Una culla per la morte

Un neonato muore in una culla termica difettosa in una parrocchia barese: il tragico caso rivela le criticità delle “culle per la vita” spesso appaltate a realtà religiose. Affronta il tema Adele Orioli sul numero 2/2025 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.


Il 2 gennaio del 2025 a Bari, in un anfratto della chiesa di San Giovanni Battista, un neonato di poche settimane è morto di ipotermia, di freddo, a causa di una serie di malfunzionamenti congiunti di un marchingegno che potremmo assimilare alla ruota degli esposti versione secondo millennio.

Una culla termica, il cui tappetino, scoperto poi difettoso, gravato dal peso dell’infante lì deposto avrebbe dovuto attivare un allarme telefonico; e il cui impianto di riscaldamento, anch’esso automatizzato, a causa di una perdita di gas è entrato sì in funzione, ma per emettere aria gelida. E complice, ultimo ma non meno importante fra i fattori, il parroco in trasferta nella capitale per una delle innumerevoli iniziative giubilari, ci sono voluti più di due giorni, e chissà quante ore di agonia per il piccolo, prima del tragico ritrovamento.

La sfortunata vittima è stata ovviamente battezzata (Angelo, per la precisione) ed è stata cattolicamente salutata prima, e sepolta poi, a spese della città; nel mentre la procura procedeva a indagare per omicidio colposo tanto il parroco, fautore della installazione della culla nel 2014 e che prima del tragico episodio era già correttamente entrata in funzione due volte, quanto il tecnico che era intervenuto più volte sul macchinario nel corso del dicembre antecedente a causa di blackout e corto circuiti non bene specificati.

Non solo: la procura procedeva anche contro ignoti per abbandono di minori, cosa che al profano può sembrare persino maggiormente fuori luogo rispetto all’avviso di garanzia al parroco.

Ma la verità è che chi lascia i neonati in questi luoghi, chiamati con crudele ossimoro in riferimento alla vicenda in questione “culle per la vita”, commette (almeno un) reato.

La legge (decreto del presidente della Repubblica 396/2000) consente infatti di partorire in ospedale in completo anonimato senza riconoscere il bambino e di lasciarlo presso la struttura sanitaria in stato di adottabilità, con un congruo termine per l’eventuale ripensamento, e garantendo in caso contrario la non rintracciabilità anagrafica della puerpera («nato da donna che non consente di essere nominata» è la dicitura esatta).

Ma non prevede né permette che, tra il romanzo d’appendice e l’edulcorazione passatista, si possano lasciare al riparo da occhi indiscreti teneri fagotti in giro per il mondo, pardon, per le parrocchie, persino quando queste siano tecnologicamente avanzate.

Eppure pare che di queste culle in Italia ne esistano più di una sessantina: in effetti nel bilanciamento sostanziale piuttosto che formale, forse meglio incoraggiare il reato di abbandono piuttosto che quello di infanticidio. Ancor meglio sarebbe fornire adeguata educazione e adeguati strumenti per evitare, se non del tutto, almeno la maggioranza delle gravidanze non desiderate; e al contempo facilitare le procedure di adozione anche ampliandone le categorie dei beneficiari, ma queste sono altre e non molto incoraggianti storie.

Quel che però sconcerta è che a quanto pare nemmeno questo tremendo caso di cronaca è riuscito a mettere in discussione che queste culle non siano solo dove, nel caso ammesso e non del tutto concesso, avrebbero senso di essere, e cioè presso gli ospedali. Dove magari a prescindere dall’automazione del sensore ci sono meno possibilità che un neonato muoia solo e straziato senza che nessuno se ne accorga per giorni. E invece.

Invece ad esempio nel Lazio solo una delle tre strutture presenti è situata presso una struttura sanitaria pubblica, il policlinico Casilino di Roma; le altre due si trovano presso una sede del Movimento per la vita (Civitavecchia) e un’altra presso l’istituto delle suore di carità di Cassino.

In giro per l’Italia ne troviamo altre presso Rotary e Lions clubs (sic), dalle monache benedettine, in parrocchie varie, principalmente presso i cosiddetti centri di aiuto alla vita. In ogni caso ovunque sul loro sito è presente un disclaimer: per qualsiasi informazione sul parto in anonimato e sulle procedure per affido e adozione si deve andare dai servizi sociali del comune di riferimento, mica da loro. Il pupo te lo prendo, ma tu fatti aiutare da qualcun altro, insomma.

D’altronde l’ideatore del brand “Culla per la vita” altri non è che Giuseppe Garrone, morto da tre lustri e dottor fondatore della costola italica del famigerato Movimento per la vita, uno tra i principali gruppi antiscelta nazionali e internazionali.

A ogni modo vengono anche pubblicati i dati sull’utilizzo: dal 1993 a oggi, con 64 culle, sono stati depositati 13 neonati. Non sappiamo se è compreso quello morto a Bari, in ogni caso una media di 0,59 bimbi l’anno, a fronte di circa tremila parti in anonimato ogni anno. Che, sia detto, vedono coinvolte nell’oltre 70% dei casi donne italiane, prima che i puristi della razza possano spaventarsi e accusare le puerpere di sostituzione etnico-orfanotrofiale.

Il dato del sostanziale inesistente utilizzo delle culle per la vita è incoraggiante, e va detto senza ironia. Intanto perché a giudicare dal caso barese per crudele e amorale probabilità statistica probabilmente ne sarebbero morti di più, di neonati. Ma anche e soprattutto perché forse si intravede un barlume di razionalità, di adeguata protezione del minore e della donna che non ne vuole essere madre: protezione che è lo Stato e solo esso a dover fornire e garantire in modo equanime, con strutture adeguate anche sotto il profilo tecnologico.

E soprattutto al di là del perdurante stigma che reputa “innaturale” e sempre e comunque biasimevole il rifiuto della genitorialità – femminile, ça va sans dire – come è risultato evidente da un simile caso di cronaca, per fortuna senza morto, quello del piccolo Enea lasciato alla clinica Mangiagalli di Milano, di cui abbiamo parlato in queste pagine.

Probabilmente entrambi i procedimenti della procura di Bari si concluderanno in un nulla di fatto, che sia archiviazione o un non luogo a procedere poco importa. E in tutta onestà anche infierire sul singolo parroco, complice ma anche in parte vittima di un sistema generalizzato e tollerato ove non direttamente incoraggiato, non sarebbe certo né una soluzione né un miglioramento.

Ma che anche un caso del genere contribuisca ad aprire gli occhi sulla inefficacia di una stereotipata e dogmatica difesa della vita, sulla assurdità di una presunzione di wolfismo cattolico integralista («Sono Wolf, risolvo i problemi», recita una nota battuta di un film di Tarantino) sì, questo sì, è non solo lecito ma soprattutto urgente augurarselo.

Adele Orioli

 


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