Non solo clericalate. Seppur spesso impercettibilmente, qualcosa si muove. Con cadenza mensile vogliamo darvi anche qualche notizia positiva: che mostri come, impegnandosi concretamente, sia possibile cambiare in meglio questo Paese.
La buona novella laica di febbraio è l’approvazione di una legge che consente l’accesso al suicidio assistito da parte del Consiglio della Regione Toscana, sulla base delle linee guida tracciate dalla Corte Costituzionale con la sentenza 242/2019. Hanno votato a favore Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Italia Viva e gruppo Misto-Merito e Lealtà, contro Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega, mentre non ha partecipato la consigliera Lucia De Robertis (Pd). La proposta di legge di iniziativa popolare era stata sostenuta dall’Associazione Luca Coscioni e altre realtà, con il deposito di 10 mila firme presso la presidenza del Consiglio toscano nel marzo del 2024. La norma, illustrata dal presidente della Commissione Sanità Enrico Sostegni (Pd), prevede l’istituzione di una commissione medica multidisciplinare nelle Asl e stabilisce che le strutture sanitarie debbano fornire il dovuto supporto per l’accesso al suicidio assistito, con costi a carico del servizio sanitario (al momento sono stati stanziati 10 mila euro l’anno). Il governatore Eugenio Giani ha commentato: «Oggi dalla Toscana arriva un forte messaggio di civiltà, colmiamo una lacuna e compiamo per primi un salto in avanti rispetto ad altre Regioni e allo stesso Parlamento che era stato chiamato dalla sentenza della Corte costituzionale a pronunciarsi», spronando proprio il Parlamento a legiferare.
Se il governo Meloni si è mostrato guardingo, valutando il ricorso contro la legge regionale toscana sul fine vita, il ministro della Salute Orazio Schillaci ha affermato che «i tempi sono maturi per una buona legge per tutti»: «è importante trovare una sintesi, non si possono lasciare le singole Regioni a fare fughe in avanti. Si tratta di un argomento complesso, ma al di là delle diverse sensibilità politiche credo sia importante trovare una sintesi». Anche il governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana ha visto «molto positivamente» l’apertura del ministro: «è necessaria una legge nazionale, perché si tratta di una competenza concorrente. La legge cornice dovrà essere realizzata dallo Stato poi le Regioni approveranno una legge di dettagli». Alessandra Maiorino, senatrice M5S, spiega che il Parlamento «deve assumersi le proprie responsabilità e accelerare sull’approvazione di una legge che sia pienamente in linea con i principi dettati dalla Corte Costituzionale». Licia Ronzulli di Forza Italia ha commentato che «non si può lasciare questa materia in mano ai Tribunali, nell’incertezza giuridica, altrimenti ci saranno sentenze ognuna diversa dall’altra, o assisteremo ad un Far West di leggi regionali».
Diversi esponenti politici sono però scettici sulle intenzioni del ministro Schillaci. Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra, si è chiesta se «significa che vuole mettere un freno rispetto alle norme esistenti che consentono l’accesso al percorso di fine vita? Sarebbe molto grave. Se, invece, parla di una legge che consenta il fine vita ovunque, allora convinca la sua maggioranza, piuttosto che parlarne in TV». Dalla maggioranza parlamentare arriva qualche segnale di incoraggiamento. Il senatore Pierantonio Zanettin (Forza Italia), capogruppo in Commissione Giustizia, ha commentato: «Finalmente sembra esserci un consenso politico sulla necessità di una legge. Fino a poco tempo fa, c’era chi sosteneva che qualunque norma si fosse fatta, sarebbe stata sbagliata. Ora possiamo iniziare a discutere i contenuti». Dal canto suo il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè (FI) chiede di accelerare: «Il Parlamento deve darsi una mossa. Dal 2019 c’è una sentenza chiarissima della Corte Costituzionale a cui abbiamo il dovere di adeguarci. Anche se siamo alleati di FdI e Lega, Forza Italia deve seguire la propria strada, che è quella dei diritti e delle garanzie». Da marzo il comitato ristretto delle Commissioni Giustizia e Affari Sociali dovrebbe redigere un testo base per una legge sul fine vita.
