Superavano di poco il milione nel 2020/21, hanno raggiunto quota 1.164.000 nel 2023/24. Nelle scuole statali italiane le scelte di non frequentare l’insegnamento della religione cattolica (Irc) crescono a un ritmo di cinquantamila l’anno, nonostante il calo demografico comporti contestualmente una diminuzione annua della popolazione studentesca di centomila unità. La disaffezione per l’ora di religione si diffonde in tutto il paese, ma con accelerazioni di entità diversa che provocano divisioni tra Nord e Sud e tra città e provincia.
Sono queste le prime considerazioni basate sui dati resi liberamente accessibili grazie all’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (Uaar), che aderisce alla campagna #datiBeneComune e che per la terza volta ha utilizzato la normativa conosciuta a livello internazionale come Foia (Freedom of Information Act), volta a garantire ai cittadini il diritto di ottenere le informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni.

Gli accessi civici generalizzati al ministero dell’Istruzione e del merito e alle province autonome di Trento e di Bolzano e l’elaborazione dei dati ottenuti – con l’esclusione precauzionale dalle statistiche di quelli ritenuti inattendibili – permettono oggi di interrogare le scelte relative all’Irc con aggregazioni geografiche e con dettaglio per singolo istituto, con uno storico che parte dall’anno scolastico 2018/19 e arriva al più recente 2023/24, i cui dati sono stati resi disponibili dall’Uaar nei giorni scorsi.
Aggregando le preferenze espresse da studenti e famiglie in merito alla frequenza dell’Irc nelle scuole delle città capoluogo si registra l’epocale sorpasso dei “no” a Firenze (51,51%), con altri quattro comuni nei quali più di quattro studenti su dieci non frequentano le lezioni conformi alla dottrina della Chiesa: Bologna (47.29%), Aosta (43,58%), Biella (40,62%) e Mantova (40,54%).
Per avere percentuali inferiori al 3% occorre spostarsi all’estremo opposto della penisola, a Taranto, Benevento e Barletta. Ad analogo risultato si arriva allargando l’aggregazione all’intera provincia: si passa dal 39,79% di Firenze e dal 38,15% di Bologna (più basse rispetto a quelle del comune capoluogo) al 2,93% di Napoli. E così anche considerando le regioni: 32,53% di “no” all’Irc in Valle d’Aosta, 3,28% in Campania.
Oltre alla spaccatura del gruppo classe in tenera età (si pensi a bambine e bambini della scuola primaria che per due ore la settimana vengono separati in base alle scelte religiose dei genitori), l’Irc riesce quindi a dividere anche in base alla latitudine e alla distanza dai grandi centri abitati. I dati ministeriali pubblicati dall’Uaar evidenziano queste oggettive differenze e tanto è bastato al segretario Orazio Ruscica dello Snadir, il più importante sindacato degli insegnanti di religione cattolica, per lanciare l’accusa di “strisciante e spiacevole razzismo territoriale”.
Una più pacata e razionale analisi avrebbe portato a differenti considerazioni. Non è forse probabile che dove incide maggiormente il condizionamento sociale e la pressione identitaria cattolica (Sud e piccoli centri abitati) sia davvero difficile esercitare liberamente il diritto a un’attività didattica alternativa all’Irc?
Garantire il diritto all’istruzione, questa dovrebbe essere la principale preoccupazione del corpo docente della scuola pubblica. Ma ci sono insegnanti di religione che addirittura vogliono opporsi in sede di collegio docenti al principio che “anche i bambini dell’attività alternativa hanno il diritto di avere un testo sul quale lavorare”.
In questa crociata vengono spalleggiati da esperti della Cei che sostengono che “far acquistare allo Stato un libro di alternativa anziché di religione è un furto”. Sono frammenti di uno scambio presente nella sezione “Domande e risposte” di culturacattolica.it, una dimostrazione concreta del fatto che alla pressione sociale si aggiungono, all’interno delle scuole, metodi organizzati per ostacolare la pari dignità educativa di bambine e bambini che non si avvalgono dell’Irc.
Sia chiaro: sicuramente ci sono bravi insegnanti di religione cattolica e ce ne saranno anche che hanno votato a favore dell’adozione del libro di testo per il programma di attività alternativa contrariamente agli odiosi consigli di certi esperti Cei, che ritengono inaccettabile la discriminazione infantile praticata ancora in troppe scuole ai danni degli scolari non avvalentisi ai quali, fin dal primo giorno di scuola, dovrebbero essere garantiti insegnante, aula e programma didattico alternativo.
Ma diciamo le cose come stanno: il reclutamento dei docenti di religione cattolica nella scuola pubblica è la più grande forma di clientelismo in Italia. È infatti l’unico caso di dipendenti pubblici che per ricevere lo stipendio statale devono presentare la lettera di “idoneità diocesana” rilasciata a insindacabile giudizio del vescovo.
Su questa affermazione non sono per niente d’accordo i portavoce di altri sindacati che tutelano i docenti di religione cattolica, Sair e Fesnir, secondo i quali è necessario “un titolo di studio adeguato” e il superamento di concorsi “il cui programma di esame è identico a quello previsto per qualsiasi altro concorso pubblico nella scuola”.
