Anche in anni recenti, dal movimento No Bra Challenge alla Girl in the Blue Bra durante la rivoluzione egiziana, si discute se il reggiseno sia simbolo di oppressione oppure di emancipazione e resistenza. Il professore di scienze politiche François Hourmant ne ripercorre la storia ambivalente e simbolica con un articolo uscito su The Conversation e pubblicato sul numero 5/2023 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Apprezzato da alcune donne per motivi estetici, di comodità o di salute, il rifiuto del reggiseno è divenuto recentemente simbolo di liberazione del corpo al punto da incarnare una forma di empowerment femminile. Non è raro quindi vedere sempre più donne, qualunque sia la stagione, di ogni età e corporatura, bandire questo capo/accessorio dal proprio guardaroba.
Diversi soggetti hanno reso popolare questo fenomeno durante gli anni ‘10 del 2000. Pensiamo al movimento No Bra Challenge (Sfida al reggiseno) nel 2018, ma anche al lavoro della femminista americana Moira Johnston che aveva fatto del seno e del metterlo in mostra una rivendicazione, organizzando una campagna affinché le donne ottenessero il diritto di camminare in topless per le strade di New York senza timore di essere arrestate. Un’aspirazione ripresa dal movimento Free the Nipple (Libera il capezzolo), lanciato nel 2012 da Lina Esco che, nell’omonima docu-fiction, metteva in scena un gruppo di donne che osavano sfilare a torso nudo a New York per mostrare l’assurdità della legge.
Diventando virale, l’hashtag #freethenipple ha favorito la diffusione delle rivendicazioni. In Francia, le Tumultueuses [1] denunciarono l’uso della parte superiore dei costumi da bagno per le donne che, nascondendo il seno, operava per perpetuare un ordine eterosessista. Organizzando “bagni di protesta”, hanno chiesto per le donne il diritto di fare il bagno in topless nelle piscine pubbliche o hanno chiesto agli uomini di coprirsi il petto.
Assurto a vettore de “la libertà conquistata” rispetto al corsetto (questo è in particolare il significato che gli attribuisce lo stilista Paul Poiret che nel 1908 inventò una silhouette fluida, ispirata alle “Merveilleuses du Directoire” [2]) il reggiseno è diventato in occidente, 120 anni dopo, quello dell’oppressione e del dominio patriarcale.
Uno strano voltafaccia che la dice lunga sulla labilità degli oggetti e dei significati annessi, del mutamento degli sguardi e delle pratiche nonché della natura delle mobilitazioni e dei valori che le sottendono.
Dal corsetto al reggiseno
La storia dell’intimo femminile, e in particolare il passaggio dal corsetto al reggiseno, ci racconta di una graduale emancipazione: quella di una trasformazione delle costrizioni che rinserravano i corpi delle donne, quella dell’appropriazione di sé, tra flessibilità e fluidità, in un rinnovato immaginario di libertà conquistata.
Come sappiamo, corsetti e crinoline contribuirono alla fine dell’ottocento alla divisione dei sessi, operando per favorire una figura arcuata e “a clessidra” che stringeva la vita per far sporgere i seni e i fianchi. Si fissava un immaginario dove il corpo femminile era soffocato e costretto da una camicia di forza che funzionava come un tutore.
Ciò era anche parte di un’economia dei corpi inseparabile da logiche mondane di distinzione sociale e patrimoniale. Esplicitamente progettati per ostentare il loro costo e attirare l’attenzione, gli abiti femminili (corsetti compresi) testimoniavano questo dominio maschile, sia economico che sociale, attraverso la mediazione del consumo ostentativo di cui le donne, mantenute in una vita oziosa e vestite con abiti costosi e ingombranti, erano l’espressione.
Interazioni sociali e territorio del sé
Ma fin dall’inizio della Belle Époque prende corpo un movimento di rifiuto nei confronti del corsetto sotto il triplice impulso della moda, del sapere medico – che invita a prendere coscienza delle deformazioni che produce – e delle femministe che ne richiedono l’abolizione o l’adattamento al corpo femminile. Il corsetto fu gradualmente sostituito all’inizio del XX secolo dall’architettura più flessibile del reggiseno (il cui primo brevetto fu depositato nel 1898).
Quest’ultimo ispira rappresentazioni più sportive, anche se continua a evidenziare (addirittura amplificare) le curve, attraverso un gioco ambivalente di esposizione/nascondimento. Prima ancora di essere modellante o push-up, il reggiseno ridisegna sempre le figure, combatte la morbidezza della carne e raddrizza il petto, assicurando la perpetuazione di un’erotologia che esalta il seno e fissa durevolmente gli stereotipi di genere. La libertà di movimento non è necessariamente sinonimo di liberazione dei corpi.
Al di là della sua presunta funzionalità, questo “indumento di confine” delimita i contorni di questo “territorio del sé” e costruisce le identità (di genere). Il più delle volte invisibile, a volte incluso in strategie di auto-presentazione e seduzione (attraverso lo svelamento più o meno controllato di una cinghietta o di un pizzo), il reggiseno costituisce un coadiuvante in queste coreografie del quotidiano, quelle che marcano, codificandole, le ordinarie interazioni sociali. Diventa anche, nei lunghi anni sessanta, un simbolo sociopolitico: quello dell’emancipazione delle donne.