Dal centrodestra una delle voci più nette a favore di una legge sul fine vita è quella del presidente del Veneto Luca Zaia che, intervistato da La Repubblica, ha spronato per una legge nazionale invece di «nascondere la testa sotto la sabbia. Fare finta che il fine vita non ci sia». «Sui temi etici non deve prevalere la casacca politica. Vedo in giro un dibattito che non capisco. Un grande festival dell’ipocrisia», ha aggiunto, criticando l’approccio di Fratelli d’Italia che punta molto sull’approccio palliativista: «c’è un ma: i malati terminali che chiedono l’accesso alla procedura di fine vita rifiutano le cure palliative, facendo una scelta intima e personale. La loro richiesta a un certo punto non ha più nulla a che fare col dolore insopportabile, ma con la dignità di quella condizione dell’ultima fase della loro vita». Zaia così commenta la posizione contraria della Chiesa cattolica: «Ma cosa c’è di nuovo nella legittima posizione della Chiesa? Lo dico con rispetto, da cattolico. Ricordo anche che la Chiesa era contraria al divorzio e all’aborto. È doveroso rispettare le idee di tutti, non offendere nessuno, ma il mantra per me resta: la tua libertà finisce dove inizia la mia e viceversa». Il governatore Zaia aveva inoltre fatto sapere che la Regione Veneto stava lavorando per un regolamento volto a dare attuazione alla sentenza della Corte Costituzionale.
Il consigliere provinciale altoatesino Franz Ploner (Team K) ha presentato un disegno di legge sul fine vita. «A cinque anni dalla sentenza lo Stato italiano non ha ancora creato un quadro normativo di riferimento», ha spiegato Ploner, «è giunto il momento che anche noi in Trentino-AltoAdige, seguendo l’esempio della Toscana e del Veneto, iniziamo un dibatto per regolamentare questa materia eticamente e giuridicamente molto complessa».
La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile una questione di legittimità sollevata dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte in merito all’imposta sugli immobili a uso “misto” degli enti ecclesiastici per le annualità precedenti al 2012. Il tribunale contestava l’applicazione del decreto legislativo n. 504 del 1992 perché non sarebbe stato possibile lo scorporo delle superfici degli immobili ecclesiastici per distinguere le porzioni per le attività di culto e quelle a uso commerciale, finendo per tassare anche la parte riservata ai riti religiosi in violazione del Concordato. Ma la Corte Costituzionale ha respinto la questione di legittimità perché il Concordato di per sé non stabilisce un’esenzione per le attività religiose ma le equipara a quelle di beneficenza e istruzione, perché i giudici tributari non hanno tenuto conto della normativa europea e non veniva chiarito che il fabbricato oggetto del contendere fosse all’epoca frazionabile, dato che l’obbligo di frazionamento era stato stabilito solo con il passaggio dall’Ici all’Imu.
Potere al Popolo e diverse associazioni hanno contestato la gestione del giubileo da parte delle istituzioni, anche con una manifestazione davanti alla sala cinema Cerone a Roma dove si stava tenendo un incontro con diversi politici sul “giubileo delle periferie”. In un comunicato i promotori della protesta hanno denunciato la connivenza tra Comune di Roma, Regione Lazio e governo Meloni «per garantire la “governabilità” della città in vista dello svolgimento del Giubileo ed oltre. Un grande evento che rappresenta solo l’ennesima scusa per imporre un’accelerazione dei progetti di speculazione e svendita ai privati imponendo al contempo la pace sociale». Nel comunicato si legge: «Respingiamo il Modello Giubileo condiviso da tutti i partiti e le istituzioni, che porta avanti l’interesse del privato e che in nome dell’“efficienza” restringe gli spazi di democrazia e partecipazione decisionale».
Il Senato ha approvato all’unanimità una mozione della senatrice a vita Elena Cattaneo che chiede un finanziamento stabile a favore della ricerca scientifica, con bandi e tempistiche certe e la costituzione di un’agenzia indipendente per la valutazione dei progetti. La ministra dell’Università e della ricerca Anna Maria Bernini ha espresso parere favorevole, «al netto delle dissonanze concettuali».