Sfugge un dettaglio: nessun altro concorso pubblico prevede come requisito per partecipare la presentazione della “certificazione dell’idoneità diocesana rilasciata dal Responsabile dell’Ufficio diocesano competente nei novanta giorni antecedenti alla data di scadenza”, come riportato alla pagina Chi partecipa del sito del ministero.
Ancora più surreale l’affermazione che “se un docente deve insegnare cristianesimo e cattolicesimo, è logico che debba conoscerne e condividerne la dottrina”. Su un certo grado di conoscenza si può essere d’accordo, sulla condivisione (certificata da un vescovo poi) niente affatto. È un principio che può valere in una scuola privata cattolica, non certo in una scuola pubblica di uno Stato laico dove religioni e filosofie non religiose devono essere studiate in maniera critica, compito che può benissimo essere svolto dai docenti delle materie di storia, filosofia, arte, letteratura, geografia.
Consideriamo infine la frequente e sbrigativa interpretazione data all’incessante crescita dei no all’ora di religione, secondo cui si spiegherebbe tutto con l’incremento delle famiglie di origini straniere. È un fattore che ha un peso, ma di misura più limitata di quanto si possa pensare. Partiamo da una premessa: non frequentare insegnamenti dottrinali a scuola è una scelta a favore della laicità dell’istruzione pubblica a prescindere che venga espressa da atei, cattolici o fedeli di religioni di minoranza.
Se a Firenze e Bologna il 50% degli studenti dice no all’Irc si deve riconoscere che l’immigrazione c’entra poco, perché in quelle città gli stranieri sono circa il 20% e una parte di essi la frequenta. Si giunge alla stessa conclusione guardando le percentuali dei no di tanti licei, istituti dove scarseggiano ragazze e ragazzi di origine straniera.
Ad esempio allo scientifico Copernico, da anni al vertice della classifica bolognese delle migliori scuole formulata da Eduscopio, solo uno studente su tre rimane in classe quando entra il docente scelto dal vescovo. Ai licei artistici le scelte laiche sono ancora più marcate e raggiungono l’85% al Leon Battista Alberti di Firenze, che detiene il record a livello nazionale.
Una spiegazione molto più convincente è invece lo straordinario allontanamento dalla pratica religiosa degli italiani, testimoniato da indagini sociologiche nazionali tra le quali diverse commissionate da organizzazioni cattoliche. È di pochi giorni fa il sondaggio dell’autorevole istituto di ricerca demografica internazionale Pew Research Center che colloca l’Italia al primo posto dei paesi per abbandono della religione a favore di scelte di vita atee e agnostiche.
Per ogni conversione in senso religioso sono 29 gli italiani che, diventati adulti, hanno abbandonato la fede nella quale erano stati cresciuti e non si sono affiliati ad altre religioni. Logico aspettarsi che sia sempre meno condivisa la scelta di far frequentare ai propri figli una materia facoltativa di stampo confessionale tra le mura della scuola pubblica.
In attesa che il ministero dell’Istruzione e del merito aggiunga la possibilità di scaricarli liberamente dal Portale unico dei dati della scuola, anche per i prossimi anni l’Uaar si impegna a rendere pubblici i dati sulla non frequenza dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole italiane. Per consultarli basta cliccare qui.
Roberto Grendene
Articolo pubblicato su MicroMega il 10 aprile 2025.
Secondo i dati del ministero nel 2023 gli studenti stranieri rappresentavano poco più dell’11 % degli studenti nella scuola pubblica. La loro crescita è stata rilevante tra 25 e 10 anni fa circa, ma negli ultimi 10 anni la crescita è stata contenuta, di circa 100 mila studenti, pari a circa il 10 % degli studenti stranieri.
Ma essere stranieri non vuol dire non essere cattolici o cristiani. Le analisi indicano che una quota del 30 % circa è cattolica e complessivamente il 50 % cristiana. Inoltre le stesse analisi della chiesa cattolica indicano che circa il 50 % degli studenti stranieri si avvarrebbe dell’ora di religione cattolica e che questa quota sarebbe in crescita. Magari questo avviene per voglia di integrarsi in un paese identificato come cattolico o perchè raggirati dalla propaganda che fa credere che l’ora di religione cattolica sarebbe un’ora sulle religioni (basterebbe guardarsi il programma ufficiale approvato dal ministero per rendersi conto quanto questo aspetto sia marginale e soprattutto affrontato in modo propagandistico cattolico) e che l’ora di alternativa sarebbe un’ora di ateismo. Quindi la presenza di studenti stranieri spiega solo parzialmente il calo degli avvalentisi, calo che sarebbe molto più consistente se si combattesse ad armi pari.
Scandalosa l’interpretazione dei privilegiati insegnanti cattolici che un testo di alternativa a carico dello stato sarebbe un furto: significa ritenere la sola ora di religione cattolica lecita.
“se un docente deve insegnare cristianesimo e cattolicesimo, è logico che debba conoscerne e condividerne la dottrina”. Se deve condividere la dottrina cattolica e, quindi, essere approvato dal vescovo non diventa più un’ora sulle religioni o sul cristianesimo, ma solo di religione cattolica e visione dal punto di vista cattolico delle altre religioni da parte di un propagandista cattolico. Per parlare di cristianesimo sarebbero altrettanto validi insegnanti sia protestanti che ortodossi, mentre per parlare di religioni in generale storici delle religioni o rappresentanti di quelle religioni.