Lo sport è una fucina di pseudoscienza?

Nel mondo dello sport sono diffusi metodi pseudoscientifici che hanno la pretesa di curare gli infortuni e migliorare le prestazioni. Cosa succede quando questa pseudoscienza dallo sport inizia a influenzare le persone comuni? Affronta il tema Nick Tiller, in un articolo tradotto sul numero 1/23 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.


All’inizio del 2022, il più grande tennista al mondo, Novak Djokovic, è stato espulso dall’Australia, non per cattiva condotta in campo o per doping, ma per aver violato le norme sull’immigrazione che imponevano la vaccinazione anti-Covid.

Ma Djokovic è solo uno dei tanti atleti professionisti che hanno rifiutato il vaccino: basti citare la tennista ceca Renata Voráčová, Kyrie Irving e Jonathan Isaac dell’Nba, il golfista americano Bryson DeChambeau e i giocatori di football Aaron Rodgers, Cole Beasley, Vernon Butler e Star Lotulelei.

Si tratta di casi isolati, per quanto di alto profilo, che non rappresentano in generale le convinzioni degli atleti professionisti (anzi, le principali leghe sportive americane hanno riportato tassi di vaccinazione prossimi al 100%).

Tuttavia, i media si sono chiesti perché alcuni atleti d’élite siano riluttanti a farsi vaccinare, e quindi fino a che punto siano suscettibili alla pseudoscienza. In effetti, quando si tratta di superstizione e pseudoscienza, il mondo dello sport professionale non gode affatto di buona reputazione.

Tom Brady è da molti considerato il più grande quarterback della storia del football americano. Nel suo bestseller, Brady attribuisce la sua incredibile longevità professionale alla cosiddetta “plasticità muscolare”, un concetto ampiamente screditato ma propalato dal suo allenatore Alex Guerrero, guru dell’esercizio autodidatta due volte indagato dalla Federal Trade Commission per affermazioni fraudolente sulla salute e pure per aver millantato di essere un medico.

La “plasticità muscolare” tuttavia è solo la punta dell’iceberg pseudoscientifico: l’impero commerciale di Brady include il marchio “Tb12”, un coacervo di diete restrittive, alimenti alcalini e integratori immunostimolanti.

Pochi anni dopo il lancio di Tb12, Michael Phelps, il più grande atleta olimpico della storia, ha fatto notizia per avere involontariamente pubblicizzato la terapia del cupping, o coppettazione, che consiste nell’applicare a muscoli doloranti o feriti delle coppe di vetro da cui viene aspirata l’aria con un dispositivo di risucchio o di riscaldamento.

Il cupping è stato denunciato dalla comunità scientifica come variante della “medicina energetica”, e numerosi studi dimostrano che non produce alcun beneficio oltre l’effetto placebo di base (Lee, Kim, and Ernst 2011), e che in alcuni casi ha provocato delle ustioni. Quando Phelps, alle finali di nuoto delle Olimpiadi di Rio (2016), si è presentato con lividi circolari sulla schiena e sulle spalle, ho previsto che il suo endorsement a questo trattamento avrebbe avuto effetti a catena sullo sport per molti anni.

La crioterapia è un’altra pratica alternativa divulgata da atleti famosi, come LeBron James e Floyd Mayweather. In una tipica sessione, l’atleta entra in un serbatoio verticale delle dimensioni di un grande armadio, in cui l’aria è stata raffreddata tra i -150° C e -200° C. Lo scopo sarebbe quello di «accelerare la convalescenza, alleviare il dolore, ridurre l’acido lattico e calmare le infiammazioni»: peccato che gli studi scientifici non confermino alcun effetto di questo tipo.

Eppure, attualmente, la cultura del benessere, la retorica del marketing e gli sponsor delle celebrità sono come un treno in fuga, e i dati scientifici non rappresentano che una recinzione di legno incapace di bloccarne la corsa. La crioterapia è ormai diventata una colonna portante degli sport professionistici, ed è adottata dalle squadre dell’Nfl, dell’Nba e da tutto il calcio professionistico. Viene utilizzata dai centri sportivi di tutto il mondo e persino l’Ultimate Fighting Championship (Ufc) ha collaborato con uno sponsor ufficiale della crioterapia.

Un esempio ancor più radicale di pseudoscienza nello sport è la tecnica che Robin van Persie ha utilizzato per riprendersi da un infortunio nel 2009. Il calciatore, ora in pensione, si era rivolto a un fisioterapista che gli aveva massaggiato la caviglia ferita con la placenta di un cavallo. «Che male può fare?», disse Van Persie all’epoca. «Ne ho parlato con i fisioterapisti dell’Arsenal che mi hanno autorizzato».

Non esiste ovviamente un consenso scientifico sui benefici della placenta di cavallo nel trattamento delle lesioni ai legamenti, né si può immaginare un plausibile meccanismo d’azione. Ma le parole di Van Persie evidenziano chiaramente la logica sottesa alla sua decisione: “Che male può fare?”