Il gruppo consiliare regionale in Friuli Venezia Giulia di Open Sinistra Fvg ha collaborato con il circolo Uaar di Pordenone e con il Cicap al Darwin Day organizzato il 14 febbraio presso l’Auditorium della Regione, con un dibattito sulla disinformazione e le bufale tra il consigliere regionale Furio Honsell e il divulgatore Paolo Attivissimo. «Ancora oggi, concetti fondamentali come la teoria dell’evoluzione sono oggetto di distorsioni mediatiche e strumentalizzazioni ideologiche», ha spiegato Honsell. «Questo incontro rappresenta un’opportunità per approfondire tali questioni e per analizzare i meccanismi con cui credenze errate e informazioni fuorvianti si diffondono, spesso alimentate da interessi politici ed economici». «Difendere il metodo scientifico – ha aggiunto l’esponente di Open – significa difendere la democrazia. In un periodo caratterizzato da una crescente sfiducia nelle istituzioni e nella competenza degli esperti, diventa cruciale promuovere il pensiero critico e la cittadinanza consapevole».
La Cassazione ha respinto il ricorso di un imam condannato per istigazione all’odio etnico e razziale a causa delle sue dichiarazioni contro ebrei e cristiani. Il religioso, recluso nel carcere di Alessandria, nel corso di sermoni del venerdì e conversazioni con altri detenuti si era scagliato contro i non musulmani. La Cassazione ha ribadito quanto affermato dalla Corte d’Appello, chiarendo che «lo sfondo religioso non giustifica in alcun modo le manifestazioni di odio che l’imputato rivolgeva a un popolo – il popolo ebraico – in modi del tutto inequivoci nei sermoni oggetto di registrazione». «Augurare una “brutta morte” ai nemici ebrei, rievocare il loro sterminio, invocarne il “massacro” sono espressioni che integrano pienamente la fattispecie incriminatrice», hanno aggiunto i giudici. La Suprema Corte inoltre ha ribadito, come avevano fatto i giudici di appello, che «l’indicazione di avversione verso gli ebrei non ha fondamento religioso, posto che gli ebrei sono un popolo e una etnia. Analogo discorso vale per i cristiani».
La Corte d’Appello di Ancona ha accolto il ricorso di una donna del Bangladesh contro la trascrizione presso il Comune del ripudio islamico effettuato dal marito nel paese d’origine all’insaputa dell’ex moglie. La legge del Bangladesh infatti consente al marito di divorziare manifestando semplicemente questa volontà, sulla base del principio religioso del “talaq”. La donna, madre di due figli minorenni, aveva intenzione di separarsi dal marito perché per anni questi l’avrebbe maltrattata: solo avviando le pratiche di separazione si era accorta che per l’anagrafe del Comune di Ancona risultava già divorziata per volontà del marito, in quanto l’amministrazione aveva recepito la documentazione fornita dall’ambasciata. La donna ha quindi fatto ricorso e ha ottenuto la cancellazione della registrazione del ripudio perché questo «è discriminatorio, non riconosciuto nell’ordinamento giuridico italiano, e solo il marito è abilitato a liberarsi del vincolo matrimoniale», mancando «il diritto di difesa della moglie e la garanzia dell’effettività del contraddittorio». Gli avvocati Bernardo Becci e Andrea Nobili, che hanno difeso la donna, avevano criticato il «provvedimento oscurantista perché contrario all’ordine pubblico in quanto discriminatorio e in violazione del principio di parità difensiva tra uomo e donna». Hanno così celebrato la sentenza: «si tratta di una delle prime pronunce di questo genere in Italia che apre le porte a una riflessione sulla compatibilità di regole appartenenti ad altre culture con i valori della nostra civiltà giuridica». Dal canto suo il legale dell’ex marito sta valutando il ricorso e ha ribadito: «Le pratiche fatte dal mio assistito e dal Comune di Ancona erano tutte regolari e non c’è stata alcuna violazione dei diritti fondamentali. L’ufficio Anagrafe non poteva esimersi dall’annotare l’atto di divorzio come richiestogli legittimamente dal mio cliente».
