A Sarajevo, dopo le devastazioni della guerra negli anni Novanta, gli investimenti dal mondo arabo hanno favorito la ricostruzione ma pure una crescente islamizzazione. Arianna Tersigni affronta il tema sul numero 6/2024 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Situata nel cuore dei Balcani, Sarajevo conta più di 300.000 abitanti; è adagiata in una valle circondata da montagne, la più elevata delle quali – il picco della catena Treskavica – supera i 2.000 metri di altezza, ed è divisa in due parti dal fiume Miljacka che percorre il centro cittadino. Proprio a Sarajevo, il 28 giugno 1914, l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero austro-ungarico, venne ucciso in un attentato che segnò simbolicamente l’inizio della prima guerra mondiale.
Appena ottant’anni dopo, la città si trovò nuovamente al centro di una guerra, quella scoppiata a seguito della dissoluzione della Jugoslavia. Durante questo conflitto Sarajevo subì uno degli assedi più lunghi nella storia contemporanea, durato 1.425 giorni, dall’aprile del 1992 al febbraio del 1996, costando alla città più di 12.000 vittime, la maggior parte delle quali civili.
Raccontare Sarajevo esclusivamente attraverso gli eventi bellici passati è tuttavia estremamente riduttivo e contribuirebbe soltanto a perpetuare la superficiale e semplicistica narrativa della polveriera balcanica. Sarajevo vanta infatti una storia complessa e interessante e può essere considerata la città multiculturale e cosmopolita per eccellenza del continente europeo; religioni e culture diverse qui si sono incontrate e hanno creato una coabitazione secolare per lo più armonica. La conformazione della città e la sua peculiare architettura sono lo specchio di diverse epoche storiche che la capitale ha attraversato.
Dal quindicesimo al diciannovesimo secolo la città fu sotto il controllo ottomano; durante questo periodo venne edificato il centro storico che nel tempo ha mantenuto perfettamente intatto il suo impianto distintamente orientale. La città vecchia è infatti un gioiello unico in Europa e passeggiando per le sue strette vie, sulle quali si affacciano bazar e moschee, si ha la sensazione di essere stati catapultati in Turchia. Tuttavia, appena usciti da questi colorati vicoli, ci ritroviamo immersi nella Sarajevo austro-ungarica.
Nonostante la breve durata della dominazione asburgica, instaurata alla fine del diciannovesimo secolo e terminata definitivamente con il concludersi della prima guerra mondiale, le impronte architettoniche lasciate sono significative. Risalgono a questo periodo infatti numerosi edifici sul lungofiume e negli immediati dintorni, alcuni dei quali ospitano importanti luoghi istituzionali e di cultura come il palazzo di giustizia, il teatro nazionale e il municipio.
Durante l’occupazione austro-ungarica vennero inoltre erette la cattedrale cattolica del Sacro Cuore e la sinagoga askenazita. La cattedrale ortodossa serba fu invece edificata alla fine del periodo di dominazione ottomana. Al periodo della Federazione jugoslava, protrattosi dalla fine della seconda guerra mondiale fino all’inizio degli anni novanta, si deve infine lo sviluppo della città verso ovest, in una zona denominata appunto città nuova e caratterizzata principalmente da uno stile architettonico socialista.
Nel quasi mezzo secolo di regime di Tito venne privilegiata la costruzione di edifici che rispondessero all’emergenza abitativa creatasi a seguito dell’industrializzazione della città, che portò la popolazione cittadina ad aumentare esponenzialmente, superando il mezzo milione di abitanti negli anni ottanta. Innumerevoli palazzi alti in cemento vennero innalzati nei nuovi quartieri, cambiando il profilo urbano della città.
Risalgono a questi anni inoltre la costruzione della sede dell’attuale parlamento nazionale e le varie strutture erette in occasione dei Giochi olimpici invernali che Sarajevo ospitò nel 1984, come per esempio il celebre hotel Holiday Inn. Anche la guerra consumatasi trent’anni fa ha lasciato segni ancora ben visibili; camminando per la città non è raro incontrare edifici che presentano tuttora fori provocati dai proiettili lanciati dai cecchini, appostati sulle montagne circostanti, che presero di mira Sarajevo e i suoi cittadini. Tra gli edifici che furono distrutti, non tutti sono stati ricostruiti; ancora oggi quelle rovine testimoniano la ferita lasciata da un conflitto che nella memoria degli abitanti fa fatica a rimarginarsi del tutto.