Ci troviamo quindi di fronte all’istituzionalizzazione della pseudoscienza nello sport? Certo, ci sono atleti, forse la maggioranza, che non ricorrono abitualmente a terapie alternative o pseudoscienze varie, preferendo approcci basati sull’evidenza. Ma gli sportivi tendono a farsi guidare dai dati, il che potrebbe spingerli a una sorta di “empirismo quantitativo”.

C’è poi la questione del movente: se è vero che nell’usare placebo un atleta raramente è mosso dal desiderio di sovvertire le pratiche tradizionali a vantaggio degli implausibili metodi alternativi della “medicina energetica” e della stregoneria, o da un senso di insoddisfazione o sfiducia nella scienza convenzionale, è anche vero che atleti e allenatori hanno in qualche modo gettato inavvertitamente le basi di una cultura in cui la pseudoscienza può prosperare.

Questo perché ai livelli più alti dello sport, nessun vantaggio prestazionale è troppo piccolo. È la logica dei “guadagni marginali”: minuscoli miglioramenti in vari ambiti che portano ad aumenti cumulativi. Quando la differenza tra oro e argento può essere infinitamente piccola, qualsiasi trattamento (che sia basato sulla scienza o comprovatamente legato al solo effetto placebo) viene preso in considerazione, e giustificato dall’idea che ogni punto percentuale conta. Non sorprende che atleti e allenatori perseguano ogni vantaggio possibile, a prescindere da quanto possa apparire insensato.

È pseudoscienza nella sua forma più insidiosa. Anche quando sono basate su principi estremamente oscuri, queste pratiche vengono commercializzate con una terminologia scientifica sufficiente a darne un’aria di plausibilità, e pubblicizzate alle masse da sportivi in buona fede. In questo modo, si fanno strada nella pratica quotidiana, mescolandosi con i trattamenti genuinamente scientifici, fino al punto da rendere difficilmente distinguibili gli uni dagli altri.

Gli studi indicano che la medicina complementare e alternativa (Cam) è largamente praticata nello sport, principalmente nel trattamento delle lesioni muscoloscheletriche (Malone e Gloye 2013; Ernst 2004). Se la popolazione americana ricorre a terapie alternative nel 40% dei casi (Barnes, Bloom, e Nahin 2007), l’uso da parte degli atleti può arrivare al 50-80% (Nichols e Harrigan 2006; Youn, Ju, Joo, et al. 2021; Luccio 2005; Bianco 1998).

Nessuno studio ha finora messo a confronto il ricorso alla pseudoscienza nello sport a livello amatoriale e professionistico, ma nell’Nfl, ad esempio, il 77% degli allenatori ha indirizzato i giocatori a un chiropratico, e circa un terzo delle squadre dell’Nfl ha un chiropratico sul libro paga (Stump e Redwood 2002). Questo porta a concludere che la pseudoscienza sia un problema sistemico nello sport tanto quanto lo è nella cultura popolare.

Naturalmente, i casi di alto profilo che abbiamo descritto non rappresentano necessariamente l’intero mondo dell’atletica, ma bisogna ricordare che queste celebrità sono leader nelle rispettive specialità. Che lo riconoscano o meno (e di solito lo fanno), gli atleti più venerati hanno una profonda influenza sui loro pari e sugli atleti meno capaci.

Ma soprattutto, è la popolazione generale a essere fortemente affascinata da questi sportivi: guarda le loro prestazioni, li segue sui social media, arriva a divinizzarli per il loro talento. Le azioni di pochi hanno effetti a valle su molti, e gli atleti d’élite fanno tendenza, quando si tratta di Cam.

Si può verificare empiricamente: quando Phelps nel 2016 ha presentato il cupping al grande pubblico, la pagina Wikipedia dove si parla di questa antica terapia cinese ha visto un enorme picco di traffico, da una media di circa 1.500 visitatori al giorno a oltre 100.000.

Se non è un dato causale, ma solo di correlazione, sarebbe una coincidenza affascinante. Persone, quindi, che potrebbero non aver mai sentito parlare di questa pratica ampiamente screditata hanno familiarizzato con le sue tecniche e presunte applicazioni. E quante di queste persone avranno contattato uno specialista di coppettazione? Un simile effetto si è visto anche nelle ricerche su Wikipedia di “nastro terapeutico”, altra pratica insistentemente pubblicizzata ai Giochi Olimpici del 2016.

Non si possono tuttavia biasimare troppo gli atleti, che non sono (solitamente) scienziati e non possiamo aspettarci che si comportino come tali. La maggior parte di loro, specialmente quelli di élite, seguono i consigli degli allenatori e sono assistiti da una rete di medici, fisiologi, nutrizionisti e psicologi. Alcuni si fidano ciecamente, al punto che prenderebbero un “integratore sconosciuto” senza nemmeno informarsi sui suoi effetti o la sua legalità (Bérdi et al. 2015).

L’impatto non sarebbe stato così pesante se il cupping di Phelps, la plasticità muscolare di Brady e la placenta di cavallo di Van Persie fossero stati immediatamente e categoricamente stigmatizzati dai rispettivi consulenti. Ma ciò non è mai accaduto.