La Lega sta elaborando una proposta di legge contro il velo integrale a scuola, dopo il caso salito agli onori della cronaca dell’Istituto superiore “Sandro Pertini” di Monfalcone, dove cinque ragazze indossano il niqab durante le lezioni e hanno alcune prerogative religiose (ad esempio vengono identificate da una donna all’inizio della giornata in un’aula a parte e sono dispensate dalla corsa, sostituita dal badminton). Il senatore Marco Dreosto, segretario leghista in Friuli, ha annunciato un progetto di legge per vietare il velo integrale nei luoghi pubblici. L’iniziativa ha il consenso del consigliere regionale di Forza Italia Roberto Novelli: «Se iniziamo ad abbassare la guardia, sdoganiamo addirittura il niqab, che è la negazione della libertà. Chi sceglie di trasferirsi in occidente deve accettare le nostre regole». Anche il consigliere Pd e candidato a sindaco Diego Moretti ha definito il velo a scuola un «ostacolo alla piena ed effettiva integrazione», chiedendo una interpretazione univoca da parte dell’ufficio scolastico regionale sulla questione perché «non può essere lasciata all’autonoma gestione del singolo dirigente scolastico». «Non possiamo accettare un principio per cui oggi il regime iraniano incarcera e tortura le ragazze che non vogliono coprirsi i capelli», ha aggiunto. Tale pratica «non è un ostacolo solo al riconoscimento della persona, ma lo è al processo di integrazione». L’assessore regionale all’Istruzione Alessia Rosolen è intervenuta nel dibattito sul caso di Monfalcone affermando che «il velo integrale non è l’espressione di una cultura, ma è lesivo della dignità, della libertà e del rispetto verso le donne» e che «il niqab non deve trovare posto nelle nostre scuole che sono luogo di integrazione, confronto e inclusività». L’assessore ha chiesto «con urgenza una riflessione prima politica e poi legislativa» «per evitare che le ragazze straniera abbandonino la scuola» e a comunque difeso la dirigente scolastica dell’istituto, che ha rispettato le norme: «è sulle norme che bisogna agire, non sugli effetti della loro mancanza, abbandonando le persone alle proprie responsabilità».
Anche in Lombardia il tema è stato affrontato con una doppia mozione in Consiglio regionale della Lega e del Pd. I leghisti chiedono di «sollecitare il Governo e il Parlamento ad adottare iniziative legislative volte a introdurre misure che vietino l’utilizzo del velo islamico come burqa o niqab nei luoghi e negli edifici pubblici nonché all’interno delle scuole». Silvia Scurati, prima firmataria della proposta, difende la sua iniziativa chiedendo il rispetto della delibera approvata dalla Regione Lombardia nel 2015 sul divieto di coprire il volto nei luoghi pubblici: «crediamo nell’integrazione vera: quando saranno adulti potranno fare tutto ciò che credono, ma noi riteniamo che poter consentire alle bambine di crescere insieme alle proprie coetanee in maniera paritaria, ugualitaria, nel modo di vestire, nel modo di comportarsi, possa essere un lascia passare per la vera integrazione». In risposta il Partito Democratico ha criticato l’iniziativa ribadendo che «nessuno può imporre alle donne come vestirsi, sia esso uno Stato, una Regione, una famiglia, singoli individui o altro, riaffermando la centralità dei diritti delle donne e della loro autodeterminazione», chiedendo la piena applicazione della legislazione in vigore. Anche Nicola Di Marco, capogruppo del Movimento 5, Stelle ha criticato la «solita trovata becera di strumentalizzazione che vuole colpire una comunità integrata». Dal canto suo il capogruppo Pd Pierfrancesco Majorino ha parlato di «ossessioni» della Lega perché «c’è già una legge molto chiara su questo, non è che si può andare in giro in tutti i luoghi a volte coperto».
La storica esponente dei radicali e senatrice di +Europa Emma Bonino ha invece contestato in un’intervista all’Huffington Post la decisione dell’istituto di Monfalcone: «le scuole italiane si troveranno sempre più a dover affrontare questo tipo di situazioni. Io sono contraria al velo integrale e penso che non si debba entrare nei luoghi pubblici in maniera irriconoscibile». «Questo non c’entra nulla con l’Islam: in una società libera vige l’obbligo della riconoscibilità personale e fisica dei cittadini», ha ribadito. «Le istituzioni scolastiche, comunali o regionali dovrebbero responsabilizzare i genitori e la loro famiglia in generale», ha aggiunto Bonino, «l’integrazione passa anche dall’accettazione delle regole della società in cui si va a vivere. L’Italia non è il Bangladesh, i genitori delle ragazze dovrebbero saperlo. Ripeto, non c’entra nulla la religione, ma le regole che la nostra società si è data».
La redazione