Brucia-reggiseni e bidoni della libertà
Una sequenza memorabile ha dato vita a una mitologia ampiamente pubblicizzata dai media: quella delle “brucia-reggiseni”. Durante la manifestazione organizzata nel 1968 ad Atlantic City contro l’elezione di Miss America, 400 femministe gettarono in un “bidone della libertà” oggetti che simboleggiavano “gli strumenti di tortura delle donne” tra cui guaine, bigodini, ciglia finte, parrucche e reggiseni.
Tra storia e memoria, l’episodio è diventato emblematico della lotta condotta dalle femministe americane e il reggiseno è la figura metonimica di questo corpo problematico, insieme desiderato, erotizzato, sessualizzato, oppresso, abusato e/o reificato dal desiderio maschile e dalla sua sessualità egemonica.
Il contesto non era irrilevante. L’avvenimento ebbe luogo durante uno di quei concorsi di miss che, con la loro tendenza a definire i canoni accettabili e desiderabili del corpo femminile, sarebbero diventati il bersaglio di queste contestazioni poiché accusati di veicolare una visione sclerotica, mutilante e stereotipata delle donne.
Anche questa sfida faceva parte dell’orizzonte delle aspettative di quel tempo. Uno degli slogan più famosi del maggio 68 – «Vivere senza tempi morti. Godere senza impedimenti» – ben riassumeva lo spirito antiautoritario e libertario degli anni ‘60. Questa aspirazione all’emancipazione si traduceva in una feroce volontà di liberare i desideri, essa stessa inseparabile dalla politicizzazione dei corpi.
Labilità del simbolo e inversione di significato
Trasgressivo, questo rifiuto del reggiseno lo è ovviamente rispetto al contesto: quello di un conservatorismo sociale e di un moralismo ambientale allora prevalenti nei paesi occidentali. Il decentramento geografico e culturale è tuttavia necessario giacché rende visibile la differenza delle pratiche nonché l’antinomia delle letture del mondo sociale che se ne possono fare.
Se in occidente il seno scoperto era percepito come simbolo di emancipazione sessuale e di provocazione, altrove, come in Mali, non era necessariamente così:
«Non c’era niente di straordinario per una donna maliana a essere in perizoma, a petto nudo sulle rive del Niger. L’adozione del bikini da parte delle ragazze è stata molto più sovversiva. […] Negli anni ‘70, le giovani donne maliane si impossessarono del reggiseno, esibirono questo attributo di moda dotato di un significato emancipatorio, mentre le francesi se ne sbarazzavano».
In modo analogo, stigmatizzato dalle femministe americane, il reggiseno è riapparso sulle passerelle delle sfilate di moda negli anni ‘80, quando degli stilisti trasgressivi si sono imposti rimescolando le regole. Nelle collezioni di Vivienne Westwood o di Jean-Paul Gaultier, i reggiseni sono esibiti in modo aggressivo, ironico e iconico sopra gli abiti, in un forte revival dell’estetica trash e carnevalesca del movimento punk.
Infine, e controcorrente rispetto al movimento No Bra, un reggiseno sarebbe stato di nuovo reinvestito politicamente durante la rivoluzione egiziana del 2011. Una scena diventata rapidamente virale mostrava una giovane donna velata, aggredita il 17 dicembre 2011 in piazza Tahrir dai soldati antisommossa. Trascinata a terra per diversi metri prima di essere lasciata inanimata, a torso nudo, la sua abaya sollevata esponeva alla vista il suo reggiseno blu.
Un graffito dell’artista Bahia Shehab ha reso popolare questa Girl in the Blue Bra (Ragazza in reggiseno blu) e ha innalzato questo capo del guardaroba femminile a simbolo della resistenza dal basso condotta dalle donne egiziane contro l’oppressione.
All’inizio del 2012, un gruppo di attiviste di Anonymous (AnonTranslator) ha lanciato l’operazione “Blue Bra Girl”, invitando le utenti di internet a mostrare la loro solidarietà alle donne egiziane fotografandosi con un reggiseno blu, operando un radicale capovolgimento delle regole e dei significati associati a questo elemento della cultura materiale.
Articolo originariamente pubblicato sul sito The Conversation alla pagina go.uaar.it/ctwgaqh.
François Hourmant
Traduzione a cura di Leila Vismara
Approfondimenti
- Les Tumultueuses (Le Tumultuose) associazione che si propone di combattere l’oppressione di ogni tipo: sessismo, classismo, razzismo, eccetera – NdT.
- Merveilleuses (Meravigliose) sono le esponenti di una moda della Francia del Direttorio caratterizzata da lusso e stravaganze esibiti nell’abbigliamento e nella condotta, in reazione ai tristi tempi del Terrore – NdT.
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Evidentemente nessuno ricorda mai il vecchio detto: il corpo di una donna attira non tanto per quello che fa vedere,ma per quello che lascia indovinare !
Cosi come nessuno si rende conto che siccome la natura umana non cambia,il “vecchio detto” ha conservato TUTTA la sua validita !
Senza contare che e’ sempre piu’ diffusa la pratica di attivita sportive da parte di donne,e un seno “ballonzolante” credo che nella maggior parte dei casi sarebbe un impiccio non trascurabile,tanto che atlete di alto livello arrivano a farselo “ridurre” chirurgicamente,una soluzione che non credo riscuoterebbe il favore della maggioranza.