Il regista cileno Pablo Larraín con il film “El Conde” reinterpreta in veste vampiresca il dittatore Pinochet analizzando il potere e la corruzione umana (anche quella del clero). Micaela Grosso ne scrive sul numero 6/2023 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Chiunque conosca il lavoro di Pablo Larraín saprà che il regista cileno ha abituato il pubblico a una rilettura originale dei personaggi storici attraverso il suo lavoro cinematografico. Da Neruda a Jackie e Spencer, Larraín ha dimostrato un’abilità straordinaria nel trasformare le vite di figure famose in esplorazioni cinematografiche di grande tensione e drammaticità.
Non si deve dimenticare che Larraín è stato, nel 2015, anche il regista de Il Club, un dramma psicologico incentrato sul tema dell’impunità all’interno del clero cattolico. Ambientato in un remoto villaggio costiero cileno, il film raccontava di una comunità di preti cattolici espulsi dalla Chiesa a causa dei loro oscuri peccati e dei loro segreti inconfessabili.
Con Il Club Larraín presentava una critica acuta alla chiesa cattolica, esponendo le putride verità secretate sotto il comodo manto della religione. Tramite il film, il regista sollevava domande scottanti sulla colpa, la redenzione e la moralità, portando allo scoperto l’ipocrisia di coloro che, a propria detta, dovrebbero rappresentare la purezza e la spiritualità e incentivando il pubblico a riflettere sulla garanzia di esenzione dalla pena per il clero e sulla sua responsabilità morale.
Nel suo ultimo film, El Conde, presentato al Festival del cinema di Venezia 2023, Larraín è tornato ad affrontare un’altra figura storica, ma questa volta condendola con satira ed elementi horror. El Conde tratteggia, infatti, un Augusto Pinochet piuttosto diverso da come lo si conosce dal punto di vista storico.
Ricordiamo che il dittatore cileno, responsabile del brutale regime autoritario militare che ha oppresso il suo Paese per quasi due decenni, intrattenne rapporti putridi con la Santa Sede per sbarazzarsi di chi, all’interno della Chiesa, remava contro le violazioni dei diritti umani da lui perpetrate e si guadagnò il sostegno del defunto Giovanni Paolo II, immortalato in una celebre foto dal balcone della Moneda passata alla storia – e ripudiata da Wojtyla con la giustificazione di un inganno subito dal dittatore.
Nella pellicola, Pinochet viene ritratto come un vampiro di 250 anni. Questa scelta, a tratti comica e in ogni caso audace, permette a Larraín di esplorare concetti come potere, fascismo e corruzione attraverso la lente sovrannaturale del sottogenere horror.
L’idea di base di El Conde è affascinante: un Pinochet vampiro che, dopo la sua presunta morte nel 2006, continua a vagare nel mondo in cerca di sangue umano. Come è stato osservato, la natura vampiresca del dittatore, immortale e inscalfibile dal tempo, costituisce un’allegoria del male e dei crimini perpetrati negli anni dall’uomo ed è rappresentata come una condanna eterna alle generazioni cilene in virtù di una metaforica, insaziabile sete di sangue.
Il film gioca, in modo cupo e sagace, con concetti come il dispotismo, i rapporti familiari e sociali, le scelte politiche. Le battute sottili, i momenti di dialogo enigmatico e le inquadrature dilettevoli offrono un umorismo profondo e riflessivo, ma al contempo divertente e impegnato.
El Conde non è però solo una commedia intelligente; è anche un film visivamente straordinario. La scelta di girare in bianco e nero crea un’atmosfera carica di tensione e drammaticità, trasmettendo un sentimento angoscioso e onirico che permea l’intera storia. Il lavoro di Ed Lachman alla fotografia offre una cornice toccante e altamente drammatica, creando immagini che, anche nelle scene più cupe e sanguinolente, paiono opere d’arte.
Tuttavia, come spesso accade per i prodotti inconsueti, non mediocri e contraddistinti da una certa qualità, El Conde è probabilmente un film non facilmente vendibile al vasto pubblico, nonostante sia stato da poco reso disponibile su Netflix. Il ritmo, tanto per cominciare, è piuttosto lento; alcune scelte stilistiche risultano retró e visionarie, ammantate di un surrealismo a dir poco stravagante.
Il film serve in tavola, insomma, sapori non adatti a ogni palato. La trama si avvia introducendo il conte Augusto Pinochet, vampiro ormai decrepito e stanco che non è più il dittatore tirannico di un tempo. Un narratore britannico fuori campo, che diventerà cruciale nella trama, racconta la storia del conte, dalla sua giovinezza da vampiro in Francia fino al suo regno del terrore in Cile.
Il conte non è mai trapassato, è anzi “non morto” e vive oggi isolato con la moglie Lucía e il maggiordomo Fyodor. La loro tranquillità viene turbata dall’arrivo di Carmen, una contabile-suora con un piano segreto per purificare l’anima del conte e liberare il mondo dal male. Anche in questo caso, Larraín non perde occasione per sferrare una critica all’integrità del clero e restituisce un ritratto piuttosto traballante della fede della giovane esaltata, la cui trasgressione le saprà far spiccare, letteralmente, il volo.
Com’è immaginabile, El Conde non pretende di esaurire o di costituire una fedele rappresentazione storica, ma si serve strumentalmente della figura del dittatore, riducendolo all’immagine di un anziano piuttosto ridicolo in tuta da ginnastica che si trascina lentamente per casa con velleità suicide e che ha per questo sospeso il consumo di sangue umano.
Larraín presenta un essere codardo che ha, per tutta la sua vita, inscenato ripetutamente la propria morte per poter cambiare aria, intenzionato a spargere violenza altrove, e che ora è ridotto all’ombra di sé stesso, assediato dai propri figli desiderosi di ereditarne gli averi.
Larraín esplora di fatto profondamente il concetto di avidità umana e il desiderio insaziabile di potere e ricchezza, rappresentati metaforicamente dalla sete di sangue del dittatore. Il sangue stesso è l’elemento che può assicurargli, d’altro canto, perpetua gioventù e costante rinascita le quali rappresentano la crudeltà sempiterna, l’impunità e la malevola persistenza dell’orrore.
Il monito è, forse, quello di un regista che pone l’accento sulla continua risurrezione del male; non importa quante false identità si possano adottare e quanto innocue possano esse apparire, la violenza fascista e la dittatura sono subdole e si nascondono benissimo, specie dietro a una maschera di gioventù e alla “vita eterna”.
Micaela Grosso
Approfondimenti
- Wikipedia: go.uaar.it/hgrt099
- Articolo su La Stampa
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Spero che prenda il posto di ‘Una poltrona per due’ a natale. Magari per sempre… 😛