Ed è in gran parte proprio a causa della mancanza di accountability degli atleti che queste assurde “terapie” perdurano nello sport. I medici stessi non sono esenti da responsabilità: nell’ultimo anno, l’88% degli iscritti all’albo della American Medical Society for Sports Medicine hanno prescritto almeno un tipo di Cam per trattare patologie sportive, in particolare la chiropratica, l’agopuntura e lo yoga (Kent et al. 2020). Questo la dice lunga sull’importanza percepita degli effetti placebo negli sport ad alte prestazioni.

E non indebitamente. È risaputo da tempo che i placebo hanno effetti psicobiologici molto potenti. Ad esempio, possono ritardare l’affaticamento muscolare e migliorare le prestazioni (Pollo, Carlino e Benedetti 2008) e contribuiscono in parte al miglioramento delle prestazioni associato all’assunzione di integratori alimentari (Marticorena, Carvalho, Oliveira, et al. 2021).

Adulti allenati agli sport di resistenza, dopo l’iniezione di una sostanza inerte che credevano essere un potente integratore, hanno mostrato prestazioni significativamente superiori nella corsa sulle grandi distanze (Ross, Gray e Gill 2015). Di conseguenza, pratiche dai benefici indimostrati o smentiti non vengono necessariamente adottate nello sport per una questione di analfabetismo scientifico o superstizione, bensì perché allenatori, atleti e assistenti sanno che funzionano.

Il 44% degli allenatori, sia a livello regionale che internazionale, ha ammesso di aver cercato di incidere sulle prestazioni degli atleti ricorrendo all’uso di placebo (Szabo e Müller 2016), una percentuale vicina al 60% quando si sale di livello. Inoltre, un piccolo sondaggio ha rivelato che la maggioranza degli atleti professionisti (97%) ritiene che l’effetto placebo abbia qualche impatto sulle prestazioni sportive, con il 73% che dichiara di averlo sperimentato personalmente.

C’è chi considera i vantaggi psicologici nello sport più importanti di quelli fisici, e la ricerca mostra che la preparazione mentale, sommata all’allenamento fisico, può migliorare i risultati (Kumar e Shirotriya 2010). Per questo motivo, la maggior parte degli atleti d’élite (il 67%) ha dichiarato che accetterebbe volentieri l’inganno di un placebo pur di migliorare le proprie prestazioni (Bérdi et al. 2015).

Naturalmente, l’accettazione diffusa dei placebo nello sport, a vantaggio delle prestazioni atletiche, non tiene conto delle potenziali conseguenze a valle. Il cupping di Phelps viene generalmente utilizzato per attenuare dolori muscolari, ma c’è anche chi propone seriamente questa terapia per il trattamento dell’asma, o altri disturbi.

Non dovrebbe essere necessario ribadirlo, ma per favore non praticate il cupping per curare l’asma! La crioterapia di James, in ambito sportivo, viene utilizzata per alleviare infiammazioni provocate dagli allenamenti più intensi, ma molti la promuovono come cura per varie malattie. L’impero pseudoscientifico di Brady comprende integratori e alimenti “alcalinizzanti” e “antinfiammatori” che, a detta dello stesso, sarebbero in grado di «ridurre i livelli di pH» e «curare una serie di disturbi, dalla mancanza di energia alla prevenzione delle fratture ossee».

E non serve ricordare ai lettori i danni e il caos provocati dalla retorica antivaccinista di Djokovic e altri. La pseudoscienza nello sport ha profonde conseguenze sulla salute della popolazione e sulla pratica clinica. E ci possono essere implicazioni dirette anche nello sport: come le persone comuni, anche molti atleti considerano le terapie alternative più “naturali” rispetto alla medicina ufficiale e quindi potenzialmente meno in contrasto con i regolamenti antidoping. Ma questo è un grave errore. Molti Cam sono veri agenti farmacologici, e il fatto di non riconoscerlo espone gli atleti al rischio di doping involontario (Koh, Freeman, and Zaslawski 2012).

La pseudoscienza sfrutta speranze e paure – due facce della stessa medaglia – e si nutre anche della disperazione. La mentalità del “vincere a tutti i costi” che domina negli sport ad alte prestazioni espone gli atleti a tutti questi sentimenti. E anche se i più preferiscono approcci scientifici, basta una manciata di individui, specialmente se famosi o stimati, per diffondere disinformazione e consigli errati.

E non c’è dubbio che la cultura dello sport permetta alla pseudoscienza di diffondersi a macchia d’olio, generalmente incontrastata da atleti, allenatori e consulenti scientifici che la giustificano per i suoi tangibili effetti placebo. Il problema è che l’accettazione diffusa dei placebo nello sport non prende assolutamente in considerazione gli effetti che questi prodotti possono avere sulla gente quando cominciano a proliferare nel mainstream. In fondo, è proprio questa la risposta alla domanda: “Che male può fare?”

Nick Tiller

Per gentile concessione della rivista Skeptical Inquirer. Si rimanda all’articolo originale pubblicato in inglese per i riferimenti bibliografici.

Traduzione a cura di Paolo Ferrarini


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