L’assetto urbano e architettonico di Sarajevo racconta e ripercorre le varie tappe della storia della città. Eppure, tra il ponte Latino che fu teatro dell’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando e il grande viale Zmaja od Bosne (Drago della Bosnia) che durante la guerra civile fu bersagliato ininterrottamente dai cecchini, qualcosa di curioso salta all’occhio: si tratta della presenza di alti edifici in vetro – per lo più grattacieli – che ricordano quel paesaggio urbano tipico di città artificiali come Dubai e Riyad.
Quello che si cela dietro la comparsa di questi lussuosi edifici sono investimenti esteri – provenienti soprattutto da imprenditori arabi del Golfo – che dagli anni successivi alla fine della guerra e seguendo una crescita esponenziale hanno interessato la capitale della Bosnia ed Erzegovina.
Questa sempre più capillare presenza di capitale straniero non soltanto ha dato vita a un nuovo boom edilizio ma sta pian piano mettendo in atto importanti cambiamenti nella società locale, all’interno della quale la religione islamica – storicamente professata dalla maggioranza dei cittadini – sta assumendo dei tratti sempre più radicali. Un radicalismo al quale i cittadini musulmani della Bosnia, soprattutto delle aree urbane, sono storicamente estranei, motivo per il quale è stata possibile una pacifica convivenza secolare tra musulmani, cristiani ed ebrei nella regione.
Dalla fine degli anni novanta numerosi imprenditori arabi della regione del Golfo hanno portato avanti importanti investimenti del valore di miliardi di euro nella capitale bosniaca; comprando porzioni di terreno più o meno estese a prezzi ridotti, vi hanno edificato moschee, centri culturali, ospedali, centri commerciali, strutture di ricezione turistica e immobili residenziali di lusso, contribuendo inoltre alla creazione di numerosi posti di lavoro per la popolazione locale.
La maggior parte delle compagnie – alcune private, altre statali – ad aver investito nella regione provengono dagli Emirati Arabi Uniti. Tra gli altri Paesi si contano l’Arabia Saudita, il Kuwait, il Qatar e la Giordania. Nel 2000 fu completata la costruzione della moschea di Re Fahd a Sarajevo – la più grande di tutto il Paese – interamente realizzata con finanziamenti provenienti dall’Arabia Saudita. Nel 2016 è iniziata la costruzione della città turistica Buroj Ozone da parte dell’impresa Buroj International Group con sede a Dubai, che ha stanziato più di due miliardi di euro per la realizzazione di questo villaggio turistico di lusso nella piccola municipalità di Trnovo, a 20 chilometri di distanza da Sarajevo.
Il progetto di Buroj Ozone includerebbe un centro commerciale, un ospedale, numerosi hotel, resort e ville e vari centri sportivi e ricreativi. La compagnia saudita Al Shiddi Group ha completato nel 2014 la costruzione nel cuore di Sarajevo del complesso Sarajevo City Center, che comprende un centro commerciale (al cui interno si contano all’incirca 80 negozi, 15 ristoranti e varie sale giochi), degli uffici commerciali e un hotel a 5 stelle nel quale non viene servita alcuna bevanda alcolica.
Di pari passo con i crescenti investimenti è stato registrato anche un aumento esponenziale del turismo proveniente dai Paesi arabi del Golfo, facilitato dall’eliminazione delle restrizioni in materia di visto (i cittadini di Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Kuwait, Oman e Qatar possono entrare in Bosnia ed Erzegovina liberamente) e dall’apertura di voli diretti tra gli aeroporti di questi Paesi e Sarajevo. Se nel 2010, per esempio, i turisti provenienti dagli Emirati Arabi Uniti erano appena 65, nel 2019 ne furono registrati 33.000. La Bosnia costituisce in tutto e per tutto un’alternativa economica e logisticamente accessibile rispetto al resto d’Europa per i cittadini provenienti da questi Paesi.
Alla luce di questi dati una domanda sorge spontanea: come è stato possibile che in un periodo relativamente breve di tempo diverse compagnie del Golfo abbiano scelto proprio la Bosnia come destinazione dei loro cospicui investimenti? Una prima spiegazione ci viene illustrata dalla situazione economica del Paese.
La Bosnia ed Erzegovina fu estremamente provata dagli anni della guerra civile, con conseguenze disastrose che si protraggono fino a oggi: l’economia post-bellica a pezzi stenta ancora a rialzarsi, gli assetti politico e istituzionale sono estremamente instabili e un’elevata corruzione dilaga in vari settori del Paese. Ogni anno sono sempre più i cittadini – per lo più giovani – che lasciano il Paese per la mancanza di posti di lavoro e salari adeguati; è stimato che tra il 2013 e il 2019 più di mezzo milione di bosniaci siano emigrati. Data questa precaria situazione economica, appare evidente quanto la Bosnia abbia un disperato bisogno di investimenti esteri, con la speranza che diano una volta per tutte una nuova spinta all’economia.
Oltre al fattore economico, però, un altro elemento risulta fondamentale nello spiegare questa importante ondata di investimenti: il comune denominatore della religione islamica. La presenza della religione musulmana nella regione risale all’epoca ottomana. A oggi, il 51% della popolazione nazionale è di fede musulmana; questa può sembrare una percentuale bassa, ma è importante tenere in considerazione che la parte musulmana del Paese – comprendente il cantone di Sarajevo – è solo una delle tre che lo costituiscono. Le altre due parti sono quella serba, a maggioranza ortodossa, e quella croata, a maggioranza cattolica.
Proprio il peculiare contesto della Bosnia ed Erzegovina ha fatto sì che la popolazione adottasse un islam secolare, distante dagli usi e costumi della maggior parte degli altri Paesi a maggioranza musulmana. Un grande ruolo nel modellare questa singolare forma di islam venne senz’altro giocato dai decenni di regime comunista della Jugoslavia.
La maggior parte dei bosniaci musulmani consumano alcol e tabacco, la carne di maiale è presente regolarmente nei negozi di alimentari e soltanto una bassa percentuale di donne indossa il velo. Molti bosniaci si professano musulmani ma non necessariamente sono praticanti. L’islam in Bosnia è sinonimo di identità nazionale; questa associazione tra religione e nazionalismo venne rafforzata a seguito dello scoppio della guerra e ha da allora avuto un ruolo fondamentale nell’esasperare le divisioni tra i popoli della penisola balcanica che fino a trent’anni fa vivevano sotto il medesimo assetto statale.
Alla luce di ciò, la presenza sempre più diffusa delle attività di imprenditori del Golfo – i cui Paesi si caratterizzano per una forma di islam più tradizionale – nei cantoni a maggioranza musulmana della Federazione bosniaca, accompagnata da una nuova vitalità assunta dalla religione musulmana a seguito della guerra civile, potrebbero impattare la società locale portando alcune fette di essa ad adottare degli elementi familiari alle forme di islam più radicali.
Non pochi bosniaci hanno espresso timore sul fatto che la crescente influenza araba possa portare a un’imposizione di pratiche religiose e usi e costumi più conservatori e avere un impatto culturale significativo. Dagli anni novanta a oggi i gruppi radicali musulmani hanno costituito una realtà – seppur in crescita – tuttavia marginalizzata.
Questa radicalizzazione potrebbe però prendere sempre più piede poiché, parallelamente a investimenti economici, molti Paesi arabi stanno finanziando scuole, centri culturali e moschee, luoghi ideali per far circolare materiale e letteratura di propaganda religiosa. La religione sta subendo un lento spostamento di posizione, da affare privato a questione sempre più presente nella sfera pubblica. Organizzazioni religiose sponsorizzate da arabi conducono attività indirizzate per lo più ai giovani, organizzando per esempio seminari, conferenze e addirittura ritiri annuali volti a promuovere l’islamismo.
Il fattore della religione comune è stato considerato, forse fin troppo superficialmente, come elemento sufficiente per instaurare dei rapporti economici di successo e proficui nel tempo. Ma la religione da sola si sta dimostrando un collante debole. Molti studiosi stanno mettendo in luce i limiti di questi investimenti e un loro probabile fallimento, dal momento che i cittadini bosniaci non hanno le risorse economiche necessarie per comprare le lussuose e moderne ville sulle alture intorno a Sarajevo; un’attività imprenditoriale senza controllo è stata messa in atto senza tenere in considerazione se a questa sarebbe corrisposta una risposta economica positiva da parte della popolazione locale.
Oltre a ciò, importanti differenze culturali hanno fatto sì che due mondi diversi – seppur entrambi appartenenti alla sfera musulmana – facciano ancora fatica a entrare in contatto tra loro. Non si possono cancellare secoli di tradizioni e pratiche culturali in meno di trent’anni.
Resta tuttavia il quesito aperto di una possibile radicalizzazione religiosa: se ciò avvenisse, questo piccolo angolo di Europa costituito da Sarajevo e dalla Bosnia dovrebbe affrontare conseguenze sgradevoli in relazione al rapporto con le due altre parti del Paese, quella serba e quella croata, e possibilmente ritrattare i negoziati in corso per l’entrata nell’Unione Europea.
Arianna Tersigni
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