In occasione dell’imminente inizio del prossimo corso di formazione di celebranti laico-umanisti del progetto Uaar Cerimonie Uniche, pubblichiamo questa intervista a Zena Birch, celebrante laico-umanista inglese, che spiega su New Humanist che cosa le ha insegnato riguardo al dolore, alle relazioni e alla vita il condurre cerimonie funebri umaniste. Va da sé che le considerazioni di Zena sono perfettamente in sintonia con quelle del nostro progetto.
Che cosa ti ha spinta a diventare celebrante umanista?
Alcuni anni fa, due amici mi chiesero come regalo di nozze di scrivere e condurre la loro cerimonia di matrimonio. Avevano scoperto che potevano, pagando una tassa, far sì che uno dei loro ospiti avesse autorità legale temporanea in California, dove avevano intenzione di sposarsi… Mentre facevo ricerche su cerimonie e rituali, scoprii come esistano realmente in tutta la storia umana e in tutte le culture, e ciò mi fece pensare a come gli esseri umani debbano averne bisogno in molti modi.
Foto: Samuel Ramos/Unsplash
Al rientro nel Regno Unito, pensai inizialmente di diventare un’ufficiale di stato civile, che ritenevo fosse l’unica opzione non religiosa, ma rimasi molta delusa dalla mancanza di personalizzazione in quelle cerimonie – qualcosa che, stavo imparando, è estremamente importante per le persone coinvolte.
Pochi mesi dopo partecipai a un funerale umanista. Mi sono avvicinata al celebrante e ho chiesto come fosse riuscito a creare qualcosa di così importante e brillante; mi fu risposto che si era formato tramite Humanists UK, e allora mi iscrissi subito al loro corso di formazione.
Com’è stato il processo di formazione?
La formazione è rigorosa e approfondita. Tuttavia, ciò non elimina la tensione nel condurre effettivamente una cerimonia. Questa sensazione non mi ha mai abbandonato e, sebbene ora, a quasi tredici anni di distanza, dia l’impressione di essere completamente calma, sicura e sotto controllo, le farfalle sono sempre presenti nel mio stomaco nei cinque minuti che precedono un matrimonio, un funerale o una cerimonia di benvenuto. Penso che sia essenziale che lo siano: mi ricorda che quello che sto facendo è importante e che farlo al meglio delle mie capacità conta davvero.
Ricordi il primo funerale che hai officiato?
Il primo funerale che ho officiato ha portato con sé una vicenda un po’ assurda che, riflettendoci, mi ha aiutato a dimenticare completamente la mia tensione e a concentrarmi sull’assicurarmi che la famiglia non avesse la minima idea che ci fosse un problema. La defunta, una meravigliosa signora, aveva lasciato solo tre richieste: che si leggesse una poesia; che un’intera banda mariachi suonasse “Gracias a la Vida”, una canzone che era stata importante per lei fin dalla sua infanzia; e che io fossi la celebrante, poiché sapeva che avrei aiutato la sua famiglia ad assicurarsi che riuscissero a ingaggiare una banda mariachi.
La canzone avrebbe dovuto essere suonata alla fine della cerimonia. Solo io e il direttore delle pompe funebri sapevamo che la banda mariachi era bloccata su un treno, incapace di entrare nella stazione nel periodo precedente l’orario fissato per la cremazione. Così vicino, eppure così lontano. Una volta iniziata la cerimonia ho tenuto il telefono silenzioso accanto al mio script sul leggio, in modo da poter vedere un messaggio che mi informava quando finalmente la band era arrivata. Pochi minuti prima del loro ingresso dal retro della cappella, mentre il mio dito si posizionava con riluttanza sulla versione registrata di backup che avevamo scaricato prima dell’inizio della cerimonia, ho letto l’ottimo messaggio sul cellulare: “sono qui!”
Sapevo che Pamela, la signora morta, sarebbe stata raggiante alla lettura di quel messaggio. E così, indossando il cappello e suonando la chitarra in modo magnifico, un’intera banda mariachi è entrata, come previsto, cantando una canzone, davvero molto bella, davanti a un gruppo di amici e familiari del tutto ignaro della quasi mancata partecipazione. I loro cuori erano sollevati. Sapevo quanto fosse importante organizzare un funerale nel modo giusto in quel momento e quanto fosse davvero importante il nostro ruolo di celebrante. Non solo in tutta la preparazione – la guida di una famiglia e i consigli gentili che invariabilmente condividete – ma anche nella necessità di professionalità e di calma “tenuta sotto controllo” durante la giornata.
Durante il viaggio verso casa ricordo di essere stata distintamente consapevole del silenzio dei miei pensieri e delle mie chiacchiere per quasi due ore dopo quella cerimonia. Ricordo di aver notato l’immobilità dentro di me, un’immobilità importante, riflessiva e riparatrice. È quasi un’assenza di sé. Provo questa sensazione dopo ogni funerale e sto ancora cercando di capirla.
Come ci si prepara per un funerale?
Lavoro a stretto contatto con le persone chiave legate al defunto. Trovo il tempo per sedermi con loro, online o di persona, per ascoltare tutto sulla persona che è morta, sulle sue caratteristiche uniche, sulla sua vita e sulle sue relazioni. Cerco di farlo sia per la loro fiducia in me, ma anche per raccogliere molte informazioni fin dall’inizio, per vedere se esistono già piani o istruzioni per il funerale, e soprattutto per lasciare che il loro dolore abbia uno spazio sicuro in cui essere vissuto. Comincio a raccogliere tutti i diversi pezzi di storia di cui ho bisogno per poter creare la cerimonia attorno alla vita e alla persona che è morta, come un arazzo.
Lavoro in un dialogo approfondito con chiunque sia il mio contatto chiave e durante questo periodo spesso possono emergere idee meravigliosamente creative per aiutare a rappresentare la vita della persona. Vengono decisi tutti gli elementi chiave necessari per la cerimonia, che ovviamente possono cambiare da funerale a funerale. Lavoro spesso a stretto contatto anche con i direttori di pompe funebri da loro scelti.
Il giorno del funerale arrivo sempre a destinazione molto presto, così da sentirmi calma, preparata e stabile quando arriva la famiglia. Ho sempre dell’acqua in più. Devo sempre respirare in modo uniforme e con consapevolezza prima di ogni cerimonia per gestire le mie emozioni. È impossibile rimuovere la tua empatia e umanità dall’evento, ma non devi lasciarti andare seguendo le tue emozioni. È un equilibrio sottile e sospetto che passerò la vita cercando di padroneggiarlo.
Quali sono le parti migliori e quelle più difficili di questo lavoro?
La cosa migliore: essere in grado di fare attivamente qualcosa per aiutare le persone in un momento in cui la maggior parte dei gesti di aiuto sembrano ridondanti. Imparare a conoscere la vita degli altri. Aiutare le persone tristi presenti a ricordare quanto fossero grate di conoscere la persona che stanno piangendo. Far ridere e sorridere insieme alle lacrime.
La più difficile: ricordarsi costantemente che, la maggior parte delle volte, la vita non è giusta. Guardare i cuori delle persone spezzarsi apertamente. Gestire complicate dinamiche familiari. Fasce orarie ristrette. Fatti brutali o strazianti legati a determinate circostanze.
Cosa hai imparato svolgendo questi servizi?
Ho imparato che tutti meritano un buon funerale, ma che ciò può manifestarsi in tanti modi diversi. Ho imparato che un funerale è spesso il luogo in cui il dolore inizia il suo vero e proprio viaggio e contribuire a renderlo il più sano possibile, indipendentemente dalle circostanze della morte o dalle relazioni coinvolte, è una cosa potente e importante. Ho imparato che i funerali possono davvero essere una celebrazione, se opportuno. Ho imparato che dovremmo tutti parlare di più dei nostri funerali: sono importanti e penso sempre che sia un peccato prendere decisioni affrettate in mezzo al dolore, quando di molte cose si sarebbe potuto parlare in anticipo.
Hai qualche consiglio per chi pensa di intraprendere questo percorso?
È una professione estremamente gratificante, che però non va intrapresa con leggerezza. Mantenere lo spazio per una qualsiasi delle forti emozioni coinvolte in tutti i riti di passaggio – funerali, matrimoni, naming – può avere un impatto emotivo, psicologico e fisico. Lavorare da soli – come spesso fanno i celebranti nella quotidianità, può richiedere una seria autodisciplina e può farti sentire in difficoltà se in genere lavori collegialmente. Non ci si impratichisce mai abbastanza: ci saranno sempre molti scritti e molti incontri, quindi controlla davvero di essere in grado di poter gestire tutte queste cose prima di intraprendere il percorso per diventare un celebrante. Se decidi di dedicarti a questa attività, preparati ad una ricompensa in termini di ricchezza della vita umana, della storia sociale e della straordinaria comunione delle persone.
Hai qualche consiglio per le persone o i familiari che pensano a un funerale umanista?
Una lettura molto bella è The Little Book of Humanist Funerals (Il piccolo libro dei funerali umanisti). Vi è contenuta davvero una miniera d’oro di informazioni. È un ottimo libro da condividere e utilizzare come inizio di conversazione se si desidera parlare con amici e familiari del tuo funerale (o del loro). È davvero interessante se non hai mai partecipato a un funerale umanista ed è pieno di consigli onesti, aneddoti ed esempi su come affrontare quello che spesso può essere un momento molto difficile. Sono molto orgogliosa di questo libro e di tutti i contributi che abbiamo ottenuto (NdT: Zena ha contribuito alla redazione del libro) da così tanti celebranti, scrittori e pensatori umanisti.
Il mio ultimo consiglio (so di essere di parte, ma con tredici anni di esperienza per sostenerlo) è: se stai pensando di organizzare un funerale umanista, fallo. Una cerimonia umanista non ti deluderà.
Articolo originale pubblicato da New Humanist il 1 settembre 2023 e qui riprodotto su autorizzazione.
Traduzione a cura di Loris Tissino.
È importante che questa possibilità sia pubblicizzata. Certo è che per un prete sia più facile parlare di persone che, nella maggior parte dei casi, non le si è conosciute, neanche tra i parrocchiani. Possono spaziare dal mondo di qui al mondo di là con molta nonchalance, come se ci fossero andati regolarmente.