La Chiesa scopre il kawaii e il giubileo ha la sua mascotte anime: Luce, la bambina pellegrina. Tra meme e imbarazzi, il Vaticano capitola al pop. Se il colpo vi ha lasciati storditi, niente paura: Paolo Ferrarini ne parla (e ne ride) sul numero 1/2025 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Non è da oggi che la Chiesa cerca di sedurre giovani disinteressati alla religione cambiando il proprio linguaggio anziché i propri contenuti, ma quando l’arcivescovo Fisichella il 28 ottobre scorso ha improvvisamente sganciato in conferenza stampa una mascotte in stile anime giapponese per il Giubileo 2025, ispirata – nelle sue parole – «al desiderio della Chiesa di vivere all’interno della cultura pop tanto amata dai nostri giovani», l’effetto è stato un po’ spiazzante, quello di una cosa random che perde senso perché forzosamente trapiantata fuori dal suo contesto, facendo esplodere il mondo dei social in un grande «Ma perché?».
Luce è la raffigurazione di una gioiosa bambina/bambolina pellegrina caucasica dai capelli turchese, occhioni blu esagerati con riflessi a forma di conchiglia, un ingombrante rosario al collo, stivali da acqua alta infangati. Il vistoso impermeabile giallo canarino in cui è avvolta e incappucciata porterà i giovani tanto amanti della cultura pop contemporanea a immaginare che il suo impervio cammino verso l’eternità passi, più che dalla porta santa in Vaticano, dalle fogne di Derry, nel Maine.

La bizzarra opera è stata commissionata al designer Simone Legno, cofondatore del marchio Tokidoki, azienda coerentemente specializzata in unicorni e altri irresistibili personaggi di fantasia.
Se da una parte è facile fare ironia e sfornare vagoni di meme su questa operazione dalle connotazioni esilaranti, è altresì comprensibile l’imbarazzo e il disagio manifestato da coloro che al contrario prendono la religione molto sul serio, associandola a tutt’altro immaginario, i quali lamentano l’infantilizzazione del credente attraverso le sembianze di Luce, che sono lontane anni… luce dalle raffigurazioni più tradizionali che si trovano ad esempio sui santini o, al massimo dell’allegria, nell’oggettistica kitsch.
Tuttavia, si può sostenere che l’elemento di critica più interessante non sia di per sé questo aspetto di infantilizzazione: del resto è il cristianesimo stesso che parla dei propri credenti in termini di pecore e figli (di Dio) che non faranno mai l’upgrade a genitori, ossia a persone adulte e moralmente responsabili delle proprie azioni, al di fuori delle – queste sì, infantilizzanti – logiche di premio-punizione.
No, l’aspetto più intrigante della faccenda è che quando si parla di manga e di anime, non si fa semplicemente riferimento a uno stile, ma bensì a un’intera cultura, per molti versi antitetica a quella promossa dalla tradizione cattolica, e a un esercizio di soft-power fortemente in competizione per il dominio globale; in questo senso, si può dire che il debutto di Luce alla fiera del fumetto e dei videogiochi Lucca Comics rappresenti il giorno in cui la Chiesa è ufficialmente capitolata al kawaii.
La parola kawaii, usatissimo vezzeggiativo giapponese che si può tradurre più o meno come “carino, grazioso, adorabile”, sembra incapsulare sempre di più lo spirito dei tempi, una cultura giovanile che sta passando gradualmente dalla ricerca di tutto ciò che è cool alla ricerca di tutto ciò che è cute.
Fenomeno particolarmente evidente in Asia, dove la kawaiizzazione dell’intera società, da Singapore a Taiwan, dalla Corea alla Cina, è a uno stadio estremamente avanzato. Dalla hellokittizzazione delle livree degli aerei, all’emojizzazione di cartelli, avvisi pubblici e segnali stradali, alla pokemonizzazione delle confezioni dei prodotti, in questi Paesi quasi tutto il rappresentabile è ormai rappresentato nello stile carino e adorabile dei manga.
È capitolato l’esercito, i cui uffici raffigurano i militari come giocosi imberbi in colorate uniformi e armi che sembrano pronte a sparare cuoricini; è capitolata la polizia, che minaccia manette e sanzioni con allegri personaggi dei cartoni animati. Viene da chiedersi se in qualche braccio della morte abbiano cominciato a installare adorabili sedie elettriche a forma di Pikachu.
Il culto del kawaii ha radici lontane nella cultura nipponica, che nel miniaturizzare le cose, vedi bonsai e haiku, dimostra la propria propensione a idealizzare tutto ciò che è piccolo e in quanto tale capace di suscitare contemporaneamente istinti di possesso e desiderio di protezione e cura.
Antecedenti storici risalgono già all’anno 1000, con Note del guanciale, un’opera letteraria in cui Sei Shonagon, poetessa e dama di compagnia dell’imperatrice Teishi, uccide la noia della vita di corte catalogando, in una prosa leggera, giocosa e raffinata, i suoi fugaci incontri con bambini, animaletti e piccoli oggetti che le fanno tenerezza.
Articolando poeticamente questo tipo di estetica, Sei contribuisce a creare un template di elementi e caratteristiche da contemplare, quasi delle linee guida che durano nel tempo: ancora oggi, come in epoca Heian, l’apprezzamento di quelle stesse graziose minuzie della vita quotidiana è considerato un rimedio contro la noia, la depressione e le frustrazioni lavorative.
A livello raffigurativo, i rotoli del Chōjū-jinbutsu-giga (Caricature di animali e persone) del XII secolo sono considerati gli antenati dei manga moderni. Si tratta di scene di rane, scimmie e conigli antropomorfi che partecipano allegramente a cerimonie religiose, giochi o combattimenti, disegnati con tratti semplici ma in grado di comunicare dinamica e movimento, ed espressioni facciali esagerate per ottenere effetti di umorismo e giocosità.
Anche se in queste raffigurazioni è presente un intento satirico e dissacrante, bisogna però ricordare che in Giappone la religione ha tradizionalmente incorporato elementi di giocosità. L’idea di intrattenere, oltre che di adorare, gli dèi, esiste fin dai tempi antichi, e nei templi non è insolito imbattersi in elementi kawaii, come figure di gattini, origami di piccioni, o anche amuleti di Hello Kitty. Accade pure che bambole, giocattoli, o robot come i cagnolini Aibo ricevano funerali religiosi e monumenti dove andarli a pregare.
Tutto il contrario della sensibilità cristiana, che nell’arte stigmatizza come pagane le frivolezze che non hanno a che vedere con la gravità, la sacralità, l’eternità, la trascendenza del divino. Per trovare nell’Europa medievale qualche elemento che riecheggi vagamente la sensibilità per il kawaii bisogna probabilmente cercare nei manoscritti delle biblioteche qualche piccolo animaletto o mostriciattolo abbozzato furtivamente a margine da amanuensi annoiati.
Grossa parte del fascino e del valore del bello, per i giapponesi, è legata poi all’impermanenza delle sue caratteristiche. Si pensi alla famosa fioritura dei ciliegi in primavera, che è il simbolo nazionale dell’amore idealizzato per tutto ciò che è destinato a cambiare e a decadere in fretta.
Lo stesso vale per gli occhioni, le guanciotte paffute, le testoline rotonde, le gambette corte dei bambini: tutti elementi che entrano prepotentemente nell’arte per poterli catturare, apprezzare e celebrare prima che il tempo li cancelli. Intanto, in Europa, dell’impermanenza si preferisce celebrare il lato oscuro, con l’esposizione di cadaveri, mummie, scheletri e reliquie varie.
Per arrivare a un’estetica del “carino” in occidente, a parte qualche oasi nel deserto come la moda dei putti, bisogna sostanzialmente aspettare fino alla fine del XIX secolo, quando si assiste a una reciproca contaminazione di tecniche e motivi fra i due mondi. Artisti come Monet, Degas, Van Gogh, Whistler, Tissot e Klimt contribuiscono con alcune loro opere a far esplodere la moda del Giapponismo, il culto un po’ bohémien del Sol levante.
Ma le lenti fortemente orientalistiche attraverso cui questa estetica viene filtrata fanno sì che il mondo del kawaii rafforzi stereotipi e istinti razzisti nei confronti dei giapponesi, paternalisticamente visti ora come un popolo di eterni fanciulli, adorabili nei connotati, innocenti, che vivono in un eden d’oriente a contatto con la natura.
Il tutto però all’interno del più ampio contesto del cosiddetto “pericolo giallo”, la generale diffidenza nei confronti dei popoli dell’estremo oriente con cui per esempio le amministrazioni americane dell’epoca giustificano le discriminazioni nei confronti degli immigrati asiatici.
Ironicamente, nel secondo dopoguerra, sarà il Giappone stesso a riesumare strategicamente questo stereotipo, facendo leva sulle più moderne versioni del kawaii e le nuove tecniche di distrazione di massa per distogliere l’attenzione a suon di manga e anime dalla perversa crudeltà delle nefandezze compiute dall’impero nipponico. Nel ripresentarsi al mondo con un’immagine di fanciullesca innocenza, i giapponesi si sono forse addirittura autoconvinti di non dover crescere e assumersi fino in fondo la responsabilità di efferati crimini di guerra che rimangono tutt’oggi legalmente e storicamente inelaborati.
Nel frattempo, in occidente, complice il graduale cambio di paradigma nella concezione del bambino – da asset da sfruttare nel lavoro contadino e industriale a costoso e inutile oggetto di idolatria domestica – con il ‘900 comincia a cambiare anche l’estetica di giocattoli, bambole, orsacchiotti e personaggi di fantasia, tutto all’insegna della neotenia, ossia della ritenzione delle fattezze più buffe e carine dell’infanzia anche nell’età adulta.
Senza arrivare agli esagerati connotati neotenici dei personaggi manga/anime giapponesi, caratteristiche perfezionate da designer e fumettisti come Yumeji Takehisa, Junichi Nakahara, Rune Naito e Osamu Tezuka, si nota come i lineamenti, la voce e il carattere di personaggi come Topolino si addolciscono sempre di più col tempo per venire incontro ai nuovi gusti, ingentiliti e imborghesiti, del pubblico.
Ma in Giappone, il potenziale del kawaii va oltre la rivoluzionaria presa del potere culturale da parte dell’infanzia sul mondo adulto: l’universo anime/manga è anche radicalmente femminista, anti-machista e gender-bending. L’eroina Sailor Moon, per esempio, manda in frantumi il patriarcato portando sulle pagine dei fumetti e sugli schermi un modello tutto femminile di combattente, usando come armi la sua innocenza e la sua autodeterminazione.
E l’affermarsi di questo immaginario non soltanto ha “ammorbidito” (per alcuni, emasculato) anche i gusti maschili attraverso l’uso di palette di colori, forme, e temi che originariamente avevano più appeal per il pubblico femminile, ma ha anche popolarizzato generi come il boys’ love, ossia le storie d’amore tra ragazzi dello stesso sesso (purché rigorosamente kawaii), la figura di provocanti ragazzine che usano consapevolmente l’erotismo e la propria sessualità come strumenti di potere, e tutta una serie di personaggi transgender (capostipite Lady Oscar) e sessualmente ambigui/neutri. Infantilizzazione non è quindi necessariamente sinonimo di innocenza e verginità, in questo universo.
I critici del kawaii fanno notare come parte integrante del fascino di alcuni di questi personaggi sia la disturbante commistione tra la loro graziosità e la loro deformità, la loro goffaggine, il disagio in cui si trovano in certe situazioni, persino la loro infelicità. «Quanto sono carine le lacrimucce su un bel visino».
«Quanto è carino il bambino vestito da Pikachu che si incastra con il costume fra i tornelli della metro e si dispera». Hello Kitty, regina del kawaii, è kawaii proprio perché è senza bocca e ha gli occhi atrofizzati, per cui la sua faccia risulta del tutto indecifrabile e il suo stato d’animo completamente indeterminato.
Potrebbe gridare interiormente un dolore esistenziale senza fine, ma non è in grado per design di esteriorizzare nulla. C’è quindi una sovrapposizione psicologica tra gli istinti di cura e protezione che da una parte possono essere proiettati su una creaturina adorabile come lei, e dall’altra il sadismo di chi l’ha creata così perversamente menomata al servizio di chi ci può feticisticamente vedere una preda vulnerabile e inerme.
Luce la bocca ce l’ha, ma per design sembra condannata a usarla solo per recitare mantra di sottomissione alla regina del kitsch cattolico. In ogni caso, nel suo inserirsi incondizionatamente nella corrente del kawaii giapponese, non comunica solo di appartenere genericamente alla cultura pop che incontra i gusti dei più giovani, come vorrebbe far pensare l’operazione di marketing del Vaticano, ma diventa necessariamente simbolo di un mondo che ha abbandonato o fortemente sfumato le sacre, dogmatiche dicotomie tra maschile e femminile, infante e adulto, transiente ed eterno, sessuale e non sessuale, assoluto e contingente, e persino tra bene e male.
Luce non fa soltanto storcere il naso a chi è abituato ad altro tipo di iconografia per la religione, ma in una sola immagine riesce a contraddire tutto ciò che la chiesa cattolica rappresenta e difende filosoficamente e teologicamente da sempre, intaccando il suo core business. E sembra farlo in modo inconsapevole, un po’ goffo, un po’ frivolo, un po’ ingenuo. Adorabile!
Paolo Ferrarini
Approfondimenti
- Joshua Paul Dale, Irresistible, Profile Books, 2023
- Simon May, The Power of Cute, Princeton University Press, 2019
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Ci manca solo una “aureola rotante !”
Forse i piu’ giovani non afferrano il collegamento ?
Sono ben altre le cose che riescono a farci ruotare!
Per esempio gli imperdibili aggiornamenti sulla bronchite papale.
E quando ci informano che ‘lui’ lavora nonostante giaccia nel suo letto di dolore…….
@Diocleziano
“..lui lavora..”
Che c’e da meravigliarsi?
Wojtyla ha continuato a scrivere libri quando a guardarlo sembrava non fosse piu’ neanche in grado di leggerli.
E c’e’ chi non crede nei miracoli !
L’hanno trovata. Oggi Repubblica parlava del grande arcobaleno sopra l’ospedale Gemelli, con foto ovviamente. Adesso anche l’arcobaleno è un segno divino.
Quanti saranno i ‘credenti’ che penseranno davvero che l’arcobaleno era sopra l’ospedale Gemelli? Cioè, chi era a Tor Pignattara lo vedeva lì, e chi era a Reginacoeli…