito anche contro la Tsr, Inc., l’allora casa editrice del gioco.

La signora Pulling divenne in seguito un’attivista anti-occulto e fondò il gruppo Badd (Bothered About Dungeons & Dragons); ottenne la licenza di investigatrice privata e svolse l’attività di consulente delle forze dell’ordine.

Nel 1988 fu la volta di un caso di omicidio nella Carolina del Nord: Christopher Pritchard uccise il patrigno e uomo d’affari Lieth Von Stein, aiutato dagli amici James Upchurch e Gerald Henderson. I tre erano appassionati di D&D e Upchurch, al quale fu inflitto l’ergastolo, svolgeva il ruolo di game master (il “controllore”, organizzatore e moderatore delle partite).

Anche l’Italia non fu risparmiata dal “satanic panic: alcuni ragazzi, di cui due veneti, si suicidarono nel 1996. A cercare di fare chiarezza fu l’avvocato Luciano Faraon – recentemente tornato agli onori della cronaca per la rispettata carriera di truffe continuate ed estorsioni – che individuò legami incontrovertibili con i passatempi cui erano soliti i giovani (giochi di ruolo come Killer, Excalibur o Kaos) e parlò di debolezza mentale, somatizzazione, influenza del gioco, perdita del controllo.

Oltre alle accuse gravi dei casi visti finora, il gioco ne guadagnò innumerevoli altre, più vaghe e naturalmente senza riscontro di cronaca: satanismo, occultismo, magia nera, stregoneria, perversione, blasfemia, cannibalismo et similia.

Molte delle persone che calunniavano, tra l’altro, dimostravano di non averne gli strumenti e di non aver dunque capito quasi nulla di D&D, confondendolo perfino con altri giochi; nei casi italiani, per esempio, i media citarono Magic: L’adunanza definendolo un gioco di ruolo, quando in realtà si tratta di un gioco di carte collezionabili.

Sul tema si pronunciarono poi i media e tutti quelli che ritenevano di avere un ruolo nell’educazione e nella vigilanza delle anime dei giovani. Il tele-evangelista Pat Robertson definì il gioco “demoniaco” e capace di rovinare le vite delle persone, la Christian Life Ministry pubblicava regolari geremiadi accusando i giocatori di eresia. Gli editori, stremati, decisero di eliminare integralmente dal gioco (almeno per un lungo periodo) i nomi contenenti riferimenti diabolici, per fugare ogni possibile dubbio.

Coerentemente, il personaggio di Eddie in S.T., incarnando il giocatore medio di D&D, poco attento alle mode mainstream e amante della cultura metal, subisce una forte sanzione sociale e diventa il capro espiatorio. Viene coinvolto in accuse molto pesanti, cadendo vittima del pregiudizio di una comunità che punta il dito contro di lui, riconduce alla sua attività di gioco le cause delle disgrazie della città e fondamentalmente lo abbandona al suo destino.

Tuttora, anche in Italia, resistono sporadici esaltati (di cui non farò nomi per evitare pubblicità gratuite) che non esitano a dire che D&D è chiamato «gioco; ma di fatto, ben presto, diventa una schiavitù» e che i suoi contenuti «sono un invito alla magia, alla stregoneria, alla negromanzia, al reiki, all’occultismo, all’idolatria». Questi esempi costituiscono, comunque, una ristretta minoranza.

La percezione del gioco è ora per fortuna cambiata, forse anche grazie al fatto che nessun caso di cronaca nera ha mai potuto – giustamente – esservi ricondotto o forse perché, in qualche modo, la società si è dedicata ad altri tipi di fake news.

Oggi D&D rappresenta semmai un prodotto per nerd poco inclini alla vita mondana, un riferimento culturale innocuo allo stesso modo in cui il volto di Jack Nicholson in Shining è il soggetto preferito per le t-shirt dei genitori nostalgici e Darth Vader lo è per quelle dei loro figli.

Lo spunto fornito dalla serie permette però a chi l’ha guardata di attualizzare il problema, soffermarsi e di provare a comprendere quale livello di disinformazione e di panico possa aver condotto associazioni di genitori, insegnanti, stimati professionisti e – manco a dirlo – schiere di religiosi a credere che un gioco da tavolo potesse avere la capacità di fare il solletico al Maligno, semplicemente per via della sua poca comprensibilità a quelli che oggi chiameremmo boomer.

Come sempre, il pregiudizio cieco e l’ostracismo del “diverso” trovano terreno fertile nell’ignoranza e questo spesso si cementifica in ambito religioso.

Micaela Grosso

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