Greenwashing God. Il pericolo dell’ambientalismo religioso

Negli ultimi anni l’ambientalismo ha ricevuto un crescente sostegno dalle principali religioni, che spesso reinterpretano in chiave greenwashing i loro testi sacri per vendersi come intrinsecamente ambientaliste. Ma se l’ambientalismo vuole essere efficace deve mantenere un approccio scientifico. Ne parla David Mountain sul numero 1/2023 della rivista Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.


Negli ultimi anni, l’ambientalismo ha ricevuto un crescente sostegno da parte dei leader delle principali religioni mondiali. Sin dalla sua elezione nel 2013, papa Francesco è stato un convinto sostenitore dell’azione a favore del clima, suggerendo persino che la cura dell’ambiente dovrebbe essere considerata un atto di misericordia cristiana insieme al dare da mangiare agli affamati e ospitare i senzatetto.

Nel 2015, i leader indù di tutta l’India hanno pubblicato la Dichiarazione indù sul cambiamento climatico, in cui incoraggiano i fedeli ad ampliare il concetto di dharma, o dovere, per includere il dovere di proteggere il mondo naturale. Nel novembre 2020, il Dalai Lama ha insistito sul fatto che «Buddha sarebbe verde» e ha esortato i suoi seguaci a ridurre il loro impatto ambientale.

Come ambientalista, accolgo con favore questo sostegno. Potrei non credere nella misericordia cristiana, nel dharma indù o nello yoga tantrico, ma credo che più persone agiscono per invertire il cambiamento climatico e la distruzione dell’ambiente, meglio è.

Il rapporto della religione con l’ambientalismo va però oltre la semplice approvazione. Sempre più spesso, le principali fedi del mondo non solo si pongono come paladine del movimento ambientalista, ma come se fossero esse stesse intrinsecamente ambientaliste. Ed è qui che gli ambientalisti dovrebbero preoccuparsi. Non importa che la validità storica e teologica di queste affermazioni sia molto sospetta; gli sforzi per definire l’ambientalismo come un impegno religioso mettono a rischio il futuro stesso del movimento.

La religione e l’ambientalismo non sono sempre stati così intimi amici. Infatti, quando il movimento ambientalista ha raggiunto la ribalta pubblica negli anni sessanta, molti dei suoi seguaci guardavano alla religione – soprattutto al cristianesimo – con sospetto.

Questo punto di vista fu espresso con forza dallo storico medievalista Lynn White Jr. che nel 1967 sostenne che gran parte della colpa della distruzione ambientale era da attribuire alla fede cristiana. In un breve articolo per la rivista Science, intitolato The Historical Roots of Our Ecological Crisis (Le radici storiche della nostra crisi ecologica), White affermò che il cristianesimo, «la religione più antropocentrica che il mondo abbia mai visto», aveva impregnato la società europea di una «arroganza cristiana nei confronti della natura».

Questo senso di dominio sul mondo naturale a sua volta ha influenzato il carattere della scienza e della tecnologia che si sono sviluppate a partire dall’erudizione cristiana dell’Europa medievale e della prima età moderna. Il risultato è stato che gli immensi poteri scientifici e tecnologici dell’umanità non sono stati limitati da alcun senso di simpatia o responsabilità per l’ambiente.

Forse sorprendentemente, data la sua critica senza mezzi termini al cristianesimo, White non si schierò a favore della separazione tra chiesa e natura. Al contrario: «Poiché le radici dei nostri problemi sono in gran parte religiose» scriveva «anche il rimedio deve essere essenzialmente religioso». White credeva che la soluzione alla crisi ecologica fosse «trovare una nuova religione, o ripensare quella vecchia».

Per gli ambientalisti del 1967, la prima di queste due opzioni era di gran lunga la più allettante. Dopotutto, l’estate di quell’anno sarebbe passata alla storia come quella “dell’amore”: un periodo in cui opporsi all’establishment divenne un credo politico per molti in Europa e in nord America. E se qualcosa rappresentava l’establishment, era il cristianesimo.

Non sorprende quindi che alla fine degli anni sessanta e settanta tanti ambientalisti abbiano rivolto lo sguardo verso est alla ricerca della saggezza ecologica. Beatnik, hippy e altri sedicenti ribelli della controcultura avevano già guardato all’India e all’Estremo Oriente in cerca di risposte per più di un decennio; se questi luoghi contenevano l’illuminazione spirituale, non potevano forse contenere anche l’illuminazione ambientale?

La risposta, si è scoperto, è stata un “no” piuttosto deludente. La verità è che le religioni e le filosofie spirituali orientali non contengono un’etica ambientalista chiara e coerente, né tantomeno molte prove di essere state formulate da persone con una particolare intuizione ecologica. Se questo suona sorprendente, è una testimonianza del successivo greenwashing che ha ribattezzato queste e altre religioni come fonti di saggezza ambientale.

L’induismo è stato in prima linea in questi sforzi. Oggi è comune sentire la terza religione più grande del mondo elogiata come una fede intrinsecamente ambientalista. «L’antico mito indù si fonda su quella che oggi chiameremmo una visione profondamente ecologica», scrive lo storico e studioso dell’induismo Harold Coward nel suo articolo del 2003 Hindu Views of Nature and the Environment (La visione induista della natura e dell’ambiente). Tali punti di vista, tuttavia, sono uno sviluppo molto recente nella storia dell’induismo.

A partire dagli anni ottanta – e in risposta al crescente interesse per l’ambientalismo in Occidente – diversi studiosi indù iniziarono a reinterpretare deliberatamente i testi sacri dell’induismo in chiave ecologica, setacciando il vasto corpus dell’antica letteratura indù alla ricerca di passaggi in cui il mondo naturale o i temi ambientali occupassero un posto di rilievo.

La profusione di divinità basate sulla natura, si sosteneva, dimostrava che gli indù avevano a lungo venerato il mondo naturale come sacro. Allo stesso modo, la credenza nell’interconnessione del cosmo – dalle persone alle piante, dai fiumi alle gocce di pioggia – era la prova che gli antichi indù avevano capito che il mondo intero era un grande “ecosistema”, migliaia di anni prima che gli occidentali fondassero la scienza dell’ecologia.

È certamente vero che il mondo naturale occupa un posto di rilievo in molti testi indù. In effetti alcuni di essi, in particolare il Rig Veda, una raccolta di inni risalente al secondo millennio a.e.v., contengono un innegabile apprezzamento e riverenza per la bellezza e la ricchezza della natura. Di per sé, tuttavia, l’apprezzamento e la riverenza non sono ambientalismo. Secondo questa logica, anche la poesia di William Wordsworth o i paesaggi di Li Cheng sarebbero considerati ambientalismo.

E quando cerchiamo esempi meno ambigui di ambientalismo nei testi indù – appelli diretti a proteggere l’ambiente informati da una chiara comprensione dei processi naturali e dell’impatto dell’umanità su di essi – restiamo a mani vuote. Questo non dovrebbe sorprenderci: dopotutto, se le preoccupazioni ambientali e la saggezza ecologica erano davvero così intrinseche alla visione del mondo indù, perché è stato necessario uno sforzo così deliberato e minuzioso per scoprire questi messaggi nei testi sacri?

Forse in risposta alla mancanza di contenuti ambientali inequivocabili, diversi studiosi indù hanno fatto ricorso ad approcci meno onesti all’ecoteologia. Durante la ricerca di questo articolo, mi sono imbattuto con sorpresa nella seguente frase tratta da un inno del Rig Veda: «Non tagliare gli alberi perché eliminano l’inquinamento».

Un valido consiglio ambientale, soprattutto se si considera che è stato scritto più di tremila anni fa. Quando ho consultato una copia del Rig Veda, tuttavia, quella stessa frase (libro sesto, inno quarantotto, riga diciassette) è stata tradotta come segue: «Non strappare dalle radici l’albero di Kakambira: distruggi ogni malignità». Nessun accenno all’inquinamento; anzi, nessuna indicazione che l’albero di Kakambira avesse un significato diverso da quello spirituale nella mente dell’autore dell’inno.

Altrove ho trovato un verso dell’Atharvaveda riportato – in un documento accademico, nientemeno – come: «Le piante e le erbe distruggono le sostanze inquinanti». Eppure, quando ho controllato personalmente quel verso (libro otto, inno sette, riga dieci), ho trovato: «Le piante che rilasciano, esenti da Varuna, sono forti e distruggono il veleno».

Se si legge la frase nel suo contesto, è chiaro che l’Atharvaveda parla di erbe medicinali e non di inquinamento. Ci sono molte altre (errate) traduzioni simili che contaminano internet e, a quanto pare, il mondo accademico. È chiaro che alcuni indù attenti all’ambiente stanno promuovendo interpretazioni anacronisticamente libere dei loro testi sacri per gonfiare le credenziali ecologiche dell’induismo.

Sarebbe ingiusto concentrarsi solo sull’induismo, giacché anche altre religioni orientali sostengono di possedere un’antica saggezza ambientale. In Giappone, ad esempio, i seguaci dello shintoismo affermano spesso che la loro fede ha da tempo incarnato insegnamenti ambientali. La credenza che i kami, o spiriti, risiedano in elementi naturali, come le montagne e i fiumi, è comunemente interpretata oggi nel senso che la natura stessa è sacra e deve essere protetta.

Da ciò si deduce che lo shintoismo incoraggia i suoi seguaci ad apprezzare la loro dipendenza dal mondo naturale e a vivere in armonia con esso. Come per l’induismo, tuttavia, queste interpretazioni sono sviluppi recenti. Come spiega lo studioso del Giappone Aike Rots nel suo libro del 2017 Shinto, Nature and Ideology in Contemporary Japan, è stato solo negli anni settanta che hanno iniziato a comparire interpretazioni ambientaliste dello shintoismo come queste, e solo negli anni novanta tali interpretazioni si sono ampiamente diffuse tra i credenti. Come scrive Rots: «Lo shintoismo è stato ridefinito come un’antica tradizione di culto della natura… che contiene importanti risorse fisiche, culturali ed etiche per affrontare l’odierna crisi ambientale».

Non sono solo le religioni orientali a essere state trasformate in fari di saggezza ecologica. Durante il movimento New Age degli anni settanta e ottanta, i sistemi di credenze di varie nazioni native americane sono stati spesso reinterpretati – o semplicemente riscritti – come manifesti ambientalisti, nella convinzione paternalistica che gli abitanti indigeni delle Americhe fossero in qualche modo più “antichi” e “autentici” degli altri occidentali.

Forse vi sarete imbattuti nel discorso Questa Terra è preziosa, pronunciato da Seattle, capo della tribù squamish, nel 1855. «Come si può comprare o vendere il cielo?», chiede Seattle ai coloni europei che stanno distruggendo la sua terra. «Se non possediamo la freschezza dell’aria e lo scintillio dell’acqua, come potete comprarli?». È un’orazione potente e poetica. Ma è anche falsa. Queste parole non sono mai state pronunciate da Seattle, ma sono state scritte da uno sceneggiatore texano per un documentario del 1972 sull’inquinamento. La diffusa accettazione dell’attribuzione errata testimonia la forte associazione tra spiritualità e ambientalismo nella coscienza pubblica.

Anche il cristianesimo ha subito una sorta di conversione ambientale. Il noto passo della Genesi in cui Yahweh concede ad Adamo il “dominio” su tutte le creature – considerato da Lynn White come una fonte dell’«arroganza cristiana nei confronti della natura» – è ora comunemente interpretato nel senso di “custodia” o “amministrazione” del mondo naturale.

Papa Francesco ha elaborato questa idea, suggerendo che il dio cristiano ha dato all’umanità il permesso di utilizzare le risorse naturali solo a condizione di non abusarne o distruggerle. Molta attenzione è stata rivolta anche all’omonimo del papa, Francesco d’Assisi, che esaltava un legame insolitamente sensibile e intimo con il mondo naturale. Anche lo stesso White, nonostante la sua condanna dei precedenti ambientali del cristianesimo, riteneva che il “pan-psichismo” di Francesco potesse contenere il seme di «una visione cristiana alternativa della natura e del rapporto dell’uomo con essa».

Dobbiamo guardare alla scienza, non alla religione

Oggi, molte religioni del mondo sono sul punto di completare uno dei più riusciti rinnovamenti delle relazioni pubbliche nella storia recente. Parlando con i fedeli, indipendentemente dalla fede, è probabile che essi affermino che la loro religione offre insegnamenti ambientalisti chiari e coerenti e che lo ha fatto fin dalla sua nascita.

Spesso questa convinzione è condivisa anche da persone di altra, o nessuna, affiliazione religiosa. «Nella maggior parte delle principali religioni ci sono scritture che incoraggiano la protezione e la cura della natura», insiste il Programma ambientale delle Nazioni Unite; «dal buddismo al cristianesimo, dall’induismo all’islam, le fedi riconoscono la necessità di una tutela ambientale ed esortano i seguaci a prendersi cura del pianeta e della sua biodiversità». Con queste lodi ormai diffuse, è facile dimenticare che fino agli ultimi decenni nessuna fede era comunemente intesa in termini ambientali.

Vale la pena ribadire che non ho alcun problema con le religioni e i loro seguaci che promuovono l’ambientalismo. Il punto non è che i testi e le pratiche religiose non debbano essere reinterpretati e rivisti; questo, dopotutto, è antico come la religione stessa. Né sto suggerendo che sia in qualche modo ipocrita per i credenti religiosi essere anche ambientalisti. La fede personale e la preoccupazione per l’ambiente non si escludono a vicenda.

Ma non sono nemmeno la stessa cosa. L’ambientalismo è – o dovrebbe essere – un’azione informata dalla scienza, non dalla fede. Senza la scienza, non avremmo modo di misurare o comprendere il nostro pianeta e i suoi ecosistemi; di conseguenza, non avremmo modo di aiutarli. Ogni volta che l’ambientalismo ha dato un contributo positivo al mondo – il recupero dello strato di ozono, per esempio, o la crescente adozione di energie rinnovabili – è stato guidato dall’indagine e dal rigore scientifico. Al contrario, ogni volta che l’ambientalismo si è lasciato guidare dalla spiritualità, si è perso nelle insignificanti retrovie del misticismo New Age e delle comuni del “ritorno alla terra”.

Gli attuali sforzi per definire le religioni come intrinsecamente ambientaliste – e quindi l’ambientalismo come intrinsecamente religioso – dovrebbero quindi turbare coloro che si preoccupano per il nostro pianeta, indipendentemente dalle loro convinzioni personali, perché sono un tentativo di sostituire la scienza dell’ambientalismo con la fede. Il Vaticano, ad esempio, è esplicito nell’affermare che la crisi climatica non può essere risolta solo con la scienza. «Una visione cristiana non è paragonabile a una visione laica dell’ecologia», afferma; «la rivoluzione tecnologica e l’impegno individuale non bastano».

Se questo fosse vero, allora perché le religioni hanno così poco da mostrare per le loro visioni spirituali dell’ecologia? Se l’induismo è così illuminato dal punto di vista ambientale, allora perché l’India, che ospita 966 milioni di indù, è una tragedia ecologica? Se il cristianesimo «ha sempre mostrato una profonda consapevolezza ambientale», come si spiega il fatto che quasi due terzi dei corsi d’acqua europei soffrono di alti livelli di inquinamento?

Se considerata nel contesto storico, la complicità della religione nella distruzione ambientale è ancora più chiara. L’islam esiste da oltre mille anni; il cristianesimo e lo shintoismo da duemila anni; l’induismo e il buddismo, in qualche forma, da quasi tremila anni. Negli ultimi tre millenni, la Terra è stata testimone di innumerevoli disastri ambientali: interi ecosistemi distrutti dalla deforestazione; paesaggi devastati da un’agricoltura insostenibile; le estinzioni del dodo, del moa e dell’uccello elefante, tutte culminate nella crisi ecologica scatenata dalla rivoluzione industriale del XVIII e XIX secolo.

In tutto questo tempo, nessuna religione ha sviluppato una chiara ideologia ambientalista, né tantomeno innovazioni intellettuali o meccaniche che avrebbero potuto ridurre l’impatto dell’umanità sul pianeta. La religione, insomma, ha avuto migliaia di anni per dimostrare il suo valore ambientale, e ha fallito miseramente.

Al contrario, ci sono voluti meno di cinquant’anni dopo la nascita dell’ecologia, alla fine del XIX secolo, perché gli scienziati non solo sollevassero preoccupazioni sullo stato di deterioramento del mondo naturale, ma gettassero i fondamenti della scienza ambientale che da allora hanno costituito la base di un’efficace azione ambientale. Solo allora, una volta che lo sforzo e l’ingegno scientifico hanno portato all’attenzione del pubblico la crisi ambientale in atto, le religioni se ne sono finalmente accorte. E ora hanno l’ardire di rivendicare l’ambientalismo come proprio?

Se l’ambientalismo deve continuare a essere un movimento di successo – e per il bene di tutti noi ce n’è bisogno – allora deve continuare a essere guidato dalla scienza. In ogni modo, i leader religiosi dovrebbero usare il loro potere e la loro influenza per aumentare la consapevolezza della crisi ecologica e sollecitare l’azione.

Ma non hanno motivo di trattare l’ambientalismo come una loro prerogativa. Gli ambientalisti di ogni credo devono quindi resistere a questi sforzi religiosi di rimodellare l’ambientalismo come un’impresa fondamentalmente spirituale. Se questi sforzi dovessero avere successo, suonerebbe la campana a morto per un’azione ambientale efficace.

David Mountain

Per gentile concessione del Free Inquiry. Originale pubblicato alla pagina go.uaar.it/o6wpxir.

Traduzione a cura di Leila Vismara.

 


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12 commenti

laverdure

Ricordate quel passo del Vangelo dove Cristo,seccato per non aver trovato fichi (fuori stagione)in un albero di fico,lo fa seccare ?
Un “miracolo” che Bertrand Russell ammise esplicitamente di trovare incomprensibile.
Dobbiamo considerarlo un cattivo esempio di rispetto della natura ?

Diocleziano

Certamente un’indole stizzosa e irascibile.
Suo padre avrebbe dovuto incenerirlo per aver, nei fatti, criticato il suo operato.

“Ma allora sei de coccio! T’ho detto che devi de aspettà settembreeee…”

Mixtec

Gesù, è noto, aveva due nature, l’umana e la divina. Delle volte prevaleva l’una, delle volte l’altra. I teologi si interrogano su quale prevalesse nell’episodio del fico.
Perché, volendo, anziché farlo seccare, avrebbe potuto farlo fruttificare all’istante.
Interessante l’articolo di White: è del 1967 ed è rimasto nascosto alla mia vista finora!
Interessante anche perché è l’articolo di uno storico del medioevo pubblicato su una rivista della scienza ufficiale che di più non si può (diciamo se la giocano con Nature).
Infine, ai cristiani, almeno all’origine, di questo mondo importava molto poco: presto sarebbe tornato Gesù e avrebbe fatto tutto nuovo. I cristiani di adesso sembrano incerti: ogni domenica proclamano di aspettare il mondo che verrà, dove faranno i giardinieri, ma dal lunedì successivo si preoccupano di fare un sacco di mestieri vari e lucrosi. In attesa del paradiso celeste/terrestre pensano ai paradisi fiscali, alle vacanze da sogno, dove fare i bagni o sciare.

Diocleziano

Leggo che faranno una ‘via †rucis’ per i migranti affogati.
Bisogna ammettere che, forse, i cristiani non hanno molto rispetto per la natura, ma certamente ne hanno molto per gli individui… e quelle croci fatte con il legno del relitto… oops!
Non erano tutti provenienti da paesi islamici? Che si siano convertiti tutti prima della morte?…
A volte succede… 😥

RobertoV

A me non sembra un gran rispetto delle persone, ma si inserisce nell’arrogante atteggiamento della chiesa cattolica di appropriarsi di tutto, pure dei morti. Visto che erano in maggioranza islamici ricordarli con una croce ed una via crucis non mi sembra un gran segno di rispetto, non riescono proprio a concepire l’esistenza degli altri, ma visto che sono abituati a marcare il territorio e cercare di imporsi a tutti i vivi, non stupisce che lo facciano anche coi morti. Pensando poi che questi scappano dai talebani che si sono insediati grazie a nazioni cristiane.

Mixtec

“Pensando poi che questi scappano dai talebani che si sono insediati grazie a nazioni cristiane.”
Adesso ho un vuoto di memoria. Ricordo vagamente che un mucchio di paesi, fra cui l’Italia, occupò militarmente alcune parti di quel paese, addestrò o, meglio, abborracciò una sorta di esercito governativo a quanto pare senza carri armati o aviazione. Tale esercito si dileguò di fronte a talebani avanzanti su automobili con mitragliatrici montate sul tetto. Ma quanti erano ‘sti talebani? E perché non sono riusciti gli afgani che adesso piangono e si disperano, a tenerli lontani almeno da alcune città?

Diocleziano

Forse non si è capito, ma ero ironico sulle croci e la via †rucis… 😛
Normale che la ‘grande’ stampa non abbia avvertito la gaffe, se vogliamo dire così.

Mixtec,
infatti: tutti trovano normale e giusto che chi scappa da una guerra abbia DIRITTO
a essere accolto a casa nostra, nessuno pensa che prima di fuggire si debba almeno
provare a RESISTERE agli invasori. Come stanno facendo gli ucraini.
Forse gli idealisti di casa nostra sarebbero molto contenti se, non dando più le armi
agli ucraini e persa la guerra, venissero in massa a farsi accogliere. Dopo di che, Putin,
sarebbe libero di passare a invadere un altro paese.

RobertoV

Diocleziano
Guarda che gli ucraini sono già in massa nelle nostre nazioni, sono fuggiti in più di 3 milioni, di cui 200 mila in Italia, 250 mila in Francia, un milione in Germania ed 1.5 milioni in Polonia, quella che non vuole la ripartizione dei migranti, ma la chiede per gli ucraini.
Gli ucraini possono resistere solo per gli aiuti consistenti che ottengono, se tolti succederebbe come per l’Afghanistan a cui ad un certo punto sono stati tolti. Purtroppo per controllare un paese non ci vogliono eserciti enormi, ma bastano gruppi armati, aggressivi ed organizzati. Di certo quelli che fuggono non sono i sostenitori dei talebani.
Inoltre il governo ucraino è stato liberamente scelto dagli ucraini, mentre quello afghano era un governo imposto dagli occidentali che evidentemente gli afghani non sentivano come proprio: essere liberati da una dittatura per ritrovarsene un altra non mi sembra un grande successo. Per resistere ci devono essere anche le condizioni per farlo: per esempio in Italia prima del ’43 non c’erano, era meglio andarsene.
Ritornando alla chiesa cattolica quello che volevo evidenziare era che noi come atei avremmo da ridire se per una persona atea la chiesa si intromettesse facendo il suo funerale ed i suoi riti, lo vedremmo come abuso, mentre qui viene considerato normale che su dei morti di altre religioni la chiesa cattolica ci faccia i suoi riti e ponga i suoi simboli.

RobertoV

Correggo, ricordavo male.
Secondo l’UNHCR i profughi ucraini sono il doppio, cioè circa 6 milioni.

RobertoV

L’India ha firmato molto a fatica ed in notevole ritardo l’accordo sul clima ed ha posto notevoli condizioni favorevoli al carbone prima di firmare, non proprio una visione ambientalista. Sono proprio le nazioni più tecnologiche e avanzate scientificamente, cioè secolarizzate (infatti gli USA sono molto meno ambientalisti) ad essere le più ambientaliste in genere, dopo un passato non certo ecologista, proprio perchè hanno studiato meglio e prima gli effetti sull’ambiente (basterebbe vedere gli effetti del carbone sulle case ed i monumenti inglesi).
L’atteggiamento delle religioni sull’ambiente è il classico atteggiamento in cui cercano di ricostruirsi una verginità mai avuta, come sulla tolleranza religiosa dopo essersi combattuti e massacrati reciprocamente, come sui diritti ottenuti nonostante loro, sulla guerra, ecc.
La visione delle popolazioni primitive non era ambientalista, ma utilitaristica, nel senso che la loro dipendenza per la sopravvivenza dalla natura era più diretta ed essendo in pochi i loro danni erano meno visibili, anche se erano molto inefficienti. Ci sono studi che attestano l’inquinamento dei siti preistorici e gli effetti sulla popolazione che loro non conoscevano, ma erano in pochi e se il sito diventava invivibile c’era sempre tanto spazio dove spostarsi per inquinare nuovamente